Tempo storico e ritmi politici

Contrariamente a un’idea troppo diffusa, Marx non è un filosofo della storia. È piuttosto, e ben prima delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, L’eternità attraverso gli astri di Blanqui, la Clio di Péguy, le tesi di Walter Benjamin sul concetto di storia, o il libro postumo di Siegfried Kracauer sulla Storia, uno dei primi ad aver rotto categoricamente con le filosofie speculative della storia universale: provvidenza divina, teleologia naturale o odissea dello Spirito. Questa rottura con le “concezioni veramente religiose della storia” è consacrata dalla formula definitiva di Engels nella Sacra famiglia: “La storia non fa niente!”. Questa constatazione lapidaria esclude ogni personificazione antropomorfica della storia, trasformata in un personaggio onnipotente che tirerebbe i fili della commedia umana alle spalle degli esseri umani reali. Essa viene sviluppata e declinata a più riprese nel corso dell’Ideologia tedesca.

La storia non fa niente

Nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels rigettano una visione apologetica della storia secondo la quale tutto ciò che accade doveva necessariamente accadere, perché il mondo fosse com’è oggi e perché diventassimo ciò che siamo: grazie a degli artifici speculativi, si può far credere che la storia futura sia lo scopo della storia passata. Questa trasformazione in fato del divenire storico elimina ancora una volta i “possibili laterali” (secondo l’espressione di Pierre Bourdieu) che tuttavia non sono meno reali (nel senso di una Reale Mòglichkeit) del fatto compiuto risultante da una lotta incerta.

Questa critica marxiana della ragione storica e dell’ideologia del progresso anticipa quella impietosa di Blanqui al positivismo in quanto ideologia dominante dell’ordine costituito. Nei suoi appunti del 1869, alla vigilia della Comune, l’irriducibile ribelle scriveva, infatti: “Nel processo del passato al cospetto del futuro, le memorie contemporanee sono i testimoni, la storia è il giudice, e l’arresto è quasi sempre un’iniquità, o per la falsità delle deposizioni, o per la loro assenza o per l’ignoranza del tribunale. Fortunatamente, l’appello rimane sempre aperto e la luce dei secoli nuovi, proiettata da lontano sui secoli trascorsi, denuncia il giudizio delle tenebre”. La storia, quindi, non è né un tribunale, né un deus ex machina, né un demiurgo. E quando si pretende tale, non è in realtà altro che un cenacolo di giudici asserviti a falsi testimoni.

Infatti, l’appello al giudizio della storia finisce, come ha scritto Massimiliano Tomba, per precludere la questione della giustizia. È ciò che constatava già Blanqui: “Dalla sua pretesa scienza della sociologia, come della fiosofia e della storia, il positivismo esclude l’idea di giustizia. Esso non ammette che la legge del progresso continuo, la fatalità. Ogni cosa è perfettamente adeguata al suo momento, perché occupa un posto nella serie dei perfezionamenti. Tutto è sempre meglio. Non esiste un criterio per valutare il buono o il cattivo”. Per Blanqui, il passato rimane quindi un campo di battaglia sul quale il giudizio delle armi e il fatto compiuto non provano nulla quanto alla distribuzione del giusto e dell’ingiusto: “Dal momento che le cose sono andate in questo modo, sembrerebbe che non sarebbero potute andare diversamente. Il fatto compiuto possiede una potenza irresistibile. Esso è il destino stesso. Lo spirito ne viene prostrato e non osa ribellarsi. Terribile forza per i fatalisti della storia, adoratori del fatto compiuto! Tutte le atrocità del vincitore, la lunga serie dei suoi attentati sono freddamente trasformati in ineluttabile evoluzione regolare, come quella della natura”. Ma “l’ingranaggio delle cose umane non è fatale come quello dell’universo: è modificabile a ogni istante”. Perché, aggiungerà Benjamin, ogni minuto è una porta stretta dalla quale può sorgere il Messia.

A questo culto, che fa della Storia una semplice forma secolarizzata dell’antico Destino o della Provvidenza, Marx ed Engels contrapponevano, sin dall’Ideologia tedesca, una concezione radicalmente profana e disincantata: “La storia non è nient’altro che la successione delle singole generazioni”1. Darle un senso è il compito degli uomini, non degli dei.

