Gli interrogativi dell’Ottobre

Una rivisitazione critica della Rivoluzione russa

Ancora prima di entrare nel merito della massa di nuovi documenti accessibili grazie all’apertura degli archivi sovietici (che permetteranno senza dubbio di gettare nuova luce e di attualizzare le controversie), la discussione deve centrarsi sul prét-à-penser dell’ideologia dominante, di cui illustra bene il carattere il recente necrologio consensuale su François Furet. In questi tempi di controriforma e di reazione, non c’è da stupirsi che Lenin e Trotskij siano diventati altrettanto innominabili quanto Robespierre o Saint-Just sotto la Restaurazione.

Per cominciare a sgomberare il terreno, conviene riprendere tre concetti oggi ampiamente diffusi.

1. A proposito di rivoluzioni, “Ottobre” sarebbe il nome emblematico di un complotto o di un colpo di Stato minoritario che ha imposto senza preamboli, dall’alto, una concezione autoritaria dell’organizzazione sociale, a favore di una nuova é1ite.

2. Tutto lo sviluppo della Rivoluzione russa e delle sue disavventure totalitarie sarebbe contenuto in embrione, per una specie di peccato originate, nell’idea stessa (o nella “passione”, secondo Furet) della rivoluzione: la storia si ridurrebbe di conseguenza alla genealogia e all’esecuzione di quest’idea perversa, ignorando le grandi convulsioni reali, gli eventi colossali e l’incertezza del risultato che caratterizza ogni lotta.

3. Da ultimo, la Rivoluzione russa sarebbe stata condannata alla mostruosità da un parto “prematuro” della storia, un tentativo di forzarne il corso e il ritmo, mentre non sussistevano tutte le “condizioni oggettive” di un superamento del capitalismo: invece di avere l’accortezza di “autolimitare” il proprio progetto, i dirigenti bolscevichi sarebbero stati gli agenti attivi di questo anacronismo.

Rivoluzione o colpo di Stato?

La Rivoluzione russa non è il risultato di una cospirazione, ma l’esplosione, nel contesto della guerra, delle contraddizioni accumulate dal conservatorismo autocratico del regime zarista. La Russia di inizio secolo è una società bloccata, un caso esemplare di “sviluppo disuguale e combinato”, un paese dominante e dipendente, che lega le caratteristiche feudali di una campagna in cui la servitù della gleba è stata abolita ufficialmente da meno di mezzo secolo alle caratteristiche del capitalismo industriale urbano più concentrato. Grande potenza, è però tecnologicamente e finanziariamente subalterna (il debito). Il cahier de doléances presentato dal pope Gapon durante la rivoluzione del 1905 è una registrazione fedele della miseria che regna nel paese degli zar. I tentativi di riforma vengono rapidamente bloccati dal conservatorismo dell’oligarchia, dalla caparbietà del despota e dall’inconsistenza di una borghesia già incalzata dal nascente movimento operaio. I compiti della rivoluzione democratica ricadono così in capo a una specie di Terzo stato di cui, diversamente dalla Rivoluzione francese, il proletariato moderno, benché minoritario, costituisce il settore trainante. È in tutto questo che la “santa Russia” può rappresentare l’“anello debole” della catena imperialista. La prova della guerra dà fuoco alle polveri.

Lo sviluppo del processo rivoluzionario, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, evidenzia bene come non si tratti di una cospirazione minoritaria di agitatori professionisti, bensì dell’assimilazione accelerata su scala di massa di un’esperienza politica, di una metamorfosi delle coscienze, di un continuo mutamento dei rapporti di forza. Nella sua magistrale Storia della Rivoluzione russa, Trotskij analizza minuziosamente questa radicalizzazione, nel susseguirsi di ogni elezione sindacale, di ogni elezione comunale, tra gli operai, tra i soldati, tra i contadini. Mentre i bolscevichi al congresso dei Soviet di giugno rappresentano solo il 13% dei delegati, le cose cambiano velocemente dopo le giornate di luglio e il tentativo di putsch di Kornilov: in ottobre rappresenteranno tra il 45% e il 60%. Lungi dall’essere un colpo di mano giocato sulla sorpresa, l’insurrezione rappresenta invece la conclusione e la realizzazione provvisoria di una prova di forza maturata nel corso di tutto l’anno, durante la quale lo stato d’animo delle masse plebee è sempre stato spostato a sinistra rispetto ai partiti e ai loro stati maggiori, non solo quelli socialrivoluzionari, ma anche quelli del Partito bolscevico o di una parte della sua direzione (fino alla decisione dell’insurrezione compresa).

