Crisi di ieri e di oggio

“Se fallite, un cambiamento razionale sarà compromesso seriamente in tutto il mondo,
e la soluzione verrà rinviata all’esito dello scontro tra l’ortodossia e la rivoluzione.”

J.-M. Keynes a F.D. Roosevelt, in New York Times, 31 dicembre 1933.

Con questo scritto Bensaïd ha introdotto un inedito di Marx sulla crisi capitalistica. Con una chiarezza evidente, egli descrive le linee di fondo della crisi attuale, utilizzando le categorie marxiane, riferendole all’attualità politica ed economica e facendo il parallelo con la Grande Crisi del 1929. Un testo per orientarsi ancora nel mix di propaganda e mistificazione che avvolge la crisi finanziaria globale e per trovare le risposte adeguate a contrastarla.

Tante cose sono cambiate dopo Marx, in fatto di tecnologie produttive, di fonti energetiche, di organizzazione del lavoro, di grande distribuzione, di forme creditizie, di mondializzazione dei mercati. Secondo Isaac Joshua, la crisi del 1929 è stata esemplare e tipica di un mondo in cui, per la prima volta, predominano società industriale e lavoro salariato; essa avrebbe inaugurato “l’era delle crisi a predominanza salariale”. Già nel 1999 sosteneva: “Ci troviamo sempre nell’era delle crisi a predominanza salariale, se ammettiamo che il grande periodo di crescita del secondo dopoguerra non è statao che una parentesi connessa a un fenomeno di ripresa dopo due guerre mondiali e una grande crisi. Una volta esaurito l’effetto di recupero e chiusa la parentesi, ritroviamo semplicemente l’era del 1929 e dei suoi rischi”. Nel 1930, quasi il 65% della popolazione mondiale era ancora impiegata in una qualche forma di produzione agricola. Con la globalizzazione, la predominanza della produzione per il mercato e del salariato ha ormai raggiunto uno stadio tale “che un’ondata di depressione partita da un punto del pianeta e che si ripercuote progressivamente può ormai fare il giro del globo, acquistando una forza sempre più devastante”. Poiché ormai la produzione commerciale e il rapporto di lavoro salariato hanno invaso tutto, le riserve esterne si sono ridotte, gli ammortizzatori che potevano costituire le solidarietà familiari e di villaggio si sono assottigliati. Perciò la crisi sociale cresce a valanga, mentre chi ci governa si compiace che ancora esistano quelli che chiamano graziosamente degli “stabilizzatori sociali”, in altri termini quei sistemi di protezione sociale che da anni si accaniscono a smantellare!

La logica di crisi analizzata da Marx si ritrova, così, amplificata e generalizzata nello scenario della crisi attuale. Essa scoppia non nel commercio al minuto ma “nel commercio all’ingrosso e nelle banche”. Comincia nella sfera finanziaria, con il “crack che pone bruscamente fine all’apparente prosperità”. Il capitale commerciale e bancario, che in una prima fase aveva contribuito a mascherare la sproporzione crescente tra produzione e consumo, finisce per costituire l’anello debole: “Pur se reso autonomo, non è mai altro se non il movimento del capitale industriale nella sfera della circolazione. Grazie però alla sua autonomia, i suoi movimenti, entro certi limiti, sono indipendenti dalle barriere erette dai processi di riproduzione cui esso stesso dà impulso, al di là dei propri limiti. La dipendenza all’interno e l’autonomia all’esterno finiscono per portare le cose al punto in cui la connessione interna va ristabilita con la forza, vale a dire con la crisi”.

Negli anni Settanta, il saggio di profitto, eroso dalle conquiste sociali imposte sull’onda dello sviluppo postbellico, grazie alla piena occupazione esistente all’epoca nei principali paesi capitalistici, volgeva nettamente al ribasso. La controriforma liberista avviata dai governi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan si è impegnata a demolire queste conquiste (l’indicizzazione relativa dei salari rispetto agli aumenti di produttività, i sistemi di protezione sociale, un moderato tasso di disoccupazione), per imporre quello che Fréderic Lordon chiama “un capitalismo a bassa pressione salariale”. Essa cercava soprattutto di modificare la suddivisione del valore aggiunto (per dirlo chiaro: di restaurare i profitti) a spese dei lavoratori salariati, di aumentare la produttività abbassando il costo del lavoro, di far saltare il catenaccio della protezione sociale, di fare evolvere la pressione fiscale a vantaggio delle imprese e dei redditi più elevati.

Tra il 1980 e il 2006, la quota dei salari sul valore aggiunto delle imprese è così scesa, effettivamente, dal 67% al 57% nei quindici paesi più ricchi dell’Ocse. Ne è derivata una relativa riduzione della domanda solvibile, compensata da una fuga in avanti del credito e delle spese militari, ma anche dal clamoroso approfondirsi delle disparità di redditi e patrimoni, arrivate a un livello senza precedenti dopo la Prima guerra mondiale, comportando una forte differenziazione nelle forme di consumo. Dopo il 1980, la percentuale dell’1% dei cittadini statunitensi sulla ricchezza nazionale è passata, ad esempio, dal 10% al 23%. Per indecenti che siano, le disuguaglianze sono anche funzionali; esse contribuiscono a stimolare l’iperconsumo di lusso di una casta che compensa in parte il restringersi del consumo di massa, senza potersi però sostituire ad esso. La rottura del “circolo virtuoso” che lega lo sviluppo dei salari agli aumenti di produttività e la relativa riduzione degli sbocchi che ne è conseguita hanno comportato un rallentamento degli investimenti produttivi. Nel 2005, mentre i saggi di profitto sono aumentati mediamente del 5,5% negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone sono cresciuti solo del 2%. La massa di profitti non reinvestiti si è riversata sui mercati finanziari. Al loro apogeo, nel 2006, le transazioni su questi mercati rappresentavano 50 volte il totale del Pil mondiale: 2.100.000 miliardi di dollari, contro 45 miliardi! Fatto 20 l’indice del 1960, i profitti delle società finanziarie raggiungevano in quello stesso 2006 un indice di 160. Dal 1982 al 2007, i profitti finanziari sono balzati dal 5% al 41% del totale dei profitti negli Stati Uniti. Inebriate da questa impennata, certe banche sono arrivate a prestare fino a 40 volte quello che potevano garantire i loro fondi. Al momento dell’esplosione della crisi, la solvibilità media delle banche inglesi era inferiore all’8%.

