I. Gli indici di una svolta
Anche agli occhi di un osservatore disattento il 1° congresso di Lotta Continua, che si è riunito a Roma in gennaio, dimostrava che era in corso un’ evoluzione, in due sensi.
Un movimento che all’inizio si raccoglieva intorno al giornale, diventa un’organizzazione dai contorni più chiaramente delimitati.
Una corrente ultra-sinistra, nata da un’ondata di radicalizzazione, tende a diventare un piccolo partito che prende coscienza delle proprie responsabilità, comincia a sviluppare una tattica complessiva di fronte alle organizzazioni riformiste maggioritarie nel movimento operaio.
Per illustrare questa traiettoria considereremo due esempi per noi significativi: la questione della violenza e quella del lavoro antimilitarista.
1. Sulla questione della violenza
Lo svolgimento del congresso aveva già del sorprendente. Su sei giorni di dibattito, i primi quattro erano dedicati alla discussione e al voto di una serie di tesi giustapposte e apparentemente disparate (il materialismo, l’antimperialismo, l’internazionale, i ceti medi, l’esercito, lo Stato, la tattica, la questione del partito e lo statuto).
Gli ultimi due giorni erano poi riservati alla discussione della relazione sulla sìtuazione delle lotte e il contesto politico e alle elezioni degli organismi dirigenti.
Le tesi miravano in effetti a fare chiarezza su un certo numero di punti controversi, dopo una lenta maturazione di sei anni, conclusa in questo congresso. E’ in questa cornice che bisogna inserire il carattere sintomatico della discussione sulla violenza. Tanto più che alcuni militanti, fra i quali molti delegati di Milano, sambravano difendere a questo proposito le posizioni passate dell’organizzazione, contro la sua attuale svolta.
“La storia di questi dieci anni ha mostrato come la rivendicazione del diritto alla violenza rivoluzionaria, che ha avuto e conserva un valore soggettivo, non possa essere assunto come discriminante strategica e sia del tutto insufficiente a fondare una reale autonomia di linea politica. Le forti oscillazioni teoriche, gli sbandamenti, gli errori di volontarismo e di soggettivismo che hanno contrassegnato la storia del movimenti rivoluzionari sorti negli anni sessanta, sono il riflesso di questa mancanza di autonomia, che in generale si è manifestata attraverso la forte sottovalutazione del ruolo delle masse, sia nella sfera ‘politica’ che in quella ‘militare’1”.
Il problema nelle sue linee generali, è correttamente impostato: il feticismo delle forme di lotta, in particolare della violenza, è la risposta delle avanguardie nascenti e l’espressione della loro impazienza in una situazione in cui l’azione delle masse resta limitata. Il pericolo del sostituzionismo che ne viene fuori è illustrato ampiamente dall’esempio della RAF in Germania che ha portato all’estremo questo sostituzionismo nel paese europeo dove il risveglio e la mobilitazione delle masse si dimostrano più limitate.
[…] “La teoria della ‘esemplarità’ dell’azione armata, la teoria del partito come ‘miccia’ o ‘detonatore’, il feticismo del fucile […] sono i tratti con i quali la deviazione militarista si ripresenta ai margini del movimento come fenomeno di retroguardia. La ignoranza o il disprezzo delle contraddizioni interne del nemico di classe : la sopravvalutazione della capacità di controllo e di repressione del revisionismo, vanno di pari passo con la sottovalutazione reale, ad onta di ogni verbalismo, della forza e dell’autonomia delle masse”.2[…]
Anche noi abbiamo effettuato poco alla volta questo tipo di correzione. L’esperienza ed il rapido fallimento della Gauche Proletarienne in Francia, hanno largamente contributo a chiarire il dibattito. Esso resta d’attualità in Italia, per l’esistenza delle Brigate Rosse e dei NAP. Se noi condividiamo la valutazione generale dei compagni di LC sull’origine delle deviazioni militariste (lo sfasamento fra l’avanguardia nascente e la massa dei lavoratori ancora sottomessa ai riformisti) pensiamo però che bisognerebbe risalire alla loro origine più profonda, in particolare dal punto di vista dei rapporti di forza internazionali.
Perché il volontarismo ultra-sinistro delle nuove avanguardie europee fu profondamente influenzato, alle origini, dalla figura del Che, simbolo stesso del volontarismo. Ora, il volontarismo del Che, la sua teorizzazione dell’empirismo necessario (“molti morranno, vittime dei loro errori…”) non possono essere oggi respinti come la manifestazione di una semplice fase infantile del movimento rivoluzionario. Essi vanno anche inseriti in quello che egli chiamava ‘‘questo momento illogico della storia dell’umanità” in cui la rivoluzione vietnamita appariva isolata, così tragicamente sola o poco sostenuta dal cosiddetto “campo socialista”. Lo sviluppo ineguale della lotta di classe su scala mondiale ha fatto dell’azione esemplare del Che e della sua ultima forma suicida, la guerriglia boliviana, un risposta forse necessaria alla rinuncia dei riformisti. E’ questo che spiega il potere d’attrazione di risposte, politicamente e strategicamente erronee, certo, ma inscritte in questo momento illogico come tentativo di spezzare il cerchio.