Com’è logico, questa critica della Ragione storica implica una critica della nozione astratta di progresso. Dopo l’Ideologia tedesca, Marx si è dedicato raramente a considerazioni generali sulla storia. La “critica dell’economia politica” è in atto, in pratica, quest’”altra scrittura della storia”, quest’annunciata scrittura profana. In tutta la sua opera si trovano a malapena poche considerazioni sparse su questo argomento: tra queste, in particolare gli appunti telegrafici pubblicati nell’introduzione ai Grundrisse. Si tratta di appunti di lavoro personali (un “nota bene” scrive Marx), una sorta di promemoria per se stesso, annotati in uno stile conciso e a volte enigmatico. Due di queste otto brevi osservazioni meritano un’attenzione particolare.

Nella sesta, Marx raccomanda di non intendere “il concetto di progresso […] nell’abituale astrattezza”, ma di prendere in considerazione “lo sviluppo ineguale” tra i rapporti di produzione, i rapporti giuridici, i fenomeni estetici;2 di prendere in considerazione, quindi, gli effetti di controtempo e noncontemporaneità. Nella settima, ancora più lapidaria, egli annota che la sua concezione della storia “appare come sviluppo necessario”, precisando immediatamente: “Ma giustificazione della casualità. Come. (Tra l’altro anche della libertà). (Influsso dei mezzi di comunicazione. La storia universale non è esistita sempre; la storia come storia universale è un risultato)”3. Si tratta precisamente di dialettizzare la necessità nel suo rapporto con la contingenza, senza la quale non ci sarebbero più né storia né evento. La storia universale allora non è più una teodicea, ma un divenire, un’universalizzazione reale della specie umana, attraverso l’universalizzazione della produzione, della comunicazione, della cultura, come era già affermato nel Manifesto del partito comunista.

Quest’impostazione viene ulteriormente confermata dalla celebre lettera del 1877 in risposta ai critici russi, nella quale Marx rifiuta il “passepartout di una teoria storicofilosofica generale, la cui virtù suprema consiste nell’essere soprastorica”.4 Questo passepartout di un senso della storia che sovrasterebbe la storia reale, le sue lotte e le sue incertezze, si inscrive in effetti nella continuità delle grandi filosofie speculative con le quali la rottura è stata consumata da lungo tempo. E questa rottura teorica non è priva di conseguenze pratiche. In una storia aperta, non si ha più una norma storica prestabilita, uno sviluppo “normale”, a cui si opporrebbero le anomalie, le deviazioni o le malformazioni. Ne sono la prova le lettere a Vera Zasulic, che ipotizzano diversi sviluppi possibili per la Russia, i quali le eviterebbero di percorrere la vìa crucis del capitalismo occidentale. Esse aprono la strada alle ricerche di Lenin sullo Sviluppo del capitalismo in Russia e alle tesi di Parvus e Trotskij sullo sviluppo ineguale e combinato.

Contrariamente alle filosofie speculatrice della Storia universale e alla loro temporalità “omogenea e vuota”, la critica dell’economia politica, dai Manoscritti del 1844 a quelli del Capitale, passando per i Grundrisse, si presenta quindi come una concettualizzazione del tempo e dei ritmi immanenti alla logica del capitale, come un ascolto del polso e delle crisi della storia.5 Come sintetizza Henryk Grossman, Marx ha dovuto dapprima forgiare tutte le categorie concettuali relative al fattore tempo: ciclo, rotazione, tempo di rotazione, ciclo di rotazione.

Tuttavia, questa critica radicale della ragione storica è rimasta parziale, propizia quindi ai fraintendimenti e ai malintesi, a cui possono dare adito le formulazioni a volte contraddittorie dello stesso Marx. Questi equivoci derivano in larga misura dalla grande questione strategica irrisolta: come possono i proletari, descritti tanto spesso nel Capitale come esseri mutilati fisicamente e intellettualmente, trasformarsi in classe egemonica nella lotta per l’emancipazione umana? La risposta sembra risiedere in una scommessa sociologica secondo la quale la concentrazione industriale comporterebbe una crescita e una concentrazione corrispondenti del proletariato, un livello crescente di resistenza e di organizzazione, che si tradurrebbe a sua volta in un’innalzamento del livello di coscienza sino al momento in cui la “classe politica” si ricongiungerà infine con la classe sociale, la classe per sé con la classe in sé. Questa concatenazione logica permetterebbe alla “classe universale” di risolvere l’enigma strategico dell’emancipazione.

