Il ritorno della questione strategica

Gramsci

Questo testo conclude un dibattito aperto a suo tempo, tra il 2005 e il 2006, dalla rivista Critique communiste, sulla strategia dell’allora LCR. L’attuale NPA era ancora da inventare e il dibattito si focalizzava sul manifesto programmatico della LCR. L’intervento di Bensaid riesce con notevole agilità a riassumere i punti centrali della questione ricentrando l’attenzione sugli aspetti metodologici e di fondo della strategia politica che deve darsi un partito. E nonostante la distanza e il contesto costituisce un testo utilissimo anche per l’attualità italiana

Gramsci

Sébastien Marchal » align= »acheval » />Abbiamo osservato tutti una “eclissi del dibattito strategico”, a partire dagli inizi degli anni ottanta, in confronto alle discussioni animate negli anni settanta dalle esperienze del Cile e del Portogallo (o, malgrado le caratteristiche assai diverse, del Nicaragua e del Centroamerica). Di fronte alla controffensiva neoliberista, gli anni ottanta si collocano (nel migliore dei casi) sotto il segno delle resistenze sociali e sono contraddistinti da una situazione difensiva della lotta di classe, anche quando le dittature (soprattutto in America Latina) hanno dovuto cedere di fronte a un’ondata democratica popolare. Il ripiegamento della questione politica ha potuto tradursi in quella che potremmo chiamare, semplificando, un “illusione sociale” (per simmetria con l’“illusione politica” denunciata dal giovane Marx fra quanti credevano di vedere nelle emancipazioni “politiche” – i diritti civili – l’ultima parola dell’“emancipazione umana”). In certa misura, l’esperienza iniziale dei Forum sociali, a partire da Seattle (1999) e il primo Porto Alegre (2001), riflette quest’illusione rispetto all’autosufficienza dei movimenti sociali e alla rimozione della questione politica, come effetto di una primissima fase di ripresa delle lotte sociali al termine degli anni novanta.

È quello che io chiamo (semplificando) il “momento utopico” dei movimenti sociali, illustrato da diverse varianti: utopie liberiste (di un liberismo ben regolamentato), keynesiane (di un keynesismo europeo) e, soprattutto, utopie neoliberiste, quelle di poter cambiare il mondo senza prendere il potere o limitandosi a un equilibrato sistema di contropoteri (J. Holloway, Toni Negri, R. Day). La ripresa delle lotte sociali si è tradotta in vittorie politiche o elettorali (in America Latina: Venezuela e Bolivia). In Europa, salvo eccezioni (soprattutto quella sul CPE) in Francia, hanno prevalentemente subito sconfitte, senza impedire l’avanzare delle privatizzazioni, delle riforme delle protezioni sociali, dello smantellamento dei diritti sociali. Questa contraddizione fa sì che le aspettative, in mancanza di vittorie sociali, si rivolgano di nuovo verso le soluzioni politiche (soprattutto elettorali, come dimostrano le elezioni italiane)1.

Il “ritorno della questione politica” delinea il rilancio, ai primi balbettii, dei dibattiti strategici, come dimostrano le polemiche intorno ai libri di Holloway, di Negri, di Michel Albert, il bilancio comparato del processo venezuelano e della legislatura di Lula in Brasile, o la stessa inflessione dell’orientamento zapatista illustrato dalla sesta dichiarazione della Selva Lacandona e dall’“altra campagna” in Messico. Le stesse discussioni sul progetto di manifesto della LCR in Francia o il libro di Alex Callinicos2 rientrano in questo quadro. Sispegne la fase del grande rifiuto e delle stoiche resistenze – il “grido” di Holloway, gli slogan “il mondo non è una merce…”, “il mondo non è in vendita…”. Diventa necessario precisare quale sia questo mondo possibile e soprattutto esplorare le strade per arrivarci.

C’è strategia e strategia

I concetti di strategia e di tattica (poi i concetti di guerra di posizione e di guerra di movimento) sono stati importati nel movimento operaio a partire dal lessico militare (soprattutto dagli scritti di Clausewitz o di Delbriick). Il loro significato, però, è molto cambiato. C’è stato un tempo in cui la strategia era l’arte di vincere una battaglia, con la tattica che si riduceva alle manovre delle truppe sul campo di battaglia. Poi, dalle guerre dinastiche a quelle nazionali, dalla guerra totale alla guerra globale (oggi), il campo strategico non ha cessato di dilatarsi nel tempo e nello spazio. Oggi è ormai possibile distinguere una strategia globale (su scala mondiale) da una “strategia delimitata” (la lotta per la conquista del potere su un determinato territorio). In una certa misura, la teoria della rivoluzione permanente rappresentava un saggio di strategia globale: la rivoluzione comincia sulla scena nazionale (in un paese) per estendersi a livello continentale e mondiale; compie un passo decisivo con la conquista del potere politico, ma si protrae e si approfondisce tramite una “rivoluzione culturale”. Combina dunque l’atto e il processo, l’evento e la storia.

Di fronte a Stati potenti con strategie economiche e militari mondiali, la dimensione della strategia globale è ancor più importante di quanto non lo fosse nella prima metà del XX secolo. Lo dimostra l’emergere di nuovi spazi strategici continentali o mondiali. La dialettica della rivoluzione permanente (contro la teoria del socialismo in un solo paese), in altri termini l’intreccio delle scale nazionale, continentale, mondiale, è più stretto che mai. Ci si può impadronire delle leve del potere politico in un paese (ad esempio il Venezuela o la Bolivia), ma il problema della strategia continentale (l’Alba contro l’Alca, il rapporto con il Mercosur, con il patto andino, ecc.) si pone immediatamente come un problema di politica interna. Più prosaicamente in Europa, le resistenze alle controriforme neoliberiste possono rafforzarsi grazie all’arco di spinta dei rapporti di forza, delle conquiste e dei supporti legislativi, nazionali. Tuttavia, una risposta transitoria sui servizi pubblici, sul fisco, sull’assistenza e la previdenza sociali, sull’ecologia (per una “rifondazione sociale e democratica dell’Europa”) esige immediatamente una proiezione europea.3Ipotesi strategiche