Nel corso dell’ultimo decennio, negli Stati Uniti (ma anche in paesi come la Spagna) la crescita è stata sorretta grazie al boom immobiliare, drogato dai crediti concessi a una clientela non solvibile o scarsamente solvibile. Nell’estate del 2007, questi crediti, a tassi inizialmente bassi ma variabili, senza apporti di denaro né garanzie, protetti da un’ipoteca sul bene acquistato, hanno raggiunto negli Stati Uniti una massa critica di 1 300 miliardi di dollari. Tra il 1975 e il 2006, il saggio di indebitamento delle famiglie è raddoppiato, raggiungendo il 127% del reddito disponibile. A questo punto, i prestatori non solo sono degli incompetenti o degli irresponsabili, ma dei truffatori e dei criminali sociali. Incoraggiano scientemente l’indebitamento di gente depauperata e insolvibile, scartando i loro titoli di credito dubbi e cancellandone le tracce nell’opacità della cartolarizzazione. Alla fine del percorso, milioni di famiglie si ritrovano sul lastrico, milioni di lavoratori non hanno più un posto di lavoro.

Concediamo (generosamente) a qualcuno il beneficio del dubbio. Supponiamo che non siano stati soltanto dei cinici. Accecati dal sortilegio del feticismo del denaro, essi avrebbero creduto nell’incredibile, nel miracolo del denaro che si autogenera senza passare per la fecondazione della produzione. Jean-Claude Trichet in persona si meravigliava, nel New York Times del 29 gennaio 2007: “Vi è ormai una tale creatività in materia di nuovi sofisticatissimi strumenti finanziari che non sappiamo dove siano i rischi”. Creatività costosa! Quanto al guru degli anni folli, Alan Greenspan, sottoposto a un duro interrogatorio da una Commissione della Camera dei deputati degli Stati Uniti, ammetteva con aria contrita di avere creduto che l’egoismo dei banchieri sarebbe stato un regolatore sufficiente: “Ho commesso un errore presumendo che il loro interesse personale fosse tale che sarebbero stati loro ad avere la posizione migliore per proteggere i propri azionisti”. E l’oracolo decaduto a concludere: “È crollato un pilastro essenziale del sistema dell’economia di mercato. La cosa mi ha sconvolto, e non ho ancora capito come sia potuto accadere”. Se lo dice lui…

“In confronto alla raffinatezza della speculazione sul valore, il modello di speculazione inglese sembra precipitato al livello primitivo della truffa pura e semplice”, scriveva Marx il 26 settembre 1856. Al momento dell’Esposizione universale di Londra, la costruzione del Crystal Palace aveva visto, infatti, mettere in circolazione 4.000 azioni false. La speculazione liberista degli ultimi decenni ha riportato a nuovi vertici la “truffa pura e semplice”. Il prodigio delle “rese sugli investimenti” del 15% rispetto a una crescita media al di sotto del 5% era ancor più sorprendente del miracolo biblico della moltiplicazione dei pani. Pretendendo saggi di remunerazione del capitale così mirabolanti, di fronte a una crescita mediamente tre volte inferiore, gli azionisti, soggiogati dal “feticcio capitalista” del “valore creatore di valore” e dal mistero dell’“interesse che sembra avere nel capitale la propria fonte”, non sono stati meno ciechi dei banchieri. Lo scandalo Madori è solo la manifestazione più spettacolare di questa folle rincorsa del profitto. Abilmente, Bernie (Madoff) e soci garantivano “modesti” rendimenti regolari dal 9% all’I 1%. Un ottimo investimento, insomma, capace di fare abboccare i creduloni. Ma l’eternità finanziaria (il rifinanziamento perpetuo) non esiste. L’impudenza non può durare all’infinito. I mattoni della piramide di Ponzi alla fine crollano come un castello di carte e il truffatore si ritrova a dover rimborsare 7 miliardi di dollari con in cassa solo 300 milioni. I prodigi celesti durano poco. “Ricordatevi del venerdì 14 marzo 2008: è il giorno in cui è morto il sogno di un capitalismo globale di libero mercato”, scriveva Martin Wolf in una nota economica sul Financial Times, il 25 marzo dello stesso anno, a proposito del salvataggio finito in catastrofe di Bear Stearns. Il ritorno sulla terra precipita il 15 settembre 2008, con il fallimento di Lehmann Brothers: scoppia la bolla finanziaria, crollano le Borse, si restringono i crediti. Il fragore del bidone infranto stronca bruscamente l’allucinazione. Richiamando all’ordine il virtuale, la realtà conferma l’avvertimento di Marx: l’andamento del capitale finanziario non è mai se non quello del capitale industriale nella sfera della circolazione. La crisi finanziaria, si dice, si propaga per contagio all’impropriamente detta “economia reale” (come se la sfera finanziaria fosse irreale!). Essa, in effetti, rivela una crisi latente di sovrapproduzione (troppo) a lungo differita grazie alla corsa al credito. Esplode alla luce del sole nei settori trainanti dell’edilizia e dell’automobile. Assillati dall’idea di restare con le proprie merci in mano, i venditori abbassano i prezzi, svendono, vendono in perdita. Ieri vilipeso, lo Stato viene chiamato alla riscossa come ultimo garante e ultima istanza. Crolla il mito liberista della pura regolamentazione attraverso il mercato e dell’espansione illimitata della sfera finanziaria. E crolla insieme l’utopia di una “impresa senza fabbriche”, un tempo decantata da Serge Tchuruk, consigliere di amministrazione dell’Alcatel. Questo visionario deluso sognava società che avrebbero subappaltato o esternalizzato tutte le attività produttive mantenendo soltanto quelle finanziarie. Nella “nuova economia” virtuale, il capitale si illudeva di riuscire a prosperare senza l’intervento del lavoro. La realtà si è vendicata. Il sogno di un capitale senza lavoro, “di un arricchimento senza causa”, e della mondializzazione beata, caro ad Alain Mine, alla fine si è infranto. Al momento di saldare il conto della bancarotta finanziaria, le responsabilità svaniscono dietro l’anonimato del social killer senza nome: quel “si” che non si può nominare, quella potenza tanto impersonale quanto temibile. “Il mondo è sull’orlo dell’abisso per colpa di un sistema irresponsabile”, annunciava Francois Fillon, il 3 ottobre 2008, ai parlamentari dell’Ump [l’Unione per un movimento popolare, il partito di Sarkozy, ndt.]. Come se non ci fossero volute, da un quarto di secolo, tanta energia e volontà da parte delle forze politiche, di destra come di sinistra, per dare briglia sciolta a un capitalismo finanziario che non è una forma travisata del capitalismo, ma la sua stessa essenza! “Tutti vogliono la concorrenza senza le conseguenze nefaste della concorrenza. Tutti vogliono l’impossibile, e cioè le condizioni di vita borghesi, senza le necessarie conseguenze di queste condizioni…”, scriveva già Marx in una lettera ad Annenkov.