Allora, volontaria o disperata, la scelta guerrigliera di quegli anni? Il problema non è così semplice. Debray, parlando di “leninismo stretto” un po’ alla leggera, constata oggi che l’assalto delle avanguardie era anticipato rispetto alle mobilitazioni di massa, in pieno periodo di ricomposizione di fronte all’offensiva imperialista. Pur tuttavia la dialettica della rivoluzione mondiale impone dei compiti oggettivi che non possono essere differiti (difesa della rivoluzione cubana, sostegno alla rivoluzione vietnamita). E’ il tradimento della burocrazia sovietica e cinese che scava la voragine sotto i piedi dell’avanguardia nascente. Si intravede una certa disperazione nell’ultima lettera alla Tricontinentale, nella quale il Che denunzia come colpevoli quelli “che perseguono una guerra di insulto e di bastoni fra le gambe”, invece di unirsi nel sostegno dell’eroico Vietnam. La solitudine dello stesso Che nelle montagne boliviane è un preciso riflesso della solitudine vietnamita. L’appello a creare due, tre Vietnam può sembrare smisurato col metro della ragione politica.
Ma non occorreva forse tutta la forza di questo sacrificio cosciente perché quell’appello fosse inteso, fin giù nel profondo della gioventù di Ceylon? La lotta e la morte del Che sono un terribile atto di accusa contro tutti quelli “che hanno esitato a fare del Vietnam una parte inviolabile del territorio socialista”.
Oggi, se la crescita del proletariato ha modificato i rapporti di forza, purtuttavia rimangono ancora in piedi alcune caratteristiche della situazione mondiale. Le tesi di LC sulla questione della violenza trovano forse proprio in questo uno dei loro punti deboli. Vi si dice che “il partito rivoluzionario non organizza in forma diretta la classe, bensì il reparto avanzato della classe; allo stesso modo, non organizza in forma diretta l’esercito proletario, bensì il quadro dirigente dell’esercito proletario”.3 Se la precisazione ci sembra necessaria per fare tabula rasa di molte confusioni, la sua applicazione resta troppo limitata. In effetti una parte delle tesi dedicata al bilancio della esperienza latino-americana fa la critica della guerriglia “come elemento esterno di precipitazione del conflitto sociale, come catalizzatore…”4 Ma quella stessa parte saluta senza alcuna critica la esperienza del MIR e soprattutto quella del PRT-ERP argentino come una rettifica positiva. Ora, sarebbe erroneo non vedere nell’esercito popolare direttamente organizzato dal partito che il risultato di una confusione nella concezione del partito e dei suoi rapporti con le masse. C’è dietro invece tutta una visione strategica coerente, quella della guerra rivoluzionaria prolungata che mescola emancipazione nazionale e rivoluzione sociale, che fa delle zone liberate la base del dualismo di potere, e dell’esercito popolare la sua espressione politica. Partiamo da una constatazione: numerosi gruppi castristi si sono definiti movimenti di liberazione nazionale (MLN, ELN). In La Critique des armes Debray sottolinea che questa realtà organizzativa riflette la situazione ambigua dei paesi latino-americani, caratterizzati approssimativamente come neo-coloniali e classificati dalla Tricontinentale alla pari dei paesi africani, asiatici sottomessi a una dipendenza coloniale diretta. Ora i paesi latino-americani sono politicamente indipendenti anche se sono economicamente dipendenti e lo stretto legame fra la debole borghesia nazionale e l’imperialismo fanno dell’intervento militare diretto di ques’ultimo una minaccia sempre presente.