Il problema affrontato qui si limita, dunque, a quella che ho chiamato “strategia delimitata”, vale a dire la lotta per la conquista del potere politico su scala nazionale. Qui siamo, infatti, tutti d’accordo4 sul fatto che gli Stati nazionali possono certo essersi indeboliti nel quadro della mondializzazione e che esistono una serie di trasferimenti di sovranità. Tuttavia, la scala nazionale (che struttura i rapporti di classe e ricollega un territorio a uno Stato) resta decisiva nella scala mobile degli spazi strategici. È questo il livello del problema affrontato essenzialmente dal dossier pubblicato nel n. 179 di Critique communiste. Lasciamo subito da parte le critiche (da J. Holloway a Cédric Durand5) che ci attribuiscono una visione “a tappe” del processo rivoluzionario (secondo cui noi faremmo della presa del potere “il prius assoluto” di qualunque trasformazione sociale). L’argomento è quasi caricaturale, o deriva da semplice ignoranza. Non siamo mai stati gli adepti del salto con l’asta senza rincorsa. Se ho posto spesso l’interrogativo “come, da niente, diventare tutto”, per sottolineare che la rottura rivoluzionaria costituisce un salto rischioso, di cui può anche approfittare il terzo incomodo (la burocrazia), Guillaume (Liégeard) ha ragione quando introduce delle sfumature ricordando che non è vero che il proletariato non è nulla prima della presa del potere – e che dubita di voler diventare tutto! La formula del tutto e del niente, ripresa dal canto dell’Internazionale, serve soltanto a sottolineare l’asimmetria strutturale tra rivoluzione (politica) borghese e rivoluzione sociale.

Le categorie – del fronte unico, degli obiettivi transitori, del governo operaio – sostenute da Trotsky, ma anche da Thalheimer, Radek, Clara Zetkin nel dibattito programmatico dell’Internazionale comunista fino al suo IV Congresso – servono appunto a ricollegare l’evento alle sue condizioni preparatorie, le riforme alla rivoluzione, il movimento al fine… Del pari, i concetti di egemonia e di “guerra di posizione” in Gramsci vanno nella stessa direzione.6 L’opposizione tra l’Oriente (dove il potere sarebbe più facile da conquistare ma più difficile da conservare) e l’Occidente ha a che fare con la stessa preoccupazione (si vedano al riguardo le discussioni sul bilancio della rivoluzione tedesca al V Congresso dell’Ic). Una volta per tutte, non siamo mai stati seguaci della teoria del crollo (Zusammenbruch Theorie).7Contro le visioni spontaneistiche del processo rivoluzionario e contro l’immobilismo strutturalista degli anni 60, abbiamo invece posto l’accento sul versante del “fattore soggettivo” e su ciò che abbiamo chiamato non “modello” ma “ipotesi strategiche”, come ricorda Antoine (Artous) nel suo articolo [di Critique comuniste]. Non si tratta di una mera civetteria lessicale. Un modello è qualcosa da copiare, un’istruzione per l’uso. Un’ipotesi è una guida per l’azione, a partire dalle esperienze del passato, ma aperta e modificabile in funzione di esperienze nuove o di circostanze inedite. Non si tratta quindi di elucubrazioni teoriche, ma di quel che si può ancora mantenere delle esperienze passate (che sono il solo materiale di cui disponiamo), sapendo che il presente e il futuro saranno per forza di cose più ricchi. I rivoluzionari corrono, di conseguenza, gli stessi rischi dei militari, dei quali si dice che sono sempre in ritardo di una guerra.

A partire dalle grandi esperienze rivoluzionarie del XX secolo (rivoluzione russa e rivoluzione cinese, ma anche rivoluzione tedesca, fronti popolari, guerra civile spagnola, guerra di liberazione vietnamita, Maggio ‘68, Portogallo, Cile…), noi abbiamo distinto due ipotesi principali: quella dello “sciopero generale insurrezionale” e quella della “guerra popolare prolungata”; esse riassumono due tipi di crisi, due forme di dualismo di potere, due modalità di epilogo finale della crisi.

Nel primo caso, il dualismo di potere riveste prevalentemente una forma urbana, tipo Comune (non solo la Comune di Parigi, ma Soviet di Pietrogrado, insurrezione di Amburgo, di Canton, di Barcellona…). I due poteri non possono coesistere a lungo in uno spazio concentrato. Si tratta perciò di uno scontro dal rapido epilogo (che può sfociare in uno scontro prolungato: guerra civile in Russia, guerra di Liberazione in Vietnam dopo l’insurrezione del 1945…) In questa ipotesi, il lavoro di demoralizzazione dell’esercito e di organizzazione dei soldati svolge un ruolo importante (i comitati dei soldati in Francia, i Suv in Portogallo e, in una prospettiva più cospirativa, il lavoro del Mir nell’esercito cileno, sono fra le esperienze significative in materia). Nel secondo caso, si tratta di un dualismo di potere territoriale (zone liberate e auto amministrate), che può resistere più a lungo. Mao ne intuisce le condizioni fin dal suo scritto del 1927 (Perché può esistere in Cina il potere rosso?), ed esse sono illustrate dall’esperienza della Repubblica dello Yenan. Nella prima ipotesi, gli organi del potere alternativo sono socialmente determinati dalle situazioni urbane (Comune di Parigi, Soviet di Pietrogrado, consigli operai, comitati delle milizie di Catalogna, cordoni industriali e comandi comunali in Cile, ecc.); nella seconda, si centralizzano nell’“esercito del popolo” (prevalentemente contadino).

Tra le due ipotesi principali troviamo tutta una gamma di varianti e di combinazioni intermedie. Ad esempio, a dispetto della sua leggenda “fochista” semplificata (in particolare nel libro di Régis Debray, Rivoluzione nella rivoluzione), la Rivoluzione cubana collega il focus guerrigliero come nucleo dell’esercito ribelle a tentativi di organizzazione e agli scioperi generali urbani all’Avana e a Santiago. Si è trattato di un rapporto problematico, come testimonia la corrispondenza di Frank Pàis, di Daniel Ramos Latour, dello stesso Che (Guevara) sulle tensioni tra la “selva” e la “pianura”.8 A posteriori, la narrazione ufficiale, che valorizza l’epopea storica del Granma e dei suoi sopravvissuti, ha contribuito a rafforzare la legittimità della componente del 26 luglio e del gruppo dirigente castrista, a detrimento di una più complessa comprensione del processo. Questa versione semplificata della storia che erge a modello la guerriglia rurale ha ispirato le esperienze degli anni sessanta (in Perù, in Venezuela, in Nicaragua, in Colombia, in Bolivia). Le morti in combattimento di De La Puente e Lobaton, Camilo Torres, Yon Sosa, Lucion Cabanas in Messico, Carlos Marighela e Lamarca in Brasile, ecc., la spedizione del Che in Bolivia, il semi-annientamento dei sandinisti nel 1963 e nel 1967 a Pancasan, il disastro di Teoponte in Bolivia, segnano la conclusione di quel ciclo.