Questo, del resto, è ciò che spiega come l’insurrezione di Ottobre, rispetto alle violenze che abbiamo visto poi, sia stata ridicolmente poco violenta e sia costata ridicolmente poco in vite umane, per poco che si abbia cura di distinguere le vittime dell’Ottobre propriamente detto (da una parte e dall’altra) da quelle della guerra civile iniziata nel 1918 e sostenuta dalle potenze straniere, tra cui la Francia e la Gran Bretagna in prima fila.

Se per rivoluzione si intende un impeto di trasformazione venuto dal basso, dalle aspirazioni profonde del popolo, e non il compimento di un qualche piano visionario immaginato da un’é1ite illuminata, non c’è dubbio che la Rivoluzione russa sia stata tale nel vero senso della parola. Basta sfogliare le misure legislative adottate nei primi mesi e il primo anno del nuovo regime per capire che contengono un radicale rovesciamento dei rapporti di proprietà e di potere, talvolta in tempi più brevi di quanto non fosse stato voluto o preventivato, a volte anche più brevi di quanto non fosse consigliabile, sotto la pressione delle circostanze. Molti libri danno conto di questa rottura nell’ordine del mondo (cfr. Dieci giorni che sconvolsero il mondo, di John Reed, ed. Einaudi, 1971) e delle sue immediate ripercussioni internazionali (cfr. La Révolution d’Octobre et le mouvement ouvrier européen, AA.V.V., Edi, 1967).

Marc Ferro sottolinea (precisamente ne La révolution de 1917, ed. Albin Michel, 1997; e in Naissance et effondrement du régime communiste en Russie, Livre de Poche, 1997) che non erano stati in molti, all’epoca, a rimpiangere il regime dello zar e a piangere l’ultimo despota. Insiste invece sul rovesciamento del mondo, così caratteristico di una vera rivoluzione, addirittura nei dettagli della vita quotidiana: a Odessa, gli studenti dettano un nuovo programma di storia ai professori; a Pietrogrado, gli operai obbligano i padroni a studiare il “nuovo diritto operaio”; nell’esercito, alcuni soldati invitano il cappellano alla loro riunione per “dare un senso nuovo alla sua vita”; in certe scuole, i più piccoli rivendicano il diritto a lezioni di boxe per farsi sentire e rispettare dai più grandi…”

Questo slancio rivoluzionario iniziale si fa sentire ancora per tutti gli anni Venti, malgrado le miserie e le arretratezze culturali, nei tentativi pionieristici di trasformare il modo di vivere: riforme scolastiche e pedagogiche, diritto di famiglia, utopie urbane, inventiva grafica e cinematografica. È ancora questo slancio che permette di spiegare le contraddizioni e le ambiguità della grande trasformazione operata nel dolore tra le due guerre mondiali, fase in cui il terrore e la repressione burocratica si mescolano ancora con l’energia della speranza rivoluzionaria. Nessun paese al mondo ha mai conosciuto in seguito una metamorfosi così brutale, sotto il tallone di ferro di una burocrazia faraonica: tra il ’26 e il ’39, le città aumentano complessivamente di 30 milioni di abitanti e il loro peso sulla popolazione globale cresce dal 18% al 33%; già solo durante il primo piano quinquennale il loro tasso di crescita è del 44%, ovvero praticamente quanto tra il 1897 e il 1926; la forza lavoro salariata realizza più che un raddoppio (passando da 10 a 22 milioni di individui), il che significa la “ruralizzazione” massiccia delle città, uno sforzo enorme di alfabetizzazione e di istruzione e l’imposizione a tappe forzate di una disciplina del lavoro. Questa grande trasformazione è accompagnata da una rinascita del nazionalismo, da un balzo in avanti del carrierismo, dall’apparizione di un nuovo conformismo burocratico. In tutto questo bailamme, ironizza Moshe Lewin, la società è in certo senso “senza classi”, poiché tutti le classi erano informi, confuse insieme (Moshe Lewin, La formation de l’Union soviétique, Gallimard, 1985)

Sete di potere o controrivoluzione burocratica?