Il ventesimo secolo non ha confermato questa visione ottimista, che ha permesso a molti interpreti di attribuire a Marx una teoria determinista della storia. Le loro argomentazioni si sono appoggiate soprattutto sul formalismo dialettico che figura nel penultimo capitolo del I libro del Capitale sulla negazione della negazione. Esso ha fornito un appiglio a semplificazioni tali, che Engels ha dovuto, nell’ AntiDiihring, correggerne non solo le interpretazioni abusive, ma in una certa misura lo spirito stesso: “Ma quale funzione ha in Marx la negazione della negazione?”, scrive, “Marx non pensa… caratterizzando questo processo come negazione della negazione, di dimostrare per questa via che esso è un processo storicamente necessario. Al contrario: dopo aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata”.6 Questo commento al testo, tuttavia, sembra piuttosto imbarazzato. Il seguito è più chiaro: “Che cosa è dunque la negazione della negazione? Una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d’azione e un’importanza estremamente grandi”: se la negazione della negazione consiste “nell’occupazione puerile di scrivere e cancellare alternativamente a, o di affermare alternativamente di una rosa che essa è e non è una rosa, non può risultare nient’altro che la stupidità di chi si dà a tali fastidiosi procedimenti”.7

La controversia rinvia anche alla nozione di necessità, interpretata, a partire soprattutto dall’Introduzione del 1859, come una necessità meccanica, mentre essa, secondo una compiuta logica dialettica, non è dissociabile dalla contingenza che la accompagna come la sua ombra; ma rimane il fatto che a volte è difficile distinguere se Marx utilizzi il concetto di necessità in un senso predittivo o in un senso performativo.

Il grande capovolgimento

Per decidere tra le interpretazioni possibili, gli scritti politici, sulla lotta di classe in Francia, la colonizzazione inglese dell’India, le rivoluzioni spagnole, o la guerra di Secessione, sono certamente più utili delle speculazioni logiche. La centralità della lotta di classe e il suo esito incerto esigono, in effetti, una parte di contingenza e una nozione non meccanica di causalità, una causalità aperta le cui condizioni iniziali determinano un campo di possibili senza determinare meccanicamente quale la spunterà. La logica storica allora è più vicina al caos determinista che alla fisica classica: tutto non è possibile, ma esiste una pluralità di possibilità reali tra le quali è la lotta a decidere.

Qui ancora, bisogna richiamarsi al Blanqui de L’Eternità attraverso gli astri per il quale, dopo le sconfitte ricorrenti del 1832, del 1848, del 1871, solo il capitolo delle biforcazioni restava aperto alla speranza. Questo termine, biforcazione, di uso poco comune all’epoca, era tuttavia votato a un brillante avvenire nel vocabolareio della fisica quantistica come nelle matematiche della catastrofe di René Thom.

Nell’epoca delle guerre e delle rivoluzioni, questa concezione di una storia in cui il passato condiziona il presente senza determinarlo meccanicamente, si è rafforzata nel periodo tra le due guerre attraverso i percorsi teorici paralleli di Gramsci e Benjamin. Il primo sottolinea: “In realtà si può prevedere “scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa”.8 E aggiunge: “ […] Solo la lotta, col suo esito, e neanche col suo esito immediato, ma con quello che si manifesta in una permanente vittoria, dirà ciò che è razionale o irrazionale”.9 L’esito della lotta e non una norma prestabilita determina quindi la razionalità dello sviluppo. Ma questo esito non si limita al risultato immediato, alle vittorie e alle sconfitte, che possono riguardare, sulla scala della durata, dei semplici episodi. Esso può essere stabilito solo retrospettivamente alla luce di una “vittoria permanente”. Cos’è dunque la permanenza della vittoria in una storia aperta, in una lotta che, a differenza dei giochi nella teoria che porta lo stesso nome, non conosce “finali di partita”? Cos’è vincere in permanenza se, come dice Blanqui, “l’appello è sempre aperto”?