L’ipotesi strategica del Prt argentino e del Mir cileno si riferisce piuttosto, all’inizio degli anni settanta, all’esempio vietnamita della guerra popolare prolungata (e, nel caso del Prt, a una versione mitica della guerra di Liberazione algerina). La storia del Fronte sandinista, fino alla sua vittoria del 1979 sulla dittatura somozista, rivela la combinazione di orientamenti diversi: quello della “tendenza guerra di popolo” e di Tomas Borge, che pone l’accento sullo sviluppo della guerriglia in montagna e l’esigenza di un lungo periodo di graduale accumulazione di forze; quello della “tendenza proletaria” (Jaime Wheelock), che insiste sulle ripercussioni sociali dello sviluppo capitalistico in Nicaragua e sul rafforzamento della classe operaia, pur conservando la prospettiva di una prolungata accumulazione di forze, in vista di un “momento insurrezionale”; quello della “tendenza tercérista” (i fratelli Ortega), che sintetizza le altre due e permette di collegare il fronte del sud e la sollevazione diManagua.

A posteriori, Humberto Ortega ha sintetizzato le divergenze in questi termini: “Chiamo politica di accumulazione passiva di forze la politica che consiste nel non intervenire nelle occasioni congiunturali, nell’accumulare forze a freddo. Questa passività si manifesta al livello delle alleanze. Vi era passività anche nel fatto che pensavamo che si potessero accumulare armi, organizzarsi, raccogliere risorse umane senza combattere il nemico, senza far partecipare le masse”.9 Riconosce, tuttavia, che le circostanze hanno sconvolto i vari piani: “Abbiamo chiamato all’insurrezione. Gli avvenimenti sono precipitati, le condizioni oggettive non ci permettevano di prepararci meglio. Non potevamo, infatti, dire no all’insurrezione: il movimento di massa aveva assunto un’ampiezza tale che l’avanguardia non era in grado di dirigerlo. Non potevamo opporci a quel fiume; tutto quello che potevamo fare era prenderne la testa per guidarlo, più o meno, e per dargli una direzione”. E conclude: “La nostra strategia insurrezionale ha gravitato sempre attorno alle masse e non a un piano militare. Questo deve essere chiaro”. La scelta strategica, infatti, implica un ordine di priorità politiche, di fasi di intervento, di parole d’ordine, e determina la politica di alleanze.

Da Los dias de la selva a El treno en la ciudad, il racconto di Mario Payeras del processo guatemalteco illustra il rientro dalla selva verso la città e il cambiamento dei rapporti tra piano militare e piano politico, tra città e campagna. La critica delle armi (o l’autocritica) di Régis Debray, nel 1974, registra del pari il bilancio degli anni sessanti e gli sviluppi delineatisi. In Europa e negli Stati Uniti, le avventure disastrose della Raf in Germania, dei Weathermen negli Stati Uniti (per non parlare dell’effimera tragi-commedia della Sinistra proletaria in Francia – e delle tesi di July/Geismar nell’indimenticabile Vers la guerre civile) e altri tentativi di tradurre in “guerriglia urbana” l’esperienza della guerriglia rurale, si sono chiusi di fatto con gli anni settanta. Gli unici casi di movimento armato che siano riusciti a perdurare sono quelli di organizzazioni che trovavano la propria base sociale nelle lotte contro l’oppressione nazionale (Irlanda, Euzkadi).10Queste ipotesi ed esperienze strategiche non sono, dunque, riducibili a un orientamento militarista. Esse sistematizzano un insieme di tesi politiche. Ad esempio, la concezione del Prt della rivoluzione argentina come guerra nazionale di liberazione induceva a privilegiare la costruzione dell’esercito (Erp) a danno dell’autorganizzazione nelle fabbriche e nei quartieri. Analogamente, l’orientamento delMir, ponendo l’accento, sotto l’Union popular, sull’accumulazione di forze (e di basi rurali) in una prospettiva di lotta armata prolungata, portava a relativizzare la prova di forza del colpo di Stato e soprattutto a sottovalutarne le durevoli conseguenze. Eppure, Miguel Enriquez aveva percepito bene dopo il fallimento del “tankazo” il breve momento propizio alla formazione di un governo di lotta che preparasse alla prova di forza.

La vittoria sandinista del 1979 segna sicuramente una nuova svolta. Perlomeno lo sostiene Mario Payeras, sottolineando che in Guatemala (e nel Salvador) i movimenti rivoluzionari non avevano più di fronte dittature fantoccio tarlate, ma consiglieri israeliani, taiwanesi, statunitensi esperti di guerre di “bassa intensità” e di “contro-insurrezione”. Questa crescente asimmetria si è poi estesa su scala mondiale con le nuove dottrine strategiche del Pentagono e la guerra “infinita” dichiarata contro il terrorismo. È uno dei motivi (in aggiunta alla tragica iperviolenza dell’esperienza cambogiana, della controrivoluzione burocratica in URSS, della Rivoluzione culturale in Cina) per cui la questione della violenza rivoluzionaria, ancora ieri percepita come innocente e liberatrice (attraverso le epopee del Granma e del Che, o attraverso i testi di Fanon, di Giap, di Cabrai), è diventata spinosa, se non un vero e proprio tabù. Assistiamo, ad esempio, alla ricerca di una strategia asimmetrica a tentoni dal debole al forte, che compie la sintesi di Lenin e Gandhi,11 o si orienta verso la non-violenza.12 Eppure il mondo, dopo il crollo del Muro di Berlino, non è diventato meno violento. Sarebbe incautamente ingenuo scommettere oggi su un’ipotetica “via pacifica” che niente, nel secolo degli estremi, è intervenuto a confermare. Ma è un’altra storia, che va oltre i limiti di quanto intendo affrontare.

L’ipotesi dello sciopero generale insurrezionale

L’ipotesi strategica che ci è valsa da filo a piombo negli anni settanta è quella dello sciopero generale insurrezionale, perlopiù contrapposto alle varianti maoiste acclimatate e alle interpretazioni fantasiose della Rivoluzione culturale. Di questa ipotesi, secondo Antoine (Artous), saremmo ormai “orfani”. Ieri essa avrebbe avuto una certa “funzionalità”, ormai perduta. Egli, tuttavia, riconferma la pertinenza sempre attuale dei concetti di crisi rivoluzionaria e di dualismo di potere, insistendo sull’indispensabile ricostruzione di un’ipotesi seria, anziché sciacquarsi la bocca con la parola rottura e con esasperazioni verbali. La sua attenzione si concentra su due punti.