Crisi di fiducia

Al di là della crisi di fiducia invocata dalla vulgata giornalistica, la credenza nell’onnipotenza del Mercato è colpita a morte. Il capitalismo? “È comprensibile che la gente non ci creda più!”, ammette Tony Blair in persona. E Francois Bairou, ieri zelante paladino della libera concorrenza e non di quella fittizia dei trattati europei, oggi si scopre la vocazione di giustiziere sociale: “Il capitalismo è immorale per natura, il suo scopo automatico è fare soldi, la sua legge è quella del profitto. Una volta capito questo, gli si possono imporre regole di trasparenza e stabilità. Ma il capitalismo non può essere un progetto di società. Un capo di Stato francese non può indicare il suo progetto con il nome di capitalismo. Il capitalismo è disugualitario per natura, mentre l’umanesimo è ugualitario per vocazione”. Aspettiamo con curiosità il programma di questo umanesimo ugualitario e le regole concrete di trasparenza e stabilità che costringano il capitalismo ad agire contro la propria “essenza”!

Quando si smette di credere nell’incredibile, alla crisi sociale si aggiunge inevitabilmente una crisi di legittimità, ideologica e morale, che finisce per lacerare l’ordinamento politico: “Uno stato politico in cui alcuni individui hanno redditi di milioni, mentre altri muoiono di fame, può reggersi se la religione non è lì, con le sue speranze al di fuori di questo mondo, per spiegare il sacrificio?”, chiedeva Chateaubriand alla vigilia delle rivoluzioni del 1848. Profeticamente rispondeva: “Provate a convincere il povero, quando saprà leggere non vi crederà più, provate a persuaderlo che deve sottomettersi a tutte le privazioni mentre il suo vicino possiede mille volte il superfluo. Come ultima risorsa, dovrete ucciderlo”. All’accecante luce della crisi, milioni di oppressi sono costretti a imparare a leggere. “Se si ascoltano i deputati di destra spiegare in maniera melliflua che lo scudo fiscale protegge i poveri, si penserà di stare nell’Ancien regime! Allora, è il ritorno della lotta di classe? Può darsi”, confida Ségolène Royal, senza precisare se se ne rallegri o se – più probabilmente – ne sia desolata.

La crisi attuale, la crisi del presente, non è una crisi in più, che si aggiungerebbe a quelle dei mercati asiatici o della bolla Internet. È una crisi storica – economica, sociale, ecologica – della legge del valore. La misura di tutto tramite il tempo di lavoro astratto è diventata, come Marx preannunciava nei Manoscritti del 1857, una misura “miserabile” dei rapporti sociali. Eppure Pavan Sukhdev, ex direttore della Deutsche Bank di Bombay – al quale la Commissione dell’Unione Europea ha affidato un rapporto che dovrebbe “fornire una bussola per i dirigenti di questo mondo”, “assegnando al più presto un valore economico ai servizi resi dalla natura” – sostiene: “Non si può gestire quello che non si può misurare”. In realtà, la crisi attuale è una crisi della misura e della dismisura. Misurare quantitativamente ogni ricchezza materiale, sociale, culturale con il solo calibro del tempo di lavoro necessario alla sua produzione, quantificare il non quantificabile e misurare l’incommensurabile, diventa sempre più problematico, per l’accresciuta socializzazione del lavoro e per il fatto che in questo lavoro socializzato si incorpora lavoro intellettuale in modo massiccio.

“Le due crisi, economica e planetaria, hanno un punto in comune”, osserva Nicholas Stern, autore nel 2006 di un rapporto sull’economia del cambiamento climatico. “Sono la conseguenza di un sistema che non valuta i pericoli ingenerati dal suo modo di funzionare, che non tiene conto del fatto che può comportare una distruzione superiore al vantaggio immediato che procura, e sottovaluta l’interdipendenza dei vari soggetti” (Le Monde, 15 dicembre 2008). La logica dell’accumulazione capitalistica e la rincorsa del profitto – del “vantaggio immediato” – è infatti miope. Il contrasto tra il tempo breve del mercato e quello lungo dell’ecologia finisce per diventare critico. Come far rientrare il tempo lungo nella misurazione monetaria? Come misurare economicamente la qualità dell’ambiente? Assegnare un “valore economico” (monetario) ai servizi della natura, come pretende la missione affidata a Sukhdev, si scontra col problema spinoso della commensurabilità, dell’esistenza di un denominatore comune alle risorse naturali, ai servizi alle persone, ai beni materiali, alla qualità dell’aria, dell’acqua potabile, ecc. Occorrerebbe per questo un metro di misura diverso dal tempo di lavoro socialmente necessario e uno strumento di misura diverso dal mercato, incapace di tenere conto di elementi qualitativi e di prevedere nella durata gli effetti remoti di decisioni a breve scadenza. Occorrerebbe una sorta di calcolatore sociale in grado di valutare la qualità e le contropartite a lungo termine dei guadagni immediati. Solo una democrazia sociale sarebbe in grado di conciliare gli strumenti con i bisogni, di prestare attenzione alla temporalità prolungata e lenta dei cicli naturali e di impostare i criteri di scelte sociali che ne comprendano la dimensione ecologica.