E’ questa situazione particolare che alimenta le confusioni strategiche che il movimento castrista porta avanti. Anche se non lo chiarisce, Debray descrive bene la difficoltà: “la guerra rivoluzionaria in America Latina è a cavallo di due classicismi storici: mischiando alcuni tratti della guerra civile rivoluzionaria a quelli della guerra popolare di liberazione, essa deve combinare il breve e il lungo termine, l’insurrezione popolare nei grandi centri industriali (sciopero generale rivoluzionario) e la formazione di un esercito popolare o contadino nelle campagne, il lavoro in seno all’esercito ufficiale (come in Russia) e la costruzione di un’altro esercito di tipo nuovo come in Cina”. Elegante maniera di coniugare i classicismi. Certo, la debolezza delle oligarchie nazionali al potere è tale, e i loro legami economico-militari con l’imperialismo così stretti, che esse si sentono e le sentiamo direttamente attaccate al loro protettore yankee, o al sub-imperialismo brasiliano. Ma questa situazione particolare spinge i rivoluzionari a sovrapporre le scadenze, a confondere i compiti, a prendere come punto di partenza quello che non è che una probabilità futura. In breve, ad agire in anticipo. Anche questo Debray lo coglie abbastanza lucidamente. “Invece di andare dal momento attuale verso il suo possibile sviluppo, si deduce la tattica da seguire nel momento attuale, dalla analisi di condizioni strategiche eventuali… Dando per certo l’intervento straniero, si dà per acquisito quello che ancora si deve dimostrare: che la guerra popolare è possibile”. Si rischia inoltre di eludere compiti più immediati e di compromettere nello stesso tempo le scadenze future. Peggio, quando si afferma con il Che che in America Latina “la rivoluzione sarà socialista e non sarà”. Si fa poi marcia indietro teorizzando alleanze equivoche che gettano le basi di una fase nazionalista popolare, antimperialista democratica, come dimostra il sostegno dato dai Tupamaros al Frente Amplio di collaborazione di classe e la politica del PRT che, pur senza capitolare davanti al populismo peronista, fa del PC, rappresentante a suo giudizio della piccola borghesia, il suo “alleato strategico”. In Cile sembra che lo stesso MIR abbia esitato fra diverse prospettive strategiche (guerriglia, guerra prolungata a cui un colpo di Stato avrebbe dato il via, sciopero insurrezionale). Quello che sembra aver prevalso in pratica è l’ipotesi di un putsch militare limitato che avrebbe innescato un processo di guerra prolungato. Ciò spiegherebbe come mai né le sue parole d’ordine centrali, né la sua pratica avessero preparato realmente, dopo la crisi dell’ottobre 1972, una controffensiva rivoluzioneria centrata sul problema del potere. Così, quando l’entrata dei militari nel governo di Unidad Popular rese evidente agli occhi delle masse la capitolazione riformista di fronte alle manovre della borghesia, lo svilluppo dei cordones industriali e dei commandos comunali non è stato presentato come embrione di una struttura di dualismo di poteri ma come una struttura parallela e complementare al governo; così ancora lo sviluppo della autodifesa e dell’organizzazione di milizie di massa a partire dai cordones e dai commandos non sembra essere stato presentato come prospettiva centrale. E così, dopo il colpo di Stato abortito in giugno’73, quando lo stesso Enriquez giudicava il momento estremamente favorevole ad una controffensiva rivoluzionaria generalizzata, le condizioni non erano state preparate. Lungi dal trarne le debite conseguenze Debray si contenta di una apologia della politica dell’UP conforme alla sua nuova collocazione politica. In effetti di fronte all’arsenale militare della borghesia i rivoluzionari latino-americani hanno troppo spesso sottovalutato le capacità di lotta e di mobilitazione del proletariato. Considerando giustamente probabile la guerra civile o di liberazione essi la credono già dichiarata quando essa non è stata dichiarata che dall’avanguardia. Sono le masse che dichiarano la guerra al capitale: il problema è tutto nel come fare affinché esse, attraverso le loro esperienze e le loro mobilitazioni, giungano a quel punto di coscienza di classe e di determinazione. Una conquista insurrezionale del potere in Cile non avrebbe certamente evitato una guerra civile, ma l’avrebbe iniziata a partire da rapporti di forza incomparabilmente più favorevoli; non bisogna mai dimenticare che la guerra di resistenza del Vietnam s’appoggia sull’insurrazione vittoriosa del’45, che fonda la legittimità del nuovo potere. E’ quello che racconta Giap in Guerra di popolo, esercito di popolo: “dopo il 1939 il nostro partito si è impegnato a preparare il popolo all’insurrezione, al sollevamento. L’insurrezione trionfa nell’agosto 1945; ben presto, per nove anni di seguito, il partito dirigerà la lunga guerra di resistenza del popolo fino alla vittoria”.
Al contrario, confondendo guerra futura e guerra presente, capovolgendo il prima e il dopo, mescolando il futuro col presente, la tattica con la strategia, si svuota un concetto chiave del leninismo: quello di crisi rivoluzionaria. E’ una questione che ritroveremo più avanti a proposito della strategia in Europa. Se non si apre il dibattito su questi problemi di fondo, si rischia di far rimanere la polemica sulla violenza e sul militarismo a livelli superficiali prendendo a bersaglio solo le forme più caricaturali.
E le ricadute restano possibili. Questo è il primo limite che noi vediamo nelle tesi di Lotta continua.
Il secondo è la genericità che esse mantengono sui compiti concreti, una volta operate le necessarie rettifiche. In effetti il rapporto di Adriano Sofri ritorna con insistenza sulle stesse questioni, legandole con le analisi sulla situazione politica:
“Noi diciamo che il colpo di Stato può essere battuto, e non che è impossibile. La differenza è decisiva. E’ un invito a mettere questo problema all’ordine del giorno per affrontarlo politicamente, come deve essere con le masse, nel lavoro delle masse. Le parole d’ordine generali sul MSI fuori legge, sull‘organizzazione democratica dei soldati ecc. e la loro articolazione pratica sono gli strumenti per armare politicamente le masse su questo terreno. L’esperienza dei primi giorni di novembre, ricca di lezioni, ha fatto emergere la differenza fra un modo di affrontare la possibilità di un colpo di Stato (proclamandone demagogicamente l’impossibilita), dando la vittoria per certa e non preoccupandosi della salvaguardia e della sopravvivenza della organizzazione, e un modo di affrontarlo all’offensiva, facendo appello all’azione delle masse e alla loro coscienza”.