In Benjamin, per farla finita con le ninna nanna anestetizzanti della storia, con gli ingranaggi e le ruote dentate del progresso, con il giudizio universale del tribunale della storia, il rapporto tra storia e politica è definitivamente capovolto. Si tratta ormai di accostarsi al passato non più come prima, in modo storico, ma in modo politico, con categorie politiche. E più laconicamente: “la politica consegue il primato sulla storia”.10 L’affermazione sembra fare eco, traendone le conseguenze, a quella di Engels secondo la quale la storia non fa niente. Ne risulta un radicale rimaneggiamento della semantica dei tempi storici. Il presente non è più un anello effimero ed evanescente nella concatenazione del tempo. Il passato non contiene più in germe il presente, non più di quanto il futuro sia il suo destino. Il presente è il tempo della politica per eccellenza, il tempo dell’azione e della decisione, in cui si giocano e si rigiocano continuamente il significato del passato e quello del futuro. È il tempo della conclusione tra una pluralità di possibili. E la politica che ha conseguito il primato sulla storia è precisamente, come dice Francoise Proust,11 questa arte del presente e del controtempo, in altri termini un’arte strategica della congiuntura e del momento propizio.

Storia e strategia

Pur ristabilendo il primato della politica sulla storia, questo capovolgimento non dice ciò che accade del loro rapporto capovolto. Con l’aiuto della polverizzazione postmoderna dei racconti e dei tempi storici, alcuni discorsi teorici ne hanno tratto l’idea di una politica sradicata da ogni determinazione e condizione storica, che si ridurrebbe ormai a una sovrapposizione di azioni giorno per giorno, di sequenze fluttuanti, senza legame logico né continuità. Questo restringimento della temporalità politica a un presente effimero sempre ricominciato ha come conseguenza di precludere ogni pensiero strategico, in modo simmetrico a quello in cui vi giungono le filosofie della storia.

Grande amante di scritti e di giochi strategici, Guy Debord ha sottolineato fortemente il legame tra una temporalità storica aperta e un pensiero strategico capace di dispiegarsi nella durata e di integrare nei suoi calcoli probabilistici una parte irriducibile di contingenza evenemenziale. Egli affermava così che un partito o un’avanguardia, il cui progetto soffrisse di un grave deficit di conoscenze storiche, non potrebbe più orientarsi o essere guidato strategicamente.

Le sconfitte accumulate dal secolo degli estremi hanno oscurato l’orizzonte dell’attesa e mandato in disgrazia la storia. È l’epoca dello zapping, del quick, del fast, del rapido e dell’istantaneo. Il tempo strategico si sbriciola e si frammenta in episodi aneddotici. La salutare riabilitazione del presente si trasforma così in culto dell’effimero e del deperibile, in una successione di fatti privi di passato e di avvenire.

Il fatto è che le resistenze immediate alla Controriforma liberista mancano spesso di interesse e di cultura storica. La moda strutturalista degli anni ‘60 aveva già portato a trattare il racconto storico come il parente povero delle “scienze umane”. Il gesto platonico rivendicato oggi da Alain Badiou tende ad assolutizzare l’evento per farne l’atto fondatore di una “sequenza” autonoma, chiusa da un “disastro”, senza antecedenti né seguito. Si ritiene che l’imperativo categorico di una resistenza stoica all’aria dei tempi possa dispensarci tanto dagli interrogativi sugli appuntamenti mancati della storia passata quanto dai progetti e dai sogni proiettati verso il futuro. Carpe diem. No futur. “Non c’è domani” scrivevano già i libertini del diciottesimo secolo (all’occorrenza Dominique Vivant de Non).

Alla pretesa di fare la storia (cioè di contribuire al compimento di una conclusione programamta), Hannah Arendt opponeva l’incertezza dell’agire politico. La sostituzione della storia alla politica, infatti, ai suoi occhi eludeva la responsabilità dell’azione davanti alla “contingenza desolante del particolare”. La defatalizzazione della storia, prodotta a partire dalla Prima guerra mondiale dal crollo dei miti del progresso, poteva tuttavia rivestire diverse forme: quella di una decisione incondizionata in Schmitt, quella dell’irruzione messianica in Benjamin, quella, infine, dell’evento miracoloso in Arendt (solo qualcosa di simile a un miracolo permetterà un cambiamento decisivo e salutare). Tutte e tre si espongono alla tentazione di assolutizzare l’evento.