Una crisi senza soluzione alla crisi

La crisi, purtroppo, è forse solo un inizio. Ad essa, infatti, si aggiunge una crisi delle presunte soluzioni (keynesismo, nuovo New Deal) della crisi stessa. Le operazioni cosmetiche sui paracadute dorati, la ridefinizione delle regole bancarie, il controllo delle agenzie di rating non basteranno per uscire dal marasma. Le messe in scena sulla moralizzazione dei bonus e altri paracadute dorati (la cui soppressione avrebbe un importante portata simbolica, ma una limitata incidenza economica) sono dei diversivi. Servono a dare l’illusione di un intervento energico, mentre nessuna misura aggredisce seriamente alle radici il malessere della civiltà. Durante la crisi, mentre si allungano le file dei disoccupati e di chi non ha un riparo, continua la bisboccia dei padroni. Nella peggiore delle ipotesi, si chiede ai padroni di rinunciare (provvisoriamente) ai loro premi, ma gli azionisti sono sempre serviti abbondantemente. Sui 9 miliardi di euro di profitti realizzati dal trio BNP, Societé Generale, Créditt Agricol nel 2008, tra un terzo e la metà sono andati ai dividendi, mentre lo Stato concedeva a quelle stesse banche 10 miliardi di prestiti. L’indecente rapacità di Daniel Bouton e altri privilegiati che continuano a spassarsela senza ritegno non fa che illustrare co me questi servitori leali del capitale ventriloquo siano diventati gli ingranaggi immorali di un sistema mosso elusivamente dal “calcolo egoistico”.

In un discorso del 21 gennaio 2009, Nicholas Sarkozy ha (imprudentemente) lanciato l’idea di una suddivisione tripartita dei profitti: “Fatti 100 i profitti, dovrebbe esserci un 33% per i salari, un 33% per gli azionisti, e l’altro 33% perché le imprese investano”, soggiungendo: “o le parti sociali concludono qualcosa, o lo Stato si assumerà la propria responsabilità”. Chi (sopravvivrà (alla crisi) vedrà. Nel frattempo, all’indomani dell’uscita del presidente, la Total annunciava 14 miliardi di allettanti profitti, il 52% dei quali destinati agli azionisti (40 miliardi in tutto per gli azionisti del Cac 40) e il 2% ai lavoratori dipendenti (se non vengono semplicemente licenziati). Tra il 2003 e il 2007, su 30 miliardi di profitti, la BNP-Paribas ne ha distribuiti oltre il 50% (16,5 miliardi) agli azionisti. Quand’anche venisse applicata, la regola del terzo presidenziale sarebbe una mistificazione, in quanto legherebbe le sorti dei salariati alle prestazioni della sola loro impresa (rinnovando in altra forma la truffa del “partenariato” capitale/lavoro) ai danni dei lavoratori nel loro complesso. E questo non ha niente a che vedere con la perequazione sociale delle ricchezze, in cui i settori redditizi devono finanziare per solidarietà settori (quali l’istruzione o la sanità) che lo sarebbero di meno.

Quanto alla regolamentazione del mercato mondializzato, un altro Bretton Woods? Una gouvernance mondiale? L’Unione europea non è neppure stata capace di mettere in piedi un’Autorità dei mercati finanziari su scala continentale, né di emanare direttive efficaci in materia di prodotti derivati, né di mettersi d’accordo su una comune definizione dei paradisi fiscali! Il G 20 del 2 aprile 2009 a Londra si è limitato, senza stabilire sanzioni precise, a puntare il dito contro i paradisi fiscali (il cui elenco risparmia generosamente la City londinese, il Lussemburgo, il Delaware o Monaco) e a triplicare la dotazione di un FMI screditato dalle passate esazioni. Non si è pensato seriamente ad alcuna misura radicale per quanto riguarda l’annullamento del debito dei paesi del Sud o la riorganizzazione del sistema monetario mondiale. In compenso, la dichiarazione finale non ha omesso di precisare, all’artico 14, che “alcune regolamentazioni, e una rafforzata vigilanza, devono promuovere la proprietà, l’integrità, la trasparenza”; la proprietà in primo luogo, l’integrità dopo, possibilmente… Non ha dimenticato neanche di ricordare che “i regolatori e i supervisori” devono “incoraggiare la disciplina di mercato” (sic!) “e seguire i ritmi delle innovazioni di mercato”. Il mercato continua dunque a dettare la propria legge e la linea generale resta la concorrenza, libera e non fittizia, che ha portato alla crisi presente. In nome del rifiuto del protezionismo, l’articolo 22 ribatte il chiodo, “riconfermando l’impegno di astenerci dall’ergere nuove barriere all’investimento” (il defunto Accordo multilaterale sull’investimento rinascerà dalle sue ceneri?) e il rifiuto di qualsiasi misura “che ostacolasse i movimenti di capitali nel mondo”. I futuri Madoff, hedge fonds, a altri traghettatori di capitali in fuga possono quindi dormire sonni tranquilli. Si preannuncia arduo, dunque, il compito dei salvatori del Titanic capitalista. Un nuovo New Deal, come suggeriscono sia il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, sia l’ideologo liberista Nicolas Baverez? Un ritorno allo Stato sociale, come chiede Oskar Lafontaine? Il nuovo “protezionismo europeo” caro a Emmanuel Todd? Significa dimenticare un po’ troppo presto che la deregolamentazione liberista non è stata un capriccio dottrinario della Thatcher o di Reagan, di cui Clinton, Blair, Bérégovoy, Schroder avrebbero seguito per errore le orme. Era la risposta alla caduta dei saggi di profitto, erosi dalle conquiste sociali del dopoguerra. Dopo il 1973, “l’incapacità delle politiche keynesiane di rilanciare l’attività apre il campo a una sorprendente controrivoluzione conservatrice”, ricorda Robert Boyer. Tornare al punto di partenza, ammesso che lo si possa fare in un’economia mondializzata, significherebbe ritrovarsi con gli stessi problemi e le stesse contraddizioni. Come conciliare la regolamentazione del capitalismo con la dereregolamentazione del mercato del lavoro? “Regolamentare senza trasformare non è regolamentare”, ironizza ben a proposito il copresidente di Attac, Jean-Marie Harribey. That is the question.