Anche qui condividiamo la problematica generale: la lotta di classe è una lotta nel vero senso della parola, vale a dire che lo sbocco non è assicurato in partenza e che non c’è nessuna garanzia di vittoria. Se ci deve essere sconfitta è meglio una sconfitta dopo aver dato battaglia, una sconfitta che arricchisca l’esperienza storica del proletariato, piuttosto che una sconfitta senza lotta che demoralizza. Meglio la Comune di Parigi che l’Indonesià, meglio la Spagna che il Sudan. Questo ha delle conseguenze pratiche nella costruzione del partito e nella preparazione delle masse. Ancora una volta l’America Latina ci ha offerto l’esempio di gruppi che giudicando inevitabile la disfatta, hanno cominciato a preparare l’indomani al di fuori dallo stesso movimento di massa; la guerriglia boliviana di Teoponte, ne è l’esempio estremo.
Ma quello che non esce chiaramente dalle tesi di LC sono i mezzi concreti per preparare l’offensiva delle masse. Sofri cita due esempi: la parola di ordine del MSI fuori legge e quella della organizzazione democratica dei soldati. E’ insufficiente e troppo impreciso. L’MSI fuori legge sembra riprendere una vecchia parola d’ordine del PCI, in se stessa né giusta né sbagliata. Ma se non si vogliono nutrire illusioni legaliste quanto alla sua realizzabilità da parte dello Stato, bisogna definire anche le modalità concrete delle messa fuori legge da parte delle masse: comitati di vigilanza nei quartieri, picchetti mobili di autodifesa nelle fabbriche, coordinamento di tali picchetti; bisogna dare battaglia nei sindacati perché ci si faccia carico unitariamente di tali iniziative; ed in certe condizioni, bisogna che l’avanguardia si dimostri pronta a assumere essa stessa simili iniziative di autodifesa se i riformisti si rifiutano di farlo (è quello che ha fatto la Ligue Communiste in Francia il 21 giugno 1973). In generale l’asse dell’autodiiesa operaia non è mai messo in rilievo nelle tesi di LC come asse di risposta al militarismo e all’avanguardismo. Orbene, si tratta, dato il livello di tensione raggiunto in Italia, di una questione cruciale. Non solo perché l’autodifesa risponde ad una necessità oggettiva, ma perché dà coerenza ad una strategia alternativa a quella della guerra prolungata. Essa dà corpo ad una strategia di conquista insurrezionale del potere che si appoggi direttamente sugli organismi proletari di doppio potere (comitati di fabbrica, consigli, ecc.). Essa traccia la via di una politica di alleanze sotto la direzione del proletariato, attraverso i comitati di quartiere, i comitati di sostegno, ecc. Che l’insurrezione non sia che il punto di partenza di una guerra civile è possibile, ma è un’altra cosa se la si comincia, lo ripetiamo, con rapporti di forza incomparabilmente più favorevoli. E’ anche in questa prospettiva che lo sviluppo di comitati di massa di soldati e di nuclei clandestini, cospirativi, nell’esercito acquista tutta la sua importanza.
Se non si precisano attentamente questi compiti, se non li si illustra con esempi, si rischia di passare direttamente da posizioni militariste a posizioni militarmente (se non politicamente) spontaneiste che, rinunciando al ruolo proprio dell’avanguardia in questa situazione, finiscono per far ricadere sui soli riformisti le responsabilità a questo riguardo. Non è, nelle tesi del congresso, il solo sintomo di un raddrizzamento che, a nostro parere, è andato troppo oltre. Ci ritorneremo sopra.
2. Sulla questione delle forze armate
Su questo punto le tesi operano una correzione paragonabile a quella che anche noi abbiamo operato. Esse difendono, contro le posizioni ultrasinistre italiane, la necessità di indebolire l’esercito attraverso una organizzazione democratica dei soldati che entri in contraddizione diretta con le strutture gerarchiche e con la disciplina militare.
“La lotta per la libertà di organizzazione democratica dei soldati, legata alle giuste rivendicazioni materiali, è il banco di prova di una corretta linea di massa nelle forze armate”.5
Noi siamo d’accordo ed è quello che abbiamo fatto con l’appello dei 100, con i comitati di soldati, le manifestazioni in uniforme a Draguignan, a Karalsruhe, che hanno portato la lotta antimilitarista a livelli mai raggiunti dopo il 1945, avanzando inoltre la prospettiva di un sindacato di soldati del quale si faccia carico l’insieme del movimento operaio. Le tesi di LC precisano ancora: “Ridurre l’organizzazione rivoluzionaria nelle forze armate in una dimensione cospirativa sarebbe un gravissimo errore…”6Siamo pienamente d’accordo, e lo siamo anche quando i compagni spiegano che deve essere la classe operaia a legarsi con le lotte dei soldati, proletari in divisa; che spetta ai militanti operai avvicinarsi alle caserme, con volantini, giornali, discorsi. Noi condividiamo questa impostazione. Ci sembra solamente che la sua applicazione sistematica rischia di soffrire delle ambiguità più generali dell’orientamento di LC riguardo al movimento operaio nel suo insieme, e all’intervento nel sindacato in particolare.