Per un verso, Antoine insiste sul fatto che il dualismo di potere non potrebbe restare al di fuori delle istituzioni esistenti e spuntare all’improvviso dal nulla in forma di una piramide di soviet o di consigli. È possibile che abbiamo ceduto in passato in questa visione più che semplicistica dei processi rivoluzionari reali che studiavamo in dettaglio nelle scuole di formazione (Germania, Spagna, Portogallo, Cile, e la stessa Rivoluzione russa). Tuttavia ne dubito, talmente ciascuna di quelle esperienze ci poneva di fronte alla dialettica tra le varie forme di autor-ganizzazione e le istituzioni parlamentari o comunali esistenti. Ad ogni modo, ammesso che possiamo avere avuto una visione del genere, è stata rapidamente corretta da alcuni testi.13 Addirittura al punto che saremmo stati turbati o colpiti all’epoca dall’adesione di Mandel all’“economia mista” a partire dal riesame dei rapporti tra soviet e Costituente in Russia. È ben evidente infatti, a fortiori in paesi di più che centenaria tradizione parlamentare, dove è saldamente radicato il principio del suffragio universale, che non si potrebbe immaginare un processo rivoluzionario diversamente da un trasferimento di legittimità, assegnando la preminenza al “socialismo dal basso”, ma in interferenza con le forme rappresentative.

Praticamente, siamo evoluti su questo punto, al momento, ad esempio, della rivoluzione nicaraguense. Potevamo contestare il fatto di organizzare elezioni “libere” nel 1989, nel quadro della guerra civile e dello stato d’assedio, ma non ne abbiamo messo in discussione il principio. Abbiamo piuttosto rimproverato ai sandinisti la soppressione del “consiglio di Stato” che avrebbe potuto costituire una sorta di seconda camera sociale e un polo di legittimità alternativo rispetto al parlamento eletto. Del pari, su scala ben più modesta, sarebbe utile tornare sulla dialettica a Porto Alegre tra l’istituzione municipale eletta a suffragio universale e i comitati del bilancio partecipativo.

In realtà, il problema posto non è quello dei rapporti tra democrazia territoriale e democrazia di fabbrica (la Comune, i soviet, l’assemblea popolare di Setubal erano strutture territoriali), e neppure quello dei rapporti tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa (ogni democrazia è in parte rappresentativa e Lenin non era fautore del mandato imperativo), ma quello della formazione di una volontà generale. Il rimprovero rivolto generalmente (dagli eurocomunisti o da Norberto Bobbio) alla democrazia di tipo sovietico ha di mira la sua tendenza corporativa: una sommatoria (o una piramide) di interessi particolari (di campanile, di fabbrica, di ufficio) legati da mandato imperativo non può fare emergere la volontà generale. La sussidiarietà democratica ha anche i suoi limiti: se gli abitanti di una valle si oppongono al passaggio di una strada o quelli di una città a una discarica per rifilarla al vicino, una forma di accentramento arbitrale è necessaria.14 Nella discussione con gli eurocomunisti, insistevamo sulla necessaria mediazione dei partiti (e sulla loro pluralità) per emanare proposte sintetiche e contribuire alla formazione di una volontà generale a partire da punti divista particolari. Senza avventurarci in elucubrazioni su meccanismi istituzionali, abbiamo anche inserito sempre più spesso nei nostri documenti programmatici l’ipotesi generale di una doppia camera, le cui modalità pratiche rimangono aperte all’esperienza. La seconda preoccupazione di Antoine, soprattutto nella sua critica del testo di Callinicos, verte sul fatto che il suo percorso della transizione si fermerebbe alla soglia del problema del potere, lasciata a un improbabile deus ex machina, o ipoteticamente risolta dal dilagare spontaneo delle masse e dall’irrompere di democrazia sovietica. Se la difesa delle libertà pubbliche figura nel suo programma, in Alex non vi sarebbe alcuna rivendicazione di tipo istituzionale (elezioni con la proporzionale, Assemblea costituente o unica, trasformazione democratica radicale). Quanto a Cédric Durand, concepirebbe le istituzioni come semplici ricambi delle strategie di autonomia e di protesta, cosa che in pratica può ben tradursi in un compromesso tra “il basso” e “l’alto”, in altri termini in un volgare lobbying del primo sul secondo lasciato intatto.

In effetti, tra i protagonisti della polemica di Critique comuniste vi è convergenza sul corpus programmatico ispirato a La catastrofe imminente (Lenin) e al Programma di transizione (Trotsky): obbiettivi transitori, politica di alleanze (fronte unico),15 logica di egemonia, e sulla dialettica (non l’antinomia) tra riforme e rivoluzione. Ad esempio, noi siamo contrari all’idea di scindere e tenere fisso un programma minimo (“antiliberista”) dissociato da un programma “massimo” (anticapitalista), convinti che un antiliberismo conseguente sfoci nell’anticapitalismo e che le due cose si intreccino grazie ala dinamica delle lotte.

Possiamo discutere la formulazione precisa degli obbiettivi transitori in funzione dei rapporti di forza e dei livelli di coscienza dati. Ma concorderemo facilmente sul posto che hanno in questi i problemi relativi alla proprietà privata dei mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio, si tratti di una pedagogia del servizio pubblico, della telematica, dei beni comuni dell’umanità, o del problema sempre più importante della socializzazione dei saperi (in contrapposizione alla proprietà intellettuale privata). Allo stesso modo, saremo d’accordo di esplorare le forme di socializzazione del salario tramite sistemi di protezione sociale, per arrivare al deperimento dei salari stessi. Per finire, alla mercificazione generalizzata contrapponiamo le possibilità aperte dall’allargamento dei campi di gratuità (quindi di “demercificazione”) non solo ai servizi, ma a tutta una serie di beni di consumo indispensabili.

Tre criteri per il governo operaio

La spinosa questione del processo di transizione e quella del “governo operaio” o del “governo dei lavoratori”: la difficoltà non è nuova. La discussione sul bilancio della rivoluzione tedesca e del governo di Sassonia-Turingia, in occasione del V Congresso dell’Internazionale comunista, mostra l’ambiguità irrisolta delle formulazioni uscite dai primi congressi dell’Ic e la gamma delle interpretazioni pratiche cui hanno potuto dar luogo. Treint, allora, sottolinea nella sua relazione che “la dittatura del proletariato non cade dal cielo; deve avere un inizio, e il governo operaio è sinonimo dell’inizio della dittatura del proletariato”. Denuncia, viceversa, la “sassonizzazione” del fronte unico: “L’ingresso dei comunisti in un governo di coalizione con pacifisti borghesi per impedire interventi contro la rivoluzione non era sbagliato in teoria, ma governi come quello del Partito laburista o quello del Cartello delle sinistre fanno sì che “la democrazia borghese trovi un’eco nei nostri stessi partiti”.