Il New Deal non era stato, infatti, sufficiente a superare al crisi del 1929. Dopo la ripresa dal 1933 al 1936, l’economia ha conosciuto una ricaduta nel 1937-1938. La disoccupazione, al 25% nel 1933, è scesa al 14% nel 1936, per risalire al 19% nel 1938. Fatto 100 l’indice della media della produzione industriale sul periodo, il calo è stato da 110 nel 1929 a 58 nel 1932; l’indice è risalito (sotto la spinta dei grandi scioperi del 1934 a Minneapolis, San Francisco, Toledo) a 113 nel 1937, per poi ridiscendere a 88 l’anno successivo. L’economia americana, quindi, è ripartita realmente solo nel 1939, quando gli Stati Uniti hanno cominciato a produrre per gli Alleati; lo sforzo bellico ha allora rilanciato la domanda. Cosicché lo stesso Keynes doveva constatare: “Sembra politicamente impossibile per una democrazia capitalistica organizzare l’investimento a una scala sufficiente a smantellare praticamente la validità delle mie tesi – tranne in caso di guerra”.

Per ridistribuire le carte della ricchezza e della potenza, e per delineare l’ondata di espansione giornalisticamente battezzata “i trenta gloriosi”, c’è voluta nientedimeno che una guerra mondiale. E ancora, durante la guerra fredda, l’economia dell’armamento ha continuato a svolgere un ruolo rilevante nella crescita, rappresentando le spese militari all’epoca tra il 7% e il 10% del Pil, e tra il 4% e il 14% rispetto al periodo dal 1940 al 1990. L’instaurazione di una nuova forma di accumulazione e l’ipotetico delinearsi di una nuova onda lunga di sviluppo dipendono oggi dalla definizione su scala planetaria di nuove gerarchie di dominio, da una ridistribuzione di nazioni e continenti, da nuove condizioni di valorizzazione del capitale, dalla transizione del sistema energetico. Un simile rimescolamento di solito non si risolve in maniera garbata, tra cancellerie, sul tappeto verde, ma nelle lotte sociali e sul campo di battaglia. Non stupisce, quindi, che il vertice Nato del 6 aprile 2009 riunito a Strasburgo sia servito da epilogo rivelatore del vertice del G20 riunitosi a Londra quattro giorni dopo. Non potendo aggredire le ragioni della crisi, il braccio armato del capitale deve servire a reprimere le lotte che ne derivano e a far regnare il nuovo ordine imperiale.

La crisi, dunque, è quello che scriveva Marx; “l’instaurazione con la forza dell’unità tra due momenti [produzione e consumo] promossi all’autonomia, ma che “sono sostanzialmente una sola cosa”. La sua violenza è quella delle famiglie buttate sul lastrico per insolvenza, quella dei massicci licenziamenti, delle chiusure di fabbriche e delle delocalizzazioni, delle file che si allungano davanti ai “restos du coeur” [mense per i poveri], dei senza-casa che crepano di freddo, dei piccoli risparmi a danno della salute. È l’incriminazione delle resistenze sociali, l’ascesa dello Stato penale in proporzione inversa a quella dello Stato sociale, l’instaurazione di uno stato d’eccezione strisciante con la scusa dell’anti-terrorismo. Èia guerra pura e semplice per l’accesso alle fonti energetiche, per assicurarsi le rotte del gas o del petrolio, per una nuova spartizione dei territori e delle sfere di influenza. Dopo aver preteso che la crisi sia solo una purga amara ma indispensabile, un cattivo momento che passerà come i precedenti – quelli della bolla Internet o dei mercati asiatici – qualcuno comincia ad aver paura che se ne avrà per un decennio. I pronostici sono azzardati, tante sono le incognite, gli elementi combinati e mescolati tra loro, con la crisi ecologica e la transizione energetica che si aggiungono alla crisi economica. Non c’è quindi pericolo di sbagliarsi se si preannuncia, come il profeta Geremia, che “durerà a lungo”. Se si tratta di una crisi storica di civiltà, di una crisi sistemica che annuncia l’esaurirsi di un modo di accumulazione, le misure di rilancio congiunturale avranno un effetto limitato. Un raddrizzamento dei profitti non basterà a delineare una nuova onda lunga di ripresa. L’uscita dalla crisi che sfoci nell’emergere di un nuovo ordine produttivo e di un nuovo sistema di accumulazione non dipende dalla sola economia. Richiede nuovi rapporti di forza, nuovi rapporti geopolitici, nuovi dispositivi istituzionali e giuridici.

Se la crisi del 1929 è stata anche “quella dell’emersione americana”, secondo l’analisi di Isaac Johsua, quale altro emergere porta in seno la crisi attuale? L’emersione cinese? Un’organizzazione multipolare di spazi continentali? Una “gouvernance mondiale”? Mentre si invoca il bisogno di un nuovo ordine monetario mondiale e di risposte globali, Giscard d’Estaing riconosce che “la gestione economica della crisi in Europa è diventata, durante la crisi, più nazionale di quanto non lo fosse prima del suo esplodere. D’altra parte, è abbastanza logico, perché gli strumenti di intervento sono essenzialmente nazionali”. La constatazione manda all’aria da sola le furbizie governative secondo le quali non si può fare niente contro i licenziamenti o le chiusure di fabbriche perché tutto si decide a Bruxelles.

La crisi accentua le differenze tra i rapporti di forza sociali e le situazioni su scala nazionale, liberando tendenze centrifughe. I principali membri dell’Ue vorrebbero sì concertare tra loro, ma si muovono ciascuno secondo i loro specifici interessi, si tratti della Germania, dell’Inghilterra, della Francia o dell’Irlanda. Il vertice del G20 del novembre 2008 aveva additato il protezionismo come nemico, benché gli Stati Uniti lo pratichino normalmente senza dirlo, si tratti del lobbying in favore del Boeing contro Airbus, dell’imposizione di norme sanitarie o tecniche per limitare l’importazione di prodotti alimentari e non solo, o della guerra del Roquefort. Ma la questione è ormai posta. Nelle stesse correnti socialdemocratiche di sinistra cominciano a levarsi alcune voci che caldeggiano “un protezionismo europeo”.