Quello che ci interessa per il momento, a partire dai due argomenti considerati, è di mettere in rilievo la traiettoria complessiva di LC e dei suoi sforzi per definire una linea di massa. Anche se il quadro strategico resta, secondo noi, poco definito e ne vengono fuori ambiguità che assumono tutta la loro importanza a proposito della politica internazionale, della questione elettorale, della forma di governo.
II. Il quadro stratégico internazionale
Due tesi, sull’imperialismo e sull’internazionale chiariscono il quadro strategico internazionale di LC. Non si tratta di un semplice quadro decorativo accessorio ma di un orizzonte strategico che orienta la politica concreta.
1. Sull‘Internazionale
Questa tesi parte da una caratterizzazione generale del ruolo storico delle tre principali Internazionali.
La Prima è “lo strumento dell’affermazione teorica”7 dell’emergere in seno alle lotte operaie di una tendenza comunista internazionalista. Il suo ruolo si limita alla affermazione della strategia, “indipendentemente dalla necessità della tattica”. La Seconda Internazionale “nacque sotto il segno di una concezione che sostituiva alla teoria della classe operaia la teoria delle forze produttive e degli stadi, e che da essa derivava i compiti del proletariato. Nella teoria delle forze produttive era la premessa della separazione tra ‘lotta politica’ e ‘lotta economica’, tra partito e sindacato, tra ‘programma massimo’ e ‘programma minimo’, tra ‘compiti di ogni giorno’ e ‘scopo finale’.8 Inoltre la seconda Internazionale appariva come l’espressione d’un “ridotto settore”9 del proletariato escludendo la massa “dequalificata e non organizzata”.10Infine, la Terza Internazionale appariva come lo strumento dell’insurrezione imminente, in un’Europa strategicamente unificata dalla prima guerra mondiale. Le masse rischiano di lanciarsi prematuramente all’assalto, senza direzione e senza programma, come hanno dimostrato gli avvenimenti del gennaio 1919 a Berlino.
“All’interno di questa ipotesi l’Internazionale comunista nacque come partito mondiale dell’insurrezione, come tattica della guerra civile, attraverso una rottura violenta con la Socialdemocrazia, ma raccogliendone allo stesso tempo la matrice teorica”.11Questo taglio sfocia in due conclusioni. La prima è che le condizioni di una nuova Internazionale non si sono ancora verificate. La seconda è che solo la Cina popolare rompe la continuità teorica, economicista, fondata sulla teoria delle forze produttive, che lega la Terza alla Seconda Internazionale. Consideriamo dapprima questa seconda conclusione. Essa non è propria di LC, e in fondo è un modo per evitare il nocciolo del problema. Nella sua Risposta a John Lewis, Althusser parla di “rivincita postuma” della Seconda internazionale a proposito della deviazione economicista che si sarebbe impadronita della Terza Internazionale. In « Fascismo e dittatura » Nicolas Poulantzas fa a sua volta di questa deviazione la matrice della degenerazione in URSS. Secondo lui è la “linea generale seguita dal Comintern”, economicista, che costituisce la breccia attraverso la quale passa “la ricostituzione di una borghesia sovietica”. A questo proposito da parte nostra gli è stato già risposto.12In effetti questa argomentazione permette ad LC, come a Poulantzas e a Althusser, di eludere l’analisi concreta dello stalinismo ridotto allo stato di sottoprodotto di una “deviazione teorica”. E di meglio giustificare la direzione cinese. Prendiamo nota della puzza di idealismo di questa impostazione. I compagni spiegano che il Comintern eredita i limiti strategici che avevano permesso la convivenza nella Seconda Internazionale di riformisti e rivoluzionari. Essi sottolineano la separazione fra lotta politica e lotta economica,
“lo smarrimento della tattica tra questi due poli e la oscillazione sempre più drammatica delle direttive tattiche imposte dal centro del Comintern alle sezioni nazionali, che furono i primi sintomi di una involuzione che condusse ad assumere la ‘difesa dell’URSS’ come discriminante strategica nei confronti della socialdemocrazia, e alla lenta conversione dell’Internazionale Comunista in strumento della politica estera dell’URSS di Stalin”.13
Notiamo subito che parlare di “lenta conversione” permette di trascurare le sequenze, le fratture storiche che sono quelle di una controrivoluzione burocratica nella quale sono implicate forze sociali classi e ceti.
Dov’è il salto in questa lenta conversione che fa passare la politica staliniana dalla parte della controrivoluzione? La questione non è secondaria, a meno che non si vogliano sfumare le responsabilità politiche, i contrasti di linea, le alternative espresse all’origine del processo, tanto più importanti ai nostri occhi in quanto sono la prova reale, e non posticcia, che lo stalinismo non era assolutamente inevitabile.