La sorte della prima rivoluzione socialista, il trionfo dello stalinismo, i crimini della burocrazia totalitaria costituiscono senza alcun dubbio uno degli eventi più importanti del secolo. Le chiavi di lettura per interpretarlo sono perciò estremamente importanti. Secondo alcuni, il principio del male risiederebbe nella fondamentale malvagità della natura umana, un’irredimibile sete di potere che può mascherarsi in vari modi, tra cui la pretesa di fare – loro malgrado – il bene dei popoli, e di imporre loro gli schemi preconcetti di una città perfetta. A noi interessa invece cogliere nell’organizzazione sociale, nelle forze che la costituiscono o che vi si oppongono, le radici profonde di quello che è stato spesso chiamato il “fenomeno staliniano”.

Lo stalinismo, in concrete circostanze storiche, rimanda a una tendenza più generale, alla burocratizzazione che agisce in tutte le società moderne, che si nutre fondamentalmente dell’accentuarsi della divisione sociale del lavoro (soprattutto tra manuale e intellettuale) e dei “rischi professionali del potere” a questa inerenti. In Unione sovietica, questa dinamica è stata tanto più forte e più rapida quanto più ha agito su una base di distruzione, di penuria, di arcaicismo culturale e in assenza di tradizioni democratiche. Fin dal principio, la base sociale della rivoluzione è stata contemporaneamente ampia e ristretta. Ampia nella misura in cui si fondava sull’alleanza tra gli operai e i contadini, che costituivano la schiacciante maggioranza sociale. Ristretta nella misura in cui la sua componente operaia, minoritaria, è stata rapidamente falcidiata dai danni della guerra e dalle perdite della guerra civile. I soldati, i cui soviet avevano giocato un ruolo centrale nel 1917, erano essenzialmente contadini, mossi dal desiderio di tornare a casa.

In queste condizioni, il fenomeno della piramide rovesciata è stato presto scontato. Non è stata più la base a supportare e a spingere il vertice, ma la volontà del vertice che si sforzava di tirare la base. Da qui la meccanica sostitutista: il partito si sostituisce al popolo, la burocrazia al partito, l’uomo della provvidenza al collettivo. Ma questo edificio diventa un’imposizione solo quando si forma una nuova burocrazia, frutto dell’eredità del vecchio regime e della promozione sociale accelerata di nuovi dirigenti. Tra gli effettivi del partito dopo il reclutamento di massa della “leva Lenin” il peso simbolico delle poche migliaia di militanti della rivoluzione d’Ottobre non conta più molto in confronto alle centinaia di migliaia di nuovi bolscevichi, tra cui i carrieristi saltati dalla parte dei vincitori e gli elementi riciclati della vecchia amministrazione.

Il testamento di Lenin (cfr. Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, 1969) dimostra, nella sua agonia, la patetica coscienza di questo problema. Mentre la rivoluzione è una faccenda dei popoli e delle masse, Lenin moribondo, per immaginarne gli sviluppi futuri, è arrivato al punto di soppesare i vizi e le virtù di un pugno di dirigenti dai quali ormai sembra dipendere tutto.