Il culto dell’evento è tornato a essere di moda nelle retoriche poststrutturaliste, ma l’attesa di un evento redentore, incondizionato, sorto dal Vuoto o dal Niente (dall’eternità) è molto simile al miracolo dell’Immacolata concezione. Questa speranza in un evento assoluto e il “radicalismo passivo” del vecchio socialismo “ortodosso” della Seconda Internazionale possono allora ricongiungersi in modo inatteso: la rivoluzione, come diceva Kautsky, non si prepara, non si fa. Essa sopraggiunge semplicemente al momento opportuno secondo una legge naturale, come un frutto maturo, o come la divina sorpresa dell’evento. Lontana dalle esigenze della rivoluzione in permanenza o della continuità strategica dell’azione partigiana in Lenin, la scarsità della politica, in autori come Badiou o Rancière, è il corollario della scarsità di queste irruzioni.

Il tempo spezzato della strategia

La rivoluzione nella rivoluzione, associata al nome di Lenin, spinge al contrario sino alle sue estreme conseguenze la rottura con una rappresentazione orologiaia del tempo, “omogeneo e vuoto”, secondo la quale dovrebbe sgranarsi il rosario del progresso. Il tempo strategico è pieno di nodi e di sacche, di improvvise accelerazioni e di faticosi rallentamenti, di salti in avanti e di salti indietro, di sincopi e di controtempi. Le lancette del suo quadrante non girano sempre nello stesso senso. È un tempo spezzato, scandito dalle crisi e dagli istanti propizi da afferrare (come testimoniano le note di Lenin, che nell’ottobre del 1917 pressava i dirigenti bolscevichi a prendere l’iniziativa dell’insurrezione domani o dopodomani, perché dopo sarà troppo tardi!), senza le quali la decisione non avrebbe più senso e il ruolo del partito si ridurrebbe a quello di un pedagogo che accompagna la spontaneità delle masse, e non di uno stratega che organizza la ritirata o l’offensiva, secondo i flussi e riflussi della lotta.

Questa temporalità dell’azione politica ha il proprio vocabolario: il periodo, concepito nei suoi rapporti con il prima e il dopo da cui esso si distingue; i cicli della mobilitazione (a volte in controtempo rispetto ai cicli economici); la crisi in cui l’ordine spezzato lascia sfuggire un paniere di possibili; la situazione (rivoluzionaria) in cui si dispongono i protagonisti della lotta; la congiuntura o il momento favorevole che la “presenza di spirito” necessaria a ogni stratega deve saper afferrare. La gamma di queste categorie permette di articolare, anziché dissociare, l’evento e la storia, il necessario e il contingente, il sociale e il politico. Senza questa articolazione dialettica, l’idea stessa di strategia rivoluzionaria sarebbe priva di senso, e non resterebbe che un “socialismo fuori dal tempo” (Angelo Tasca), caro alle Penelopi parlamentari.

Requiem per il tempo presente

Da dove veniamo? Da una sconfitta storica bisogna ammetterlo e prenderne le misure della quale la controffensiva liberista dell’ultimo quarto di secolo è tanto la causa quanto la conseguenza e il compimento. Qualcosa è giunto al termine al volgere del secolo, tra la caduta del Muro di Berlino e 1’ 11 settembre. Qualcosa… Ma cosa? Il “secolo breve”, e il suo ciclo di guerre e rivoluzioni? L’epoca della modernità? Ciclo, periodo o epoca?

Fernand Braudel distingue tre tipi di durata :

L’evento, che è la più capricciosa e la più fallace, inafferrabile (impensabile) per le scienze sociali;

La “lunga durata” dei movimenti economici, demografici e climatici ;

Il ciclo o la congiuntura, di circa una decina d’anni, e che farebbe da legame tra evento e struttura, tempo lungo e tempo breve.

Questa temporalizzazione presenta l’inconveniente di annodare in una medesima temporalità storica una pluralità di tempi sociali discordi, senza esplicitare le modalità non semplicemente descrittive della loro combinazione o del loro collegamento. Questa unificazione del tempo stonco lenae cosi au tumuliate gu effetti di controtempo e non contemporaneità.