Non possiamo che ripetere a questo proposito le critiche già fatte ad Althusser14. Far risalire l’analisi dello stalinismo a una deviazione teorica comune alla Seconda e alla Terza Internazionale tende a dare l’impressione di andare al fondo delle cose, la critica teorica essendo supposta dagli intellettuali sempre più radicale della critica storico-politica. “Deviazione” rispetto a che cosa? A quale norma? Soltanto deviazione questa caricatura del socialismo, questo orientamento conservatore e reazionario del movimento operaio che ha al suo attivo il massacro del PC cinese ‘26, l’abbandono della Spagna e la liquidazione del POUM i processi di Mosca, il tradimento della rivoluzione greca, lo schiacciamento di Budapest, l’intervento dei carri armati a Praga? Dopo aver socchiuso qualche porta ed essere arretrati davanti agli spazi vertiginosi che esse scoprono, resta questo delle chiacchiere di Althusser: che lo stalinismo è una deviazione fondamentalmente teorica. Ecco ciò che chiarisce utilmente quaranta anni di storia del movimento operaio!15. Se abbiamo ripreso questi testi è per dimostrare le linee sotterranee nel dibattito teorico, linee che non possono restare senza conseguenze politiche.
Così la semplificazione teoricista dell’ analisi dello stalinismo conduce, per LC come per Althusser, a una valorizzazione della direzione cinese:
“In Cina l’autonomia della direzione del processo rivoluzionario si è fondata, in modo via più chiaro, sul recupero di una autonomia strategica rispetto agli schemi della tradizione terzinternazionalista, a partire dal rifiuto della teoria delle forze produttive e dalla affermazione della supremazia della politica sull’economia, che ha consentito di approfondire, anche dopo la presa del potere, il legame del partito con le masse e il carattere decisivo dell’intervento delle masse nelle contraddizioni in seno alla direzione del partito e dello Stato. Con questo carattere della rivoluzione cinese non può essere senza rapporto il rifiuto del partito comunista cinese di costituirsi in centro di organizzazione di una nuova Internazionele; rifiuto che ben lungi dal rappresentare il sintomo di una deviazione nazionalista, non tende a ostacolare bensì a favorire lo sviluppo della rivoluzione nel mondo”.16
Anche per Althusser la “sola critica storica, di sinistra, alla deviazione staliniana, è la critica silenziosa ma in atto della rivoluzione cinese: una critica da lontano, una critica dietro le quinte”. Althusser non ama i corpo a corpo. Per salvare gli ultimi resti dello stalinismo, arriva all’apologia della politica mascherata. E’ lontano per lui il tempo in cui solo la verità era rivoluzionaria… Ma ritorniamo al ruolo che può svolgere, per i compagni di LC, il riferimento alla Cina. Che la direzione cinese abbia dovuto, per prendere il potere, rompere gli schemi della internazionale stalinista, ed in particolare quello della rivoluzione a tappe, per noi non è una novità, e siamo coscienti che questa trasgressione è già percepibile negli scritti di Mao del’37-39 sulla nuova democrazia. Inoltre, sappiamo che non si trattava solo di liberarsi da limiti teorici, ma da insidie ed ostacoli materiali, diplomatici, politici, moltiplicati da Stalin fra il ‘45 e il ‘49 ai danni del PC cinese.
Ci rendiamo conto anche che i tentativi delle comuni popolari e del grande balzo, costituiscono una ricerca a tentoni di una altra via per l’edificazione del socialismo dopo il traumatico XX° congresso del PCUS, e le rivolte ungherese e polacca; tentativi da mettere in relazione con l’autocritica sulla collettivizzazione agraria nel Nord-Vietnam, promossa da Giap contro Troong-Chin dopo le sommosse di Nghe Anh nel 1956.
Ma questo tentativo di sciogliere le contraddizioni dell’edificazione socialista in una economia che resta sul piano mondiale dominata dal capitalismo e dall’imperialismo, rimane limitato ed empirico se non ci si impegna in due direzioni: l’approfondimento della democrazia operaia di massa, condizione per l’elaborazione di un piano, e la avanzata della rivoluzione mondiale nel seno stesso delle metropoli imperialistiche.
Su questi punti la rivoluzione cinese non ha dato risposte decisive. Tanto il carattere segreto degli scontri al vertice, illustrato dall’episodio Lin Piao, quanto la codificazione stessa delle strutture di potere lo provano per quanto riguarda il primo punto. Gli statuti adottati dal X° congresso del PCC ed il testo della nuova costituzione non si avvicinano per niente alla democrazia diretta e al modello della Comune di Parigi di cui ci si vantava nel 1967. Gli statuti confermano il controllo del partito sulle assemblee, gli organi di Stato, le organizzazioni operaie… La costituzione precisa: “Il partito comunista cinese è il nucleo dirigente del popolo cinese tutto intero. Il marxismo, il leninismo, il pensiero di Mao-Tse-Tung costituiscono il fondamento teorico sul quale lo Stato basa il suo pensiero. Il diritto ed il dovere di tutti i cittadini è di essere per la direzione del partito, per il regime socialista, e di conformarsi alle leggi ed alla costituzione della repubblica cinese”. Siamo lontano dalla sovranità dei Soviet, e molto più vicini alla costituzione del ‘36 detta la più democratica del mondo, che consacrò in URSS il trionfo dello stalinismo, costituzione che delegava “tutto il potere al partito”.