Nel dibattito sull’attività dell’Internazionale, Smeral dichiara: “Quanto alle tesi del nostro congresso [dei comunisti cechi] del febbraio 1923 sul governo operaio, eravamo tutti convinti nel redigerle che corrispondessero alle decisioni del IV Congresso. Sono state adottate all’unanimità”. Ma “a che cosa pensano le masse quando parlano di governo operaio?”: “In Inghilterra, pensano al Partito laburista, in Germania e nei paesi in cui il capitalismo è in decomposizione, il fronte unico significa che i comunisti e i socialdemocratici, anziché combattersi quando si scatena lo sciopero, marciano fianco a fianco. Il governo operaio, per queste masse, ha lo stesso significato, e quando si utilizza questa formula immaginano un governo di unità tra tutti i partiti operai”. E Smeral soggiunge: “In che cosa consiste la lezione di fondo dell’esperienza sassone? Innanzitutto in questo: non si può saltare di colpo a pie’ pari senza prendere la rincorsa”.

Ruth Fisher gli risponde che, come coalizione dei partiti operai, il governo operaio significherebbe “la liquidazione del nostro partito”. Nella sua relazione sul fallimento dell’Ottobre tedesco, Clara Zetnik sostiene: “A proposito del governo operaio e contadino, non posso accettare la dichiarazione di Zinoviev secondo cui si tratterebbe di un semplice pseudonimo, un sinonimo o dio sa quale omonimo, della dittatura del proletariato. Forse andava bene per la Russia, ma non è lo stesso per i paesi in cui il capitalismo è vigorosamente sviluppato. Là, il governo operaio e contadino è l’espressione politica di una situazione in cui la borghesia ormai non riesce più a mantenersi al potere, ma in cui il proletariato non è ancora in condizione di imporre la propria dittatura”. Zinoviev, infatti, definiva come “obiettivo elementare del governo operaio” l’armamento operaio, il controllo operaio sulla produzione, la rivoluzione fiscale…

Si potrebbe continuare a citare i diversi interventi. Ne verrebbe fuori la sensazione di una grande confusione, che è espressione di una contraddizione reale e di un problema irrisolto, mentre il problema si poneva in rapporto a una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria. Sarebbe irresponsabile risolverla con un manuale valido per ogni situazione: si possono, comunque, ricavare tre criteri, combinati in modo variabile, di partecipazione a una coalizione governativa in una prospettiva transitoria: a) che la questione della partecipazione si ponga in una situazione di crisi, o almeno di significativa ascesa della mobilitazione sociale, e non a freddo; b) che il governo in questione si sia impegnato ad avviare una dinamica di rottura rispetto all’ordine stabilito (ad esempio – più modestamente dell’armamento che esigeva Zinoviev – riforma agraria radicale, “incursioni dispotiche” nel campo della proprietà privata, abolizione dei privilegi fiscali, rottura con le istituzioni della V Repubblica in Francia, dei Trattati europei, dei patti militari, ecc.); e) infine, che il rapporto di forza consenta ai rivoluzionari se non di garantire il mantenimento degli impegni almeno di far pagare caro non rispettarli. Alla luce di un approccio del genere, partecipare al governo Lula sembrava sbagliato: a) da una decina di anni, tranne il Movimento dei senza terra, il movimento di massa era in riflusso; b) la campagna elettorale di Lula e la sua Lettera ai brasiliani aveva preannunciato una politica chiaramente social-liberista e ipotecato in anticipo il finanziamento della riforma agraria e del programma “fame zero”; e) infine, in seno al partito e al governo, il rapporto di forza sociale era tale che, con un mezzo ministero dell’Agricoltura, non era il caso di sostenere il governo “come la corda regge l’impiccato”, anzi come potrebbe reggerlo un capello. Ciò detto, tenendo conto della storia del paese, della sua struttura sociale e della formazione del Pt, pur esprimendo a voce le nostre riserve sulla partecipazione ed avvertendo i compagni dei rischi, non ne abbiamo fatto una questione di principio, preferendo accompagnare l’esperienza per ricavarne il bilancio insieme ai compagni, anziché somministrare lezioni “dal di fuori”.16

A proposito della dittatura del proletariato

La questione del governo operaio ci ha inevitabilmente ricondotto a quella della dittatura del proletariato. Un precedente congresso della LCR francese ha deciso a maggioranza di oltre due terzi di eliminarne il riferimento nel testo degli Statuti. Era ragionevole. Oggi, il termine dittatura evoca ben più le dittature militari o burocratiche del XX secolo che non la venerabile istituzione romana del potere eccezionale, debitamente decretato dal Senato e di durata limitata nel tempo. Poiché Marx ha visto nella Comune di Parigi “la forma finalmente ritrovata” della dittatura del proletariato, è quindi preferibile, per essere compresi, richiamare la Comune, i Soviet, i consigli o l’autogestione, piuttosto che rimanere ancorati a un termine feticistico, diventato fonte di confusione per la vicenda storica.

Questo, tuttavia, non ci libera del problema posto dalla formula di Marx e del rilievo ad esso attribuito nella celebre lettera a Kugelmann. In genere, si tende a vedere nella “dittatura del proletariato” l’immagine di un regime autoritario e a considerarla sinonimo delle dittature burocratiche. Per Marx, si trattava invece della soluzione democratica di un vecchio problema, l’esercizio per la prima volta maggioritario (da parte del proletariato) del potere d’eccezione, fino ad allora riservato a un’elite virtuosa (comitato di salute pubblica – ancorché questo sia rimasto un’emanazione della Convenzione, da questa revocabile), o un “triumvirato” di figure esemplari.17 Allora, tra l’altro, il termine dittatura si contrapponeva spesso a quello di tirannide come espressione di arbitrio. Il concetto di dittatura del proletariato, tuttavia, aveva anche una portata strategica, spesso richiamata nel dibattito degli anni settanta, quando venne lasciata cadere dalla maggior parte dei partiti (euro)comunisti. In realtà, era chiaro per Marx che il nuovo diritto, espressione di un nuovo rapporto sociale, non potesse nascere in continuità con il vecchio diritto: tra due legittimazioni sociali, “tra due diritti uguali, è dirimente la forza”. La rivoluzione implica, quindi, un passaggio obbligato per lo stato d’eccezione. Lettore attento della polemica tra Lenin e Kautsky, Cari Schmitt ne ha colto perfettamente la posta in gioco distinguendo tra “dittatura commissaria”, la cui funzione in situazione di crisi è quella di preservare l’ordine esistente, e “dittatura sovrana”, che instaura un nuovo ordine tramite l’esercizio del potere costituente.18 Se questa prospettiva strategica resta, a prescindere da come la si chiami, ne derivano necessariamente una serie di conseguenze, per l’organizzazione dei poteri, per il diritto, perla funzione dei partiti, ecc.