In nome dell’“indispensabile corrispondenza degli spazi economici e sociali”, Emmanuel Todd se ne fa paladino. Lo scopo non sarebbe respingere le importazioni, come Carlo Martello ha respinto un tempo gli Arabi a Poitiers – e come Michel Jobertha cercato (nel 1982) di rispedire indietro i magnetoscopi giapponesi – ma di “creare le condizioni di una ripresa dei salari”, perche l’offerta possa ricreare in loco la propria domanda. Il protezionismo europeo “non porrebbe alcun problema tecnico”, sostiene, ma un semplicissimo problema politico: “far capire alla Germania che ha tutto l’interesse” alla sua introduzione. Trattandosi del paese di Fichte (autore de Lo Stato commerciale chiuso) e di List, sarebbe culturalmente predisposto a questo. L’ipotesi di una concatenazione virtuosa, secondo cui il rilancio dei redditi basterebbe a rilanciare la domanda interna, che rilancerebbe a sua volta la produzione, ha a che fare però con una legge degli sbocchi non meno illusoria di quella di Say e di Ricardo.

Non si tratta di un problema di principio o di dottrina. Proteggere? Ma proteggere che cosa, da chi, e come? Se l’Europa cominciasse con l’adottare criteri sociali di convergenza in materia di occupazione, di reddito, di protezione sociale, di diritto del lavoro, con l’armonizzare il fisco, potrebbe legittimamente adottare misure di protezione, non degli interessi egoistici dei suoi industriali e finanzieri, ma dei diritti e delle conquiste sociali. Lo potrebbe fare in maniera selettiva e mirata, con la contropartita di accordi di sviluppo solidale con i paesi del Sud in fatto di immigrazione, di cooperazione tecnologica, di commercio equo. Senza questo, un protezionismo da ricchi avrebbe come effetto principale quello di scaricare i guai della crisi sui paesi più poveri. Pensare, viceversa, che una misura di protezione doganale sarebbe sufficiente a comportare automaticamente il miglioramento e l’omogeneizzazione delle condizioni sociali europee, come se fosse tecnicamente neutrale in uno scontro di classe esacerbato dalla crisi, è solo una grossa ingenuità. I lavoratori, al contrario, subirebbero gli inconvenienti delle seccature burocratiche e frontaliere senza vantaggi sociali.

Se oggi, secondo Todd, la maggioranza degli operai e dei giovani lo caldeggiano, un protezionismo del genere o non tarderebbe a pencolare per l’“opzione nazionale” (od europea: “Produciamo europeo!”, che diventa “Lavoriamo europeo!”, esattamente come ieri il Fronte nazionale non ha dovuto che aggiungere allo slogan “Produciamo francese!” e “con lavoratori francesi!”); oppure non reggerebbe per molto, come ha dimostrato la disavventura dei magnetoscopi giapponesi, all’impopolarità presso l’opinione pubblica. Abbiamo già assistito, malgrado i pistolotti ufficiali contro il protezionismo, al crescere, attraverso le manifestazioni in Inghilterra e in Irlanda contro i lavoratori immigrati polacchi o altro, della tentazione al “Comprate americano!” o “Lavorate inglese”. Da questo protezionismo sciovinista al razzismo e alla xenofobia non c’è che un passo, superabile tanto più facilmente in quanto i lavoratori immigrati (12 milioni di “clandestini” negli Stati Uniti, 8 milioni circa nell’Unione Europea) sono destinati in tempi di crisi a fungere da “variabili d’aggiustamento”, o attraverso espulsioni massicce in applicazione della “preferenza nazionale” nell’assunzione, o facendo pressione sui salari grazie alla tolleranza di un vasto mercato nero del lavoro. […]

Rifondare il capitalismo o rovesciarlo

Il comunicato del G20 del novembre 2008 attribuisce la responsabilità della crisi alla ricerca di “rendimenti più elevati senza adeguata valutazione dei rischi”. Incrimina “i responsabili politici, i regolatori e i supervisori che non hanno valutato adeguatamente i rischi, né tenuto conto dei cambiamenti di sistema degli interventi di regolamentazione nazionali”. Equivale ad ammettere che “la libera concorrenza non fittizia” porta al caos. La pecora nera, colpevole di tutti i mali, sarebbe dunque il liberismo, forma deviata di un capitalismo benigno.

A sentirli, i governanti di ieri e di oggi, di destra e di sinistra, avrebbero tutti e sempre denunciato la follia del sistema dei mercati. Eppure la deregolamentazione non è stata opera della famigerata invisibile mano assassina, ma di decisioni politiche e di misure legislative. È sotto il ministro socialista delle Finanze Pierre Bérégovoy che si è concepita, dal 1985, la grande deregolamentazione dei mercati finanziari e borsistici in Francia. È un governo socialista che, nel 1989, ha liberalizzato i movimenti di capitali anticipando la decisione europea. È il governo Jospin che, privatizzando (per 31 miliardi) più dei governi Balladur e Juppé messi insieme, ha reso il capitalismo francese uno dei più ospitali per i fondi di investimento speculativi. È un ministro delle Finanze socialista, Dominique Strauss-Kahn, che ha proposto una forte detassazione delle famose stock-options ed è un altro ministro socialista delle Finanze, Laurent Fabius, che la ha realizzata. È un Consiglio europeo a maggioranza socialdemocratica che ha deciso nel 2002, a Barcellona, di liberalizzare il mercato energetico e l’insieme dei servizi pubblici, di protrarre di cinque anni l’età pensionabile e di sostenere i fondi pensione. È ancora la maggioranza del PS che ha approvato la santificazione della concorrenza contenuta nel progetto di Trattato costituzionale europeo del 2005. Ed è sempre questa che ha permesso con il suo voto l’adozione del Trattato di Lisbona, che conferma la logica liberista della costruzione europea.