Se i fattori sociali e le circostanze storiche svolgono un ruolo determinante nel potenziamento della burocrazia staliniana, non vuol dire che le idee e le teorie non abbiano nessuna responsabilità nel suo avvento. In particolar modo, non c’è dubbio che la confusione creata fin dalla presa del potere tra lo Stato, il partito e la classe operaia, in nome della rapida dissoluzione dello Stato stesso e dell’appianamento delle contraddizioni in seno al popolo, abbia notevolmente favorito la statalizzazione della società, anziché la socializzazione delle funzioni statali. L’apprendistato della democrazia è cosa lunga e difficile, che non viaggia allo stesso ritmo dei decreti di riforma economica. Richiede tempo ed energia. La scorciatoia consiste quindi nel subordinare gli organismi di potere popolare, consigli e soviet, a un tutore illuminato: il partito. In pratica, consiste anche nel sostituire il principio dell’elezione dei responsabili e del controllo sugli eletti con la loro nomina a cura del partito, in certi casi fin dal 1918. Questa logica finisce per sfociare nella soppressione del pluralismo politico e delle libertà d’opinione necessarie alla vita democratica, nonché nella subordinazione sistematica del diritto alla forza.

L’ingranaggio è ancora più implacabile nella misura in cui la burocratizzazione non deriva esclusivamente o principalmente da una manipolazione dall’alto: talvolta risponde anche a una specie di domanda dal basso, a un bisogno d’ordine e di tranquillità nato dalla prostrazione causata dalla guerra mondiale e da quella civile, dalle privazioni e dal logoramento, bisogno intralciato dai conflitti democratici, dall’agitazione politica e dalla richiesta costante di responsabilizzazione.

Marc Ferro nei suoi libri ha sottolineato con grande pertinenza questa dialettica micidiale; in questa senso ricorda che all’inizio della rivoluzione esistevano “due focolai, democratico-autoritario alla base, centralista-autoritario al vertice” mentre “nel 1939 ne è rimasto solo uno”. Ma secondo lui la faccenda è praticamente già liquidata nel giro di qualche mese, dal 1918 o ’19, con lo scioglimento o l’addomesticamento dei comitati di quartiere o di fabbrica (cfr. Marc Ferro, Les soviets en Russie, collana Archives). Con un approccio analogo, il filosofo Philippe Lacoue-Labarthe è ancora più esplicito nel dichiarare il bolscevismo “controrivoluzionario fin dal 1920-1921” – cioè prima di Kronstadt – (cfr. la rivista Lignes, n. 31, maggio 1997).

La questione è di primaria importanza. Non si tratta di opporre punto per punto, in modo manicheo, il “leninismo sotto Lenin” al leninismo sotto Stalin, i luminosi anni Venti, agli oscuri anni Trenta, come se non ci fosse già del marcio nel regno dei Soviet. È vero che la burocratizzazione è cominciata quasi immediatamente, è vero che l’attività poliziesca della Ceka risponde a una logica esclusivamente sua, è vero che il campo di prigionia politica delle isole Solovki è stato aperto subito dopo la fine della guerra civile e prima della morte di Lenin, è vero che il pluralismo partitico viene di fatto soppresso, che la libertà d’espressione è limitata, che vengono ristretti i diritti democratici all’interno del partito stesso fin dal X congresso del 1921. Il processo di quella che chiamiamo la controrivoluzione burocratica non è un avvenimento semplice, databile, simmetrico all’insurrezione d’ottobre. Non è successo in un giorno. È passato attraverso scelte, scontri, avvenimenti. Gli stessi protagonisti non hanno mai smesso di discutere sulla sua cronologia, non per amore di precisione storica, bensì per cercare di dedurne dei compiti politici. Testimoni come Rosmer, Eastman, Suvarin, Istrati, Benjamin, Zamjatin e Bulgakov (nelle sue lettere a Stalin), la poesia di Majakovski, i tormenti di Mandel’stam o della Cvetaeva, i taccuini di Babel, ecc., possono contribuire a far luce sulle molteplici sfaccettature del fenomeno, sul suo sviluppo, sul suo progredire. Resta nondimeno un contrasto, una discontinuità irriducibile, sia nella politica interna che in quella internazionale, tra l’inizio degli anni Venti e gli spaventosi anni Trenta. Non contestiamo affatto che le tendenze autoritarie abbiano cominciato a prendere il sopravvento molto prima che, ossessionati dal “nemico principale” (dopotutto ben presente) dell’aggressione imperialista e della restaurazione del capitalismo, i dirigenti bolscevichi abbiano cominciato a ignorare o sottovalutare il “nemico secondario”, la burocrazia che li minava dall’interno e che ha finito per divorarli. All’epoca, questo copione era inedito, quindi era difficile prevedere. C’è voluto del tempo per capirlo e interpretarlo, per trarne le conseguenze. Così, se Lenin ha capito senz’altro meglio il segnale d’allarme della crisi di Kronstadt, al punto di avviare una profonda revisione di orientamento politico, è stato soltanto in seguito, ne La Rivoluzione tradita, che Trotskij sarebbe riuscito a fare del pluralismo politico un principio fondante, basato sull’eterogeneità del proletariato stesso, anche dopo la presa del potere.