Attualità o meno del processo strategico

Il concetto di attualità ha una duplice accezione: un senso lato (“l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni) e uno immediato o congiunturale. Nella situazione difensiva nella quale si trova costretto il movimento operaio europeo da più di un ventennio, nessuno potrebbe pretendere che la rivoluzione sia di attualità in senso immediato. Sarebbe, invece, arrischiato, e non senza conseguenze, cancellarla dall’orizzonte dell’epoca. Se è questa la distinzione che intende operare Francis (Sitel) nel suo contributo, preferendo, per evitare “una visione allucinata degli attuali rapporti di forza”, a “prospettiva attuale” una “prospettiva in atto… che addestra le lotte presenti ai necessari sbocchi di queste stesse lotte”, non vi è motivo di contendere. Più discutibile è l’idea secondo cui potremmo conservare l’obbiettivo della conquista del potere “come condizione della radicalità, ma ammettendo che la sua attualizzazione è oggi al di là della linea del nostro orizzonte”. Egli precisa che la questione governativa – vista al di sotto del nostro orizzonte? – non è legata al problema del potere, ma a “un’esigenza più modesta”, vale a dire quella di “proteggersi” dall’offensiva liberista. Interrogarsi sulle condizioni per la partecipazione governativa non entra, allora, “dall’atrio monumentale della riflessione strategica, ma dalla “porta angusta dei partiti larghi”. C’è da temere che a guidare, in tal caso, la costruzione del partito non sia più indispensabile il programma, ma che sia la dimensione di un partito algebricamente largo a determinare e delimitare il migliore dei mondi e dei programmi possibili. Si tratterebbe, quindi, di sdrammatizzare il problema governativo come problema strategico, per concepirlo come un semplice “problema di indirizzo” (è, entro certi limiti, quello che abbiamo fatto nel caso brasiliano). Tuttavia, a meno di cadere nella classica dissociazione del programma minimo dal programma massimo, una “problema di indirizzo” non è sganciato dalla prospettiva strategica. E se “largo” è ovviamente più generale ed aperto che non stretto e chiuso, in fatto di partiti c’è largo e largo: le larghezze del Pt brasiliano, di Die Linke, dell’Odp, del Blocco delle sinistre, di Rifondazione comunista, ecc., non sono tutte della stessa natura.

“Gli sviluppi più sapienti in fatto di strategia rivoluzionaria sembrano piuttosto eterei – conclude Sitel – rispetto alla domanda: come agire qui ed ora?”. Certo, ma una simile massima pragmatica di buona qualità la si sarebbe potuta pronunciare nel 1905, nel febbraio 1917, nel maggio 1936, nel febbraio 1968, riducendo così il senso del possibile a quello prosaico del reale.

La diagnosi di Francis Sitel, e il suo adeguamento programmatico al livello, o al di sotto, della linea dell’orizzonte, non è senza conseguenze pratiche. Appena la nostra prospettiva non si limita più alla presa del potere, ma rientra in un processo più lungo, di “sovversione dei poteri”, bisognerebbe riconoscere che il “partito tradizionale [tradizionale indica i partiti comunisti o più in generale i partiti socialdemocratici, anch’essi incentrati sulla conquista del potere governativo per via parlamentare?] concentrato sulla conquista del potere è indotto a conformarsi a questo stesso Stato” e, quindi, “a trasferire al proprio interno meccanismi di dominazione che minano la dinamica stessa dell’emancipazione”. Occorrerebbe dunque inventare una nuova dialettica tra il politico e il sociale. Certo, noi ci impegniamo in questo nella pratica e nella teoria, respingendo sia “l’illusione politica” sia “l’illusione sociale”, o ricavando le principali conclusioni dalle esperienze negative passate (sull’indipendenza delle principali organizzazioni sociali dallo Stato e dai partiti, sul pluralismo politico, sulla democrazia all’interno dei partiti…).

Ma il problema non sta tanto nella trasmissione tramite un partito “conformato allo Stato” dei suoi meccanismi di dominazione, quanto nel fenomeno più profondo e meglio condiviso di burocratizzazione (radicato nella divisione del lavoro) inerente alle moderne società: esso colpisce l’insieme delle organizzazioni sindacali o associative. In realtà, la democrazia di partito (in contrapposizione a quella mediatica e plebiscitaria cosiddetta “d’opinione”) sarebbe piuttosto, se non un rimedio assoluto, almeno uno degli antidoti alla trasformazione professionale del potere e alla “democrazia di mercato”. Lo si dimentica troppo spesso, non vedendo nel centralismo democratico altro che il naso finto del centralismo burocratico, mentre una qualche centralizzazione è la condizione stessa della democrazia, non la sua negazione.

La conformità del partito allo Stato riecheggia l’isomorfismo rilevato (da Boltansky e Chiapello in Il nuovo spirito del capitalismo) tra la struttura del Capitale stesso e le strutture subalterne del movimento operaio. La questione della subalternità è cruciale e non la si elude né risolve facilmente: la lotta per il salario e il diritto all’occupazione (a volte chiamato “diritto al lavoro”) è certamente una lotta subalterna (isomorfa) al rapporto capitale/lavoro. Dietro questo c’è tutto il problema dell’alienazione, del feticismo, della reificazione.19 Credere però che le forme “fluide”, l’organizzazione in rete, la logica delle affinità (contrapposta alle logiche dell’egemonia) sfuggano alla subalternità e al riprodursi dei rapporti di dominazione discende da un’illusione grossolana. Queste forme sono perfettamente isomorfe alla moderna organizzazione del capitale informatizzato, alla flessibilità del lavoro, alla “società liquida”, ecc. Questo non significa che le vecchie forme di subordinazione fossero migliori o preferibili a quelle emergenti, ma soltanto che non si è usciti trionfalmente dalla rete del circolo vizioso dello sfruttamento e del dominio.

Sul “partito largo”

Francis (Sitel) teme che i concetti di “eclisse” o di “ritorno” della ragione strategica non significhino altro che la semplice chiusura di una semplice parentesi e il ritorno all’identico o alla ripresa della questione nei termini in cui è stata posta dalla III Internazionale. Insiste sull’esigenza di “ridefinizioni di fondo”, di una reinvenzione, di una “nuova costruzione”, di cui il movimento operaio ha bisogno. Naturalmente. Ma niente tabula rasa: “Si ricomincia sempre dal centro”! La retorica della novità non garantisce da ricadute nel vecchio più vecchio, e più stantio. Se vale per novità autentiche (in fatto di ecologia, di femminismo, di guerra e di diritto…), molte delle “novità” di cui l’epoca si pasce, non sono che effetti di mode (che come tutte le mode si nutrono di citazioni del vecchio), e riciclaggi di vecchi temi utopici del secolo e del movimento operaio ai suoi albori. Le questioni sono parecchie ma, per quello che possiamo, cerchiamo – con il Manifesto, tra l’altro – di fornire qualche elemento di risposta ad alcune di esse, e ci piacerebbe che i nostri partner ne tenessero conto.