“Stiamo attraversando una crisi senza precedenti, che impone di abbandonare gli schemi ideologici. Le vere discriminanti si delineeranno in seguito, quando si dovrà stabilire come uscire dalla crisi e sapere verso quale capitalismo bisogna tendere”, pontifica Nicolas Baverez. In attesa delle “vere discriminanti”, assisteremo a transfert e conversioni, mescolanze e alleanze, le une più inverosimili delle altre. Da Sarkozy ad Obama, dunque, è giunta l’ora di “reinventare” o di “rifondare” il capitalismo. L’ora della santa alleanza intorno a una missione evangelica: moralizzarlo. Infatti la sua “vitalità passa per la rifondazione morale” e “l’etica è la chiave dell’economia”, ribadisce anche Tony Blair, pur preoccupandosi di ricordare che “il profitto è una cosa essenziale” e che è urgente “ritrovare la fiducia nel credito”! Come se il capitalismo e il suo dio Credito, per il quale l’essere umano è sempre il mezzo e mai il fine, non fossero amorali o immorali per natura, cosa sulla quale ormai conviene lo stesso Bayrou. Gli affari sono affari! La morale non ha niente a che fare con questi. Se abbandoniamo la superfìcie rumorosa del mercato per scendere nei bassifondi infernali della produzione dove avviene la misteriosa estrazione di plusvalore, si va a sbattere – diceva Marx – contro un divieto categorico: “No admittance, except on business”. [Vietato l’inrgesso, tranne agli affari]. Si prega di lasciare la morale alla porta!

Eppure, Sarkozy martellava nel suo discorso di Tolone: “La crisi finanziaria non è la crisi del capitalismo. È la crisi di un sistema che si è discostato dai valori più essenziali del capitalismo, che in qualche modo ha tradito lo spirito del capitalismo. Voglio dire ai francesi: l’anticapitalismo non offre alcuna soluzione alla crisi attuale”. Il messaggio è chiaro: il nemico è l’anticapitalismo. Vi è ritornato sopra al convegno sulla rifondazione del capitalismo, organizzato su sua iniziativa, l’8 gennaio 2009, dalla Segreteria di Stato in questa prospettiva: “La crisi del capitalismo finanziario non è quella del capitalismo. Non chiama alla distruzione del capitalismo, che sarebbe una catastrofe, ma alla sua moralizzazione”. Per l’occasione, ha ricevuto il vigoroso rincalzo di Michel Rocard: “Bisogna partire da questo: vogliamo salvare il capitalismo”.

Tali dichiarazioni di guerra sociale segnano una linea frontale fra due campi. Discutere tra possidenti di rifondare, reinventare, moralizzare il capitalismo, oppure battersi con gli spossessati della terra per rovesciarlo: bisogna scegliere. Grazie alla coincidenza di date, Alain Mine ricorda ai suoi “amici della classe dirigente” che il 1789 è cominciato nel 1788. Laurence Parisot si dice “costernato” (sic) dalle mobilitazioni sindacali. E Nicolas Sarkozy si lamenta di “un paese regicida”, restio alla sua buona gouvernance riformista. È vero che il paese presenta andamenti da “fine regno”. Il ministro dell’Economia consiglia di prendere la bicicletta a chi non riesce più a pagarsi la benzina per andare al lavoro, come un tempo si raccomandava agli affamati di mangiare brioche in mancanza di pane. Durante la crisi, i privilegiati si aggrappano ai loro premi, indennità o pensioni mirabolanti, come un tempo gli aristocratici alle loro rendite. Un tempo, i banchieri falliti avevano ancora la dignità di defenestrarsi da soli; oggi preferiscono prendersi un paracadute, possibilmente dorato. Chiunque nutrisse ancora dubbi sulla realtà della lotta di classe dovrebbe solo ascoltare Laurence Parisot, Daniel Bouton, Bollore, Pinault, Arnaud, che difendono con le unghie e le zanne i loro profitti e le loro proprietà.

Sarkozy si era presentato come il presidente del potere d’acquisto, della piena occupazione, e come colui che avrebbe ricercato la crescita con le unghie e… la dentiera. Non ha smesso, dopo l’investitura, di proclamare alto e forte che è lui lo Stato. È naturale, quindi, che i malcontenti, le recriminazioni, le indignazioni ricadano su di lui. Gli ingannati di Gandrange [la cui siderurgia è stata delocalizzata in India], i raggirati di Clairvaux (che hanno accettato di lavorare di più guadagnando meno, senza con questo evitare di essere buttati sul lastrico), i ricercatori insultati, gli insegnanti disprezzati, le infermiere supersfruttate, chiedono i conti. Qui, si occupa e si sequestrano i padroni che delocalizzano e licenziano; là, li si obbliga a indossare le magliette degli scioperanti per manifestare al loro fianco. A quando il berretto d’asino per i banchieri e i pirati fiscali come all’epoca della rivoluzione culturale?

Di manifestazione in manifestazione, di 29 gennaio in 19 marzo, la collera gronda e sale sullo sfondo di scioperi generali e di sollevazioni civili in Guadalupe, Martinica, Reunion. Un Appello degli appelli raccoglie magistrati del Sindacato della Magistratura, giornalisti dell’Appello della Collina sulla riforma dell’audiovisivo e la situazione della stampa, ricercatori di “Salviamo la Ricerca”, universitari di “Salviamo l’Università”, statistici di “Salviamo la statistica pubblica”, medici ospedalieri per la difesa dell’ospedale pubblico, precari dello spettacolo e lavoratori della cultura. Dal complesso delle loro lagnanze, dei loro risentimenti, delle loro preoccupazioni, emerge la sensazione diffusa che, se le controriforme liberiste dei Pecresse, Bachelot, Dati, Hortefeuxe soci vanno avanti, ci ritroveremo di qui a qualche mese, o a qualche anno, in un Pese diverso, in un’altra società. Ad essere attaccati sono i principi di fondo – di uguaglianza e solidarietà. Quella che è minacciata è l’eredità secolare delle grandi lotte popolari, dalla Rivoluzione francese a Maggio ‘68, passando per le conquiste del Fronte popolare e della Resistenza.