Quanto alla sviluppo della rivoluzione mondiale, la diplomazia del ping-pong, il sostegno al regime del Sudan, dell’Iran, di Sri-Lanka e del Pakistan, e per finire, le tesi esposte da Teng-Hsiao-Ping all’ONU, senza parlare della recente difesa della presenza americana in Thailandia contro “il nemico principale sovietico”, non ci sembrano andare per niente in quel senso.
Quello che ci interessa mettere in evidenza per il momento, è che una critica in sordina allo stalinismo come deviazione teorica, sfocia in un sostegno molto poco critico alla direzione cinese. E che, curiosamente questo sostegno è perfettamente recuperabile e digeribile dalla direzione revisionista di alcuni PC, giacché non rimette in causa i fondamenti strategici della loro politica (costruzione del socialismo in un paese solo).
Noi non ci nascondiamo che c’è un dibattito aperto sul leninismo, che – se i rapporti tra partiti di avanguardia e masse rimangono invariati dal punto di vista dei principi – non lo possono essere dal punto di vista delle forme, tenendo conto delle profonde trasformazioni del proletariato stesso. Del resto questo dibattito, nella migliore delle ipotesi, non è che una riscoperta, alla luce di elementi nuovi, delle vecchie polemiche del giovane Trotski, di Rosa Luxemburg e dei “consiliari” tedeschi contro Lenin. Ma questo dibattito sarebbe impostato molto male, e si ridurrebbe a poco, se dovesse arrivare ad eludere i problemi di fondo. Ci sono degli elementi di continuità fra la Seconda e la Terza Internazionale: la coabitazione in seno alla seconda di Kautsky e di Lenin, il loro dibattito teorico, la relativa cecità del secondo fino alla capitolazione dei 4 agosto 1914, e anche allora la sua incredulità di fronte al tradimento del primo, sono indice di problemi reali. Ma essi non possono servire da pretesto per minimizzare la rottura profonda fra la Seconda Internazionale e l’Internazionale Comunista. Se l’Internazionale Comunista si presenta come lo strumento rivoluzionario per l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni, essa si caratterizza più per il volontarismo che per l’economicismo; si vada a rileggere i testi del primo congresso dell’Internazionale Comunista e il Lenin di Lukacs. Sarebbe troppo semplice e falsamente dialettico rispondere che economicismo e soggettivismo sono le due facce della stessa medaglia. Perché la strategia dell’Internazionale Comunista si appoggia sull’esperienza più formidabile e più inedita di edificazione socialista, sui tentativi, anch’essi segnati dal volontarismo “di trasformazione del modo dì vita” che dimostrano come il maoismo non abbia affatto la palma dell’originalità; e tutto questo nelle condizioni disastrose della guerra civile, della miseria economica e culturale.
Decisamente, lo si voglia o no, il dibattito passa sempre per l’analisi dello stalinismo, che non si può evitare di affrontare. Altrimenti si ricade sempre in considerazioni superficiali. Così riferendosi alla direzione cinese, i compagni di LC devono spiegare che il vero internazionalismo dei nostri giorni consiste nel non costruire affatto l’Internazionale, giacché nessuna delle condizioni del 1919 esisterebbe oggi perché il campo strategico non sarebbe unificato come allora su scala europea da una ondata rivoluzionaria generalizzata e da una imminente insurrezione alla fine di una guerra La situazione, dice LC, è molto differenziata, frammentaria e complessa.
Ragione di più secondo noi per mantenere il principio di un’Internazionale necessaria quanto il partito stesso, e altrettanto indispensabile strategicamente.
La sua necessità non deriva dalla omogeneità della congiuntura politica, è la risposta all’esistenza di un sistema imperialista mondiale, alla interpenetrazione dei capitali, alla esistenza di una strategia imperialista mondiale, al coordinamento e alla centralizzazione degli strumenti politici e militari della controrivoluzione. La sua necessità è ancora più rafforzata dall’esistenza di un sistema burocratico che usurpa e sfigura l’idea del socialismo e che gioca un ruolo controrivoluzionario attivo, sotto il pretesto della coesistenza pacifica. Tutto questo rende indispensabile una elaborazione teorica e strategica comune, un fronte unificato delle forze rivoluzionarie. Senza questo, prima o poi, grossi scivoloni politici sono inevitabili.
2. L’anti-imperialismo e il ruolo della Cina
Il compagno Bobbio ha presentato il rapporto sull’imperialismo. Le tesi trattano dei rapporti USA-URSS, ma il dibattito in commissione è stato centrato sulla politica estera cinese. Ciò ha portato ad un’emendamento che è stato adottato e di cui non conosciamo il testo esatto, ma che ci è sembrato molto importante.