La maggior parte delle grandi testimonianze e degli studi sull’Unione sovietica o sullo stesso Partito bolscevico (cfr. Moscou sous Lénine di Rosmer, Le léninisme sous Lénine di Marcel Liebman, L’Histoire du parti bolchevik di Pierre Broué, Stalin, quello di Suvarin e quello di Trotskij, le opere di E. H. Carr, Tony Cliff, Moshe Lewin, David Rousset) non permettono di ignorare la grande svolta degli anni Trenta nella dialettica stretta della rottura e della continuità. La rottura stravince, confermata da milioni e milioni di morti, per fame, deportati, vittime dei processi e delle purghe. Se è stato necessario scatenare una violenza simile per arrivare al “congresso dei vincitori” del 1934 e al consolidamento del potere burocratico, vuol dire che l’eredità rivoluzionaria doveva essere molto tenace e che non era facile venirne a capo.

C’è voluta una controrivoluzione, ben più massiccia, visibile e lacerante delle misure autoritarie, per quanto inquietanti, che erano state prese nell’emergenza della guerra civile. Questa controrivoluzione ha fatto sentire i suoi effetti in tutti i campi, sia nella politica economica (collettivizzazione forzata e sviluppo su larga scala dei gulag), sia in politica internazionale (in Cina, in Germania, in Spagna), sia nella politica culturale o nella vita quotidiana, con quello che Trotskij aveva chiamato il “termidoro domestico”.

Rivoluzione prematura?

Dopo il crollo dell’Unione sovietica, è tornata di moda tra i difensori del marxismo, in particolare modo nei paesi anglosassoni (vedi i lavori di Gerry Cohen), la tesi secondo cui la rivoluzione sarebbe stata un’avventura condannata dalla nascita perché prematura. In realtà, questa tesi è stata avanzata molto presto, già nel discorso portato avanti dai menscevichi russi e nell’analisi di Kautsky, nel 1921: gran parte di tutto quel sangue, miseria e lutto avrebbe potuto essere risparmiata “se i bolscevichi avessero posseduto il senso menscevico dell’autolimitazione a ciò che è praticabile, che rivela il vero maestro” (Von der Demokratie zur Staatssklaverei, 1921, citato da Radek in Les voies de la Révolution russe, Edi, pag. 41).

La formula è stupefacentemente rivelatrice. Ecco qui uno che polemizza contro l’idea di un partito d’avanguardia, ma in cambio immagina un partito-maestro, educatore e pedagogo, capace di far scandire il suo passo al cammino e al ritmo della storia. Come se le lotte e le rivoluzioni non avessero anche loro una propria logica. Volendo farle autolimitare quando si presentano, si fa presto a passare dalla parte dell’ordine costituito. E allora non si tratta più di “autolimitare” gli obiettivi del partito, ma di limitare le aspirazioni delle masse tout-court. In questo senso, gli Ebert e i Noske, assassinando Rosa Luxemburg e schiacciando i soviet bavaresi, si sono sicuramente distinti come virtuosi dell’“autolimitazione”.