Segnale allarmante per i dirigenti, le loro riforme liberiste riescono a dividere il loro stesso campo. Si vedono mandarini accademici disposti a morire (o quasi) sulle barricate, con in mano La princesse de Clèves. E il professor Bernard Debré, deputato UMP, si inalbera contro una riforma ospedaliera, gemella nella sua logica di gestione dell’altra impropriamente detta “di autonomia” delle università: “Alcuni pensano che i medici ottengano con questo un’autonomia e un potere. Mentono. Si vedranno i medici diretti da amministrativi e malati cronici in cerca di un dialogo perduto. Probabilmente si vorrebbero semplicemente eliminare gli ospedali pubblici per favorire l’affermarsi delle cliniche”.

A mano a mano che si sgretola la legittimità del potere, si rafforza lo Stato punitivo. Si moltiplicano repressione, brutalità, sbavature poliziesche. Nei percorsi di spostamento di ministri o presidenti le città visitate sono messe in stato d’assedio. La stampa internazionale si allarma per questo paese anacronistico in cui ancora si crede nell’esistenza della lotta di classe; in cui il 34% dei cittadini e il 49% dei simpatizzanti di sinistra possono immaginare il giovane postino Olivier Besancenot come capo di Stato; in cui istituti di sondaggi e dotti politologi si interrogano seriamente sulla possibilità che un “incidente” qualsiasi possa portarlo al secondo turno delle presidenziali! Si tratta di dubbi tanto più significativi in quanto in Francia il tasso di sindacalizzazione (che non rende conto della rappresentatività dei sindacati alle presidenziali) è al suo livello più basso (8% in genere e 5% nel settore privato), cosicché gli esperti in “relazioni umane” si lamentano della mancanza di interlocutori rappresentativi per negoziare le riforme.

Si è, dunque, innestata una gara di velocità. Più di un francese su due è ormai convinto che le future generazioni vivranno peggio di quelle passate e attuali. Le mense dei poveri quest’anno hanno il loro record di pasti serviti. Esplode la disoccupazione. La stragrande maggioranza degli studenti si considerano precari in formazione anziché “eredi” promessi a carriere remunerative. Tutti sanno che occorrerà rimborsare le cambiali spiccate sul futuro per salvare banchieri speculatori ed evasori con capitali rifugiati nei paradisi fiscali. La fase attuale oscilla tra la paura e la collera, la legittima paura della disoccupazione e delle conseguenze sociali di una crisi inedita, e la collera di fronte alle ingiustizie e alle disuguaglianze. Chi avrà la meglio, tra questa paura e questa collera? Dipende da chi vincerà la battaglia sul tempo. La gara di velocità è ormai aperta. “Se questa crisi non dura più di sei mesi, il corpo sociale non cederà, altrimenti…”, dice allarmato Daniel Cohen. Il governo temporeggia, ora arretra, ora tratta, cerca di disperdere le lotte, di evitare che si sincronizzino convergendo in uno sciopero generale, come nelle Antille. Gli stati maggiori sindacali temono una prova di forza, che ne metterebbe in pericolo gli apparti; si barcamenano per schivarlo, contenendo le mobilitazioni, di giornata di lotta in giornata di lotta. In questa guerra d’usura, il movimento della Guadalupe contro la Pwofitasyon [lo sfruttamento a oltranza, in creolo] ha dimostrato come la tenacia, la pazienza, l’ostinazione, l’unità nell’azione e l’intransigenza sulle rivendicazioni, riescano a pagare. Siamo solo agli inizi di un sisma da cui uscirà un paesaggio politico sconvolto. Convertita al culto della “concorrenza libera e non fittizia”, la sinistra di governo è vittima collaterale della crisi sistemica. Ségolène Royale lo dice chiaramente: “Le identità politiche non sono più stabilite una volta per tutte. Si ricostruiscono ad ogni elezione, in funzione dei contesti sociali e mediatici, delle poste in gioco, dei candidati”. Ecco arrivato il tempo dei programmi flessibili, delle alleanze variabili. “L’identità della sinistra non è più automatica”? Il minimo che si possa dire. Interrogato dieci anni fa sull’opportunità di una tassa contro la speculazione, Tony Blair aveva risposto: “Direi che è la cosa peggiore da fare, perché occorre che la gente possa far circolare in fretta, molto in fretta, il suo denaro”. Tanto in fretta da far girare la testa a più d’uno, incluso i dirigenti socialisti. La lunga muta del PS francese si è conclusa con l’adozione, nel giugno 2008, di una nuova Dichiarazione di principi, congedandosi inopportunamente dalla lotta di classe per celebrare meglio, senza complessi, le virtù del libero mercato. Bertrand Delanoe ha pagato piuttosto cara questa tardiva “audacia” (o temerarietà)! A differenza della crisi del debito nel 1982, di quella dei mercati asiatici del 1998 o della crisi russa del 1999, di quella della bolla Internet nel 2000, l’attuale crisi è globale. Parte dal cuore del sistema, l’economia degli Stati Uniti. Riflette e amplifica un cambiamento dei rapporti di forza politici su scala planetaria. Si combina in maniera inedita con una drammatica crisi ecologica e con l’esaurimento di un sistema energetico. Coincide con un mutamento del movimento sociale. Si parte da una crisi di fiducia. Come i capricciosi corsi della Borsa, anche la fiducia è fluttuante. Diversa la crisi della fede, che è durevole. La fede nell’onnipotenza degli dei del mercato sta morendo. Lasciare ai capitalisti la cura di riorganizzare la produzione e di dominare i rapporti sociali significherebbe ripetere il giro, fino alla prossima crisi, a prezzo di nuovi disastri ecologici e sociali. Nessuno è in grado di predire a che cosa somiglieranno le future rivoluzioni. Perlomeno, un filo conduttore esiste. A scontrarsi sono due logiche di classe: quella del profitto a ogni costo, del calcolo egoistico, della proprietà privata, della disuguaglianza, della concorrenza di tutti contro tutti, e quella del servizio pubblico, dei beni comuni dell’umanità, della proprietà collettiva, dell’uguaglianza e della solidarietà. Tra le due, la linea di demarcazione è quella che delimita due sinistre: una sinistra della limitazione del danno, che si accontenta di emendare il capitalismo, e una sinistra anticapitalista, che vuole rovesciarlo per cambiare il mondo.

Erre n° 37, 2010
Traduzione dal francese di Titti Pierini

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