Avendo giustamente ricordato che riforme e rivoluzione costituiscono nella nostra tradizione un binomio dialettico, e non una contrapposizione di termini reciprocamente escludentisi (benché le riforme possano, a seconda delle situazioni, trascrescere in processi rivoluzionari o, viceversa, contrapporvisi), Francis azzarda la predizione in base alla quale un “partito largo si definirà come un partito di riforme”. Forse, può darsi; ma è un’idea speculativa e normativa per anticipazione. E, soprattutto, non è un problema nostro. Non dobbiamo mettere il carro davanti ai buoi e inventare tra noi il programma minimo (di riforme) per un ipotetico “partito largo”. Noi dobbiamo definire il nostro progetto e il nostro programma. È partendo da questo che potremo, di fronte a situazioni concrete e a partner concreti, valutare i compromessi possibili, disposti ad accettare di perdere (un po’) quanto a chiarezza se vinciamo (molto) in superfìcie sociale, in esperienza e in dinamismo. Questa non è una novità: abbiamo partecipato alla formazione del Pt (per costruirlo, e non in un’ottica tattica centrista), continuando a sostenere le nostre posizioni; i nostri compagni hanno militato come tendenza in Rifondazione; sono parte integrante del Blocco delle sinistre in Portogallo, ecc. Ma tutte queste configurazioni sono specifiche, e non è possibile raccoglierle nell’indistinta categoria del “partito largo”.

Il dato strutturale della situazione apre incontestabilmente uno spazio alla sinistra delle grandi formazioni tradizionali (socialdemocratiche, staliniste, populiste) del movimento operaio. Le ragioni sono molteplici. La controriforma liberista, la privatizzazione dello spazio pubblico, lo smantellamento dello “Stato sociale”, la società di mercato, hanno tagliato (con il suo stesso concorso attivo) il ramo su cui sedeva la socialdemocrazia (come pure la gestione populista, in alcuni paesi dell’America Latina). I partiti comunisti hanno, inoltre, subito il contraccolpo dell’implosione sovietica contemporaneamente all’erosione delle loro basi sociali operaie, conquistate negli anni trenta o al momento della Liberazione, senza che nuovi insediamenti ne prendano il posto. C’è sicuramente, quindi, quello che spesso viene chiamato “uno spazio” di radicalità, che si manifesta in vario modo con l’emergere di nuovi movimenti sociali e di espressioni elettorali (Die Linke tedesca, Rifondazione in Italia, Respect in Gran Bretagna, SSP in Scozia, Blocco in Portogallo, coalizione rosso-verde in Danimarca, estrema sinistra in Francia o in Grecia…). Su questo si fonda l’attualità delle ricomposizioni e dei raggruppamenti.

Tuttavia, questo “spazio” non è uno spazio omogeneo e vuoto (newtoniano), che sarebbe sufficiente occupare. Si tratta di un campo di forze eminentemente instabile, come dimostra in maniera spettacolare la conversione, in meno di tre anni, di Rifondazione, che passa dal movimentismo lirico, al momento di Genova e di Firenze,20 alla coalizione governativa di Romano Prodi. L’instabilità dipende dal fatto che le mobilitazioni sociali subiscono più sconfitte di quanto non ottengano vittorie, e dal fatto che il loro nesso con la trasformazione del paesaggio della rappresentanza politica resta molto allentato. In assenza di significative vittorie sociali, la speranza del “male minore” (“tutto tranne Berlusconi, o Sarkozy, o Le Peni”), senza cambiamento reale, si trasferisce sul terreno elettorale, in cui resta determinante il peso delle logiche istituzionali (in Francia, quella del presidenzialismo plebiscitario e di un sistema elettorale particolarmente antidemocratico). Per questo la simmetria del giusto mezzo (già di moda sotto Filippo il Bello: attenzione a destra, attenzione a sinistra!) tra un pericolo opportunista e un pericolo conservatore è una falsa prospettiva: non hanno il medesimo peso. Se bisogna sapere avere il coraggio di prendere decisioni rischiose (l’esempio più estremo, la decisione insurrezionale dell’Ottobre), il rischio, per non trasformarsi in avventura pura e semplice, va calcolato e occorre valutarne le eventualità. Ci siamo imbarcati, dobbiamo scommettere, diceva un grande dialettico. Ma gli appassionati di corse di cavalli sanno bene che una scommessa di 2 contro 1 è un gioco con scarso guadagno, mentre una sfida di 1 000 a 1, pur potendo fruttare molto, è un colpo disperato. Il margine sta tra le due. Anche l’audacia ha le sue ragioni.

L’evoluzione da sinistra a destra di correnti come quelle espresse da Rifondazione o da Die Linke resta fragile (o reversibile), anche per gli effetti limitati delle lotte sociali sul piano della rappresentanza politica. Essa dipende in parte dalla presenza e dal peso al loro interno di organizzazioni o di tendenze rivoluzionarie. Al di là dei dati comuni molto generali, le situazioni sono quindi molto diverse, a seconda della specifica storia del movimento operaio (a seconda, tra l’altro, che la socialdemocrazia sia totalmente egemone o sussistano importanti partiti comunisti) e dai rapporti di forza interni alla sinistra: non si spostano apparati che sono il risultato non solo dell’ideologia ma anche delle logiche sociali parlando all’orecchio dei dirigenti, ma modificando i reali rapporti di forza.