In realtà, questo ragionamento conduce ineluttabilmente all’idea di una storia tutta ordinata, regolare come un orologio, in cui tutto avviene al momento previsto. Si ricade nella piattezza di un determinismo storico stretto, così spesso rimproverato ai marxisti, in cui lo stato dell’infrastruttura determina rigidamente la sovrastruttura corrispondente. Cancella semplicemente il fatto che la storia non ha la forza di un destino, che è costellata di avvenimenti che aprono ciascuno un ventaglio di possibilità, non tutte realizzabili, ma pur sempre un orizzonte determinato di eventualità. I suoi stessi protagonisti non hanno pensato la Rivoluzione russa come un’avventura solitaria, ma come il primo elemento di una rivoluzione europea e mondiale. Il fallimento della rivoluzione tedesca e la sconfitta della guerra civile spagnola, gli sviluppi della rivoluzione cinese, la vittoria del fascismo in Italia e in Germania non erano già preventivati.

Parlare di rivoluzione prematura in questo caso sarebbe come pronunciare una sentenza da tribunale storico invece che partire dal punto di vista della logica interna al conflitto e delle politiche che vi si scontravano. Da questo punto di vista, le sconfitte non sono una prova di errori o di torti, così come i successi non sono una prova di verità. Perché non c’è un giudizio finale. Quello che importa è che sia stato tracciato a ogni passo, in occasione di ogni grande scelta, a ogni grande bivio (la Nep, la collettivizzazione forzata, il patto con la Germania, la guerra civile spagnola, la vittoria del nazismo), l’abbozzo di un’altra storia possibile. È questo che preserva l’intelligibilità del passato e consente di trarne delle lezioni per il futuro.

Ci sarebbero molti altri aspetti da discutere in occasione di questo anniversario. Ci siamo accontentati qui di “tre questioni dell’Ottobre” oggi cruciali nel dibattito. Ma il capitolo delle “lezioni dell’Ottobre” da un punto di vista strategico (crisi rivoluzionaria, dualismo di potere, rapporti tra partiti, masse e istituzioni, problematiche dell’economia di transizione), della loro attualità e dei loro limiti, è ovviamente altrettanto decisivo. Sarebbe importante anche precisare, contro la demonizzazione della rivoluzione che tende a imputarle tutte le miserie del secolo, che l’Unione sovietica è senz’altro il paese che nel giro di trent’anni ha visto il numero più alto di morti di morte violenta concentrate in un solo paese, ma che non si può fare di tutte le erbe un fascio imputando alla rivoluzione, tra le decine di milioni di morti (gli storici oggi stanno discutendone la cifra), quelli della prima guerra mondiale, dell’intervento straniero, della guerra civile o della seconda guerra mondiale. Come nel caso della Rivoluzione francese, in occasione del recente bicentenario, non si poteva imputarle tutto il male causato dall’intervento delle monarchie o dalle guerre napoleoniche.

Forse, in questi tempi di restaurazione, è il caso di ricordare, per concludere, queste superbe parole di Kant, scritte nel 1795, in piena reazione termidoriana: “Un tale fenomeno nella storia dell’umanità non si dimentica più, perché ha rivelato nella natura umana una disposizione, una facoltà di progredire che nessuna politica avrebbe saputo far scaturire, a forza di sottigliezze, dal corso anteriore degli avvenimenti: solo la natura e la libertà presenti nella specie umana quando segue i principi interni del diritto erano in grado di renderla manifesta, anche se in modo indeterminato quanto ai tempi e come evento contingente. Ma, anche se lo scopo perseguito da tale evento non è stato ancora raggiunto oggi, quando pure la rivoluzione o la riforma popolare della costituzione alla fine naufragassero, oppure se, trascorso un certo lasso di tempo, tutto ricadesse nella forma precedente (come prevedono adesso certi politici), questa profezia filosofica non perderebbe niente della sua forza. Poiché questo evento è troppo importante, troppo legato agli interessi dell’umanità e ha un’influenza troppo vasta su tutte le parti del mondo per non dover tornare alla memoria dei popoli, in occasione di circostanze favorevoli, ed essere ricordato al momento di nuovi tentativi di questo genere”.

Nulla potrà far si che l’evento che ha sconvolto il mondo in dieci giorni sia cancellato per sempre.

Bandiera Rossa n° 75, dicembre 1997, gennaio 1998

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