Allora: fine del secolo breve o fine del secolo degli estremi? Cambiamento di periodo o cambiamento d’epoca? Sconfitta storica delle politiche di emancipazione o semplice alternanza dei cicli di mobilitazione?

Solo l’epoca moderna, sottolinea Hans Blumenberg,12 si è pensata come epoca, secondo la nuova “semantica dei temi storici” analizzata da Reinhardt Koselleck.13 Non è la storia stessa, infatti, la quale, ricordiamolo per un’ultima volta, non fa niente a segnare l’arresto, a tagliare il tempo, datare l’evento, ma colui che la osserva a posteriori: il tornante di un’epoca è un limite impercettibile che non è legato a una data o a un evento particolare. L’uomo fa la storia, ma non fa l’epoca. Rappresentazione costruita di una sequenza storica, la delimitazione di un’epoca rimane costantemente contesa, come mostrano le diverse datazioni della “modernità”. Quanto alla “fragile unità di un periodo”, Kracauer la paragona a una sala d’attesa di una stazione, in cui si intrecciano incontri casuali e avventure passeggere.14 Piuttosto che emergere dal tempo, essa instaura una relazione paradossale tra la continuità storica che rappresenta e le rotture che implica.

Che sia si epoca, di periodo o di ciclo, la portata del tornante in corso non sarà determinato che alla luce di ciò che, confusamente, ha inizio. Dopo la Belle epoque, il periodo tra le due guerre, e la “guerra civile europea”, i Trenta gloriosi e la guerra fredda, la Restaurazione liberista, cosa? Si profila una riorganizzazione politica. La globalizzazione capitalista e la guerra infinita producono nuove scale spaziali, una nuova configurazione di luoghi e posti, nuovi ritmi dell’azione. Forse un nuovo paradigma, al quale non si addice certamente il titolo di postmodernità, tanto il termine sembra inscriversi nella successione cronologica e nella sterile mania dei “postismi”.

È dunque solo un inizio di ciò che percepiamo solo a malapena, nel fragile interstizio tra il “non più” e il “non ancora”. Sarà lunga, annunciava il profeta Geremia. Ma “il futuro dura a lungo”. Un altro mondo è necessario. E urgente renderlo possibile prima che il vecchio mondo soffochi e rovini il pianeta.

Traduzione dal francese di Cinzia Arruzza

“Pensare con Marx. Ripensare Marx”, Futuro anteriore, edizioni Alegre, 2007
www.danielbensaid.org

Documents joints

  1. K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, trad. di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 27.
  2. K.Marx, Introduzione ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in K. Marx, F. Engels, Opere, voi. 29, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 43.
  3. Ibidem.
  4. Karl Marx, <em>Lettera alla redazione degli “Otecestevennye Zapiski”, </em>in <em>Sulle società</em> 4 <em>precapitalistiche, </em>a cura di M. Gaudelier, Feltrinelli, Milano 1970, p. 287.
  5. Cfr. H. Grossmann, Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica,
    Bari 1971; S. Tombazos, Les temps du capital, Paris, Cahiers des saisons, 1995.
  6. F. Engels, Anti-Diihring, in K. Marx, F. Engels, Opere, voi. 25, Editori Riuniti, Roma
    1974, pp.128-129.
  7. Ivi, pp. 135-136.
  8. A. Gramsci, Quaderno 11, in Quaderni, voi. 2, Torino 2001, p. 1403.
  9. ID, Quaderno 6, in Quaderni, voi. 2, cit., p. 690.
  10. W. Benjamin, Passagesparigini II, in Parigi, capitale delXXsecolo, Opere, a cura di
    Giorgio Agamben, voi. XI, Einaudi, Torino 1986, p. 1095.
  11. Cfr. F. Proust, L’Histoire à contretemps, Cerf, Parigi 1994.
  12. Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell ‘età moderna, trad. dì Cesare Marcili, Marietti, Genova 1992.
  13. Cfr. R. Koselleck, Zeitschichten. Studien zur Historik, Suhrkamp, Frankfurt am Main
    2003.
  14. Cfr. Siegfried Kracauer, History, New York, Oxford University Press, 1969.
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