La prospettiva di una “nuova forza” resta una formula algebrica di attualità (lo era per noi prima del 1989-1991, e lo è tanto più dopo). La sua traduzione pratica non si deduce automaticamente da formule così vaghe e generiche come Partito largo o i raggruppamenti. Siamo soltanto all’inizio di un processo di ricomposizione. È importante affrontarlo con una bussola programmatica e un intento strategico. È una delle condizioni che ci consentirà di trovare le necessarie mediazioni organizzative, di assumere rischi calcolati, senza buttarsi a corpo morto nell’avventura impaziente e senza dissolversi nella prima effimera combinazione che capiti. Le formule organizzative sono, infatti, molto variabili, a seconda che si tratti di un nuovo partito di massa (come il PT in Brasile negli anni ottanta, ma quel modello è poco verosimile in Europa), di rotture minoritarie emerse da una socialdemocrazia egemone, o anche di partiti che un tempo avremmo probabilmente definito centristi (Rifondazione all’inizio del 2000), o di un fronte di tendenze rivoluzionarie (il caso del Portogallo). Quest’ultima ipotesi resta peraltro quella più probabile in paesi come la Francia, dove le organizzazioni (PC, estrema sinistra) hanno una lunga tradizione e dove, a meno di un forte movimento sociale, è difficile immaginare la loro fusione pura e semplice a breve o medio termine. Tuttavia, in ogni caso, il riferimento a un comune bagaglio programmatico, lungi dal costituire un ostacolo identitario per future ricomposizioni, ne è, viceversa, la condizione. Questo consente di risistematizzare le questioni strategiche e quelle tattiche (anziché lacerarsi su questa o quell’altra scadenza elettorale), di individuare lo zoccolo politico su cui si raccoglie un’organizzazione delle questioni teoriche aperte, di misurare i compromessi che fanno andare avanti e quelli che portano indietro, di modulare le forme di esistenza organizzativa (tendenza in un partito comune, componente di un fronte, ecc.), a seconda dei partner e della loro dinamica fluttuante (da destra a sinistra o da sinistra a destra).

Segnaliamo soltanto che non si sono affrontate alcune questioni scottanti in rapporto a questa discussione, ma che dovranno esserlo in ulteriori riunioni. Abbiamo previsto che il prossimo incontro annuale del Progetto K (nel 2007) dovrà trattare, oltre al dibattito su “classi, plebi, moltitudini”, delle forze sociali del cambiamento rivoluzionario, delle loro forme di organizzazione, delle loro convergenze strategiche. Questa questione ha anche un rapporto, al di là della formula generale del fronte unico, con il problema delle alleanze, quindi con la valutazione della sociologia e delle trasformazioni dei partiti tradizionalmente definiti “operai”, come pure dell’analisi delle tendenze emerse, ad esempio in America Latina, dalle formazioni populiste.

Erre n° 37, 2010
www.danielbensaid.org

Documents joints

  1. Questo è sottolineato, all’indomani della vittoria del No al referendum constituzionale francese, dall’articolo di Stathis Kouvelakis su « il ritorno della questione politica ». Vedi Contretemps n° 14, septembre 2005.
  2. Alex Callinicos, An anti-capitalist Manifesto, Polity Press, Cambridge, 2003.
  3. Non andrò oltre su questo aspetto della questione. Si tratta di un semplice appello (vedi a questo proposito le tesi proposte al dibattito organizzato da Das Argument).
  4. Nella riunione di lavoro di Projet K.
  5. Che, nel suo articolo in Critique communiste n° 179 sembra attribuirci una « visione a tappe del cambiamento sociale » e « una temporalità dell’azione politica centrata esclusivamente sulla preparazione della rivoluzione come instante decisivo » (alla quale egli oppone « un tempo storico altermondialista e zapatista » ??!!). Quanto a John Holloway, vedi la critica circostanziata del suo approccio in Un monde à changer (Daniel Bensaïd, Paris, Textuel 2003), in Planète altermondialiste [collectif, Textuel, 2006], e negli articoli di Contretemps.
  6. Vedi il piccolo libro di Perry Anderson sulle Ambiguità in Gramsci, Laterza, 1978.
  7. Vedi il libro di Giacomo Marramao, Il politico e il transformazioni, e Stratégies et partis (La Brèche).
  8. Vedi anche il Journal de Révolution cubaine di Carlos Franqui.
  9. « La strategia della vittoria », intervista di Martha Harnecker. Alla domanda sulla data dell’appello all’insurrezione, Ortega risponde: « Perché si sono presentate una serie di condizioni oggettive sempre più favorevoli: la crisi economica, la svalutazione della moneta, la crisi politica. E poiché dopo gli eventi del mese di settembre ci siamo resi conto che era necessario combinare nello stesso tempo e nello stesso spazio strategico la sollevazione delle masse a livello nazionale, l’offensiva delle forze militari del fronte e lo sciopero nazionale nel quale il padronato era impegnato o l’approvava di fatto. Se non avessimo combinato questi tre fattori strategici nello stesso tempo e nello stesso spazio strategico, la vittoria non sarebbe stata possibile. Si aveva ripetutamente chiesto uno sciopero nazionale, ma senza combinarlo con l’offensiva delle masse. Le masse si erano già sollevate, ma senza la combinazione con lo sciopero la capacità militare dell’avanguardia era troppo debole. L’avanguardia aveva già sferrato dei colpi al nemico, ma senza che gli altri due fattori fossero presenti. »
  10. Vedi Dissidences, Révolution, lutte armée et terrorisme, volume I, L’Harmattan, 2006.
  11. Questo è in particolare il tema dei testi recenti di Balibar.
  12. Il dibattito sulla non-violenza nella rivista teorica (Alternative) di Rifondazione comunista non è certamente senza alcun rapporto con il suo corso attuale.
  13. Di Mandel specialmente, nelle sue polemiche con le tesi eurocomunista. Vedi il suo libro nella piccola collezione Maspero e soprattutto la sua intervista a Critique communiste.
  14. L’esperienza del bilancio partecipativo nello stato del Rio Grande do Sul offre dei buoni esempi concreti a questo proposito : dall’attribuzione del credito, della gerarchia delle priorità, della ripartizione territoriale delle strutture collettive, etc.
  15. Lo stesso questa nozione di fronte unico, o a fortiori quella di fronte unico anti-imperialista rimessa all’ordine del giorno da alcuni rivoluzionari in America latina, merita di essere ridiscussa alla luce dell’evoluzione delle formazioni sociali , del ruolo e della composizione dei partiti politici etc.
  16. Questa era la posta in gioco, per quanto riguarda l’orientamento in Brasile, c’era una concezione dell’Internazionale e del suo rapporto con le sezioni nazionali. Ma è una questione che fuoriesce dalla natura di questi testo.
  17. Vedi Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, Einaudi, 1972.
  18. Vedi Carl Schmitt, La Dittatura, Settimo Sigillo, 2007.
  19. Sul feticismo, vedi Jean-Marie Vincent, Antoine Artous…
  20. Vedi il libro di Fausto Bertinotti ( del 2000 !) : Le idee che non muoino (Ponte delle Grazie), e la presentazione critica delle sue tesi (pubblicata in occasione del Forum Sociale Europeo di Firenze) in Un monde à changer (Daniel Bensaïd, Paris, Textuel 2003).
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