Per quanto riguarda il primo punto, ricordiamo che gli USA sono definiti come:
“la principale e la più forte potenza imperialista del mondo, cioè il nemico numero uno dei popoli, dei proletari e della rivoluzione in tutto il mondo”. 17Questa non è esattamente la posizione cinese che vede nell’ URSS il nemico principale. Notiamo poi che la caratterizzazione dell’URSS, così come è espressa nelle tesi di LC, apre tutto il dibattito sulla natura dell’URSS che noi non riprenderemo qui:
“Di fronte agli USA si trova un’altra potenza imperialista: l’URSS. La forma specifica che in URSS ha assunto il processo di accumulazione – il capitalismo di Stato – e le caratteristiche storiche del suo espansionismo mondiale – quello che i compagni cinesi chiamano ‘egemonismo’ – non alterano i tratti fondamentali del sistema sociale dell’URSS: si tratta di un sistema fondato sulla produzione di merci, sullo sfruttamento del lavoro salariato e sulla accumulazione del capitale”.18A questa caratterizzazione senza rigore concettuale, fondata su analogie superficiali, si aggiungono considerazioni più sfumate: così il testo sottolinea che se l’operaio sovietico è stato rapidamente espropriato del potere politico, egli “resta l’erede di una grande rivoluzione proletaria”19 il che limita le possibilità di elevare il tasso di sfruttamento o di aumentare la disoccupazione. In che cosa consiste questa eredità? Qui è tutto il problema, perché se si trattasse solo di una eredità morale, non cristallizzata in rapporti sociali, si avrebbe tutto il diritto di pensare che essa sia scomparsa, dopo tanto tempo. Ma il testo non va al di là di considerazioni abbastanza contraddittorie, fino all’enunciazione dei compiti programmatici della rivoluzione politica in URSS, tanto da poter misurare le conseguenze concrete delle divergenze di analisi. Senza trascurare l’importanza di questo dibattito (da parte nostra gli abbiamo dedicato un numero doppio di Critique de l’economie politique, il n° 7-8) ritorniamo al problema della politica estera cinese.
La constatazione fatta dal relatore e il senso dell’emendamento approvato partono dall’idea che nelle sue linee generali la politica estera cinese mira a indebolire l’imperialismo. Si citano come prove le posizioni della Cina sulla questione delle acque territoriali, sulla demografia, mentre le posizioni politiche concrete (Sudan, Pakistan, Iran, Ceylon e lo stesso Cile) sono ignorate. Se la linea generale è giudicata positiva, se ne deduce che merita sostegno, anche a prezzo di certe contraddizioni, ricordate alla tribuna del congresso, in particolare modo a proposito dell’Europa. In linea con l’orientamento generale definito da Teng-Hsiao-Ping, Chou En-Lai ha ripreso nel suo rapporto all’assemblea nazionale il tema del sostegno all’Europa di fronte all’Unione Sovietica: “USA e URSS portano la loro rivalità in tutti i punti del globo, ma il punto chiave di questa rivalità è l’Europa; il socialimperialismo sovietico fa baccano a Est per attaccare ad Ovest”. Aveva già dichiarato, accogliendo Pompidou a Pechino : “Noi appoggiamo i popoli europei che si uniscono per conservare la loro sovranità e la loro indipendenza e siamo a favore, da questo punto di vista, della causa dell’unità europea che se andrà in porto, contribuirà a migliorare la situazione in Europa e nel mondo”. Chou En-Lai introduce una confusione deliberata fra governi borghesi e popoli (la stessa cosa ha fatto nel suo discorso dell’ultimo gennaio all’ assemblea nazionale spiegando che i contatti fra i due popoli cinesi e americano si sono sviluppati nel corso degli ultimi 3 anni).
Si sa che questa strategia internazionale cinese ha condotto i gruppi maoisti ortodossi, come il PC (m-l) in Francia, a denunziare il lavoro antimilitarista come un attentato alla difesa nazionale, di fronte al nemico principale sovietico, e a sostenere l’unità delle borghesie europee. I compagni di LC constatano che c’è una contraddizione fra le loro posizioni e la politica cinese sulla questione specifica dell’Europa. Ne concludono che devono informare sulla loro stampa su questo aspetto della politica cinese, ma senza commento, aggiungendovi semplicemente le loro posizioni. E’ quello che noi chiamiamo un compromesso su questioni di principio.
Tuttavia l’approvazione della politica estera cinese non resta senza conseguenze sull’orientamento di LC. Da questo si comprende l’importanza data nelle tesi al tema dell’indipendenza nazionale. Qui tocchiamo dei punti centrali che mettono in luce le nostre divergenze.
3. A proposito dell’indipendenza nazionale e della “sovranità” nazionale
La tesi sull’imperialismo sottolinea che
“Nella nostra epoca, in ogni caso, la borghesia capitalistica non è in grado di portare avanti in forma conseguente una lotta per l’indipendenza nazionale”.20E la tesi sull’Internazionale riprende
“In questa prospettiva l’esigenza dell’indipendenza e della sovranità nazionale, che la borghesia ha cessato dovunque di rappresentare per farsi tramite più o meno diretto dell’imperialismo, non è un esigenza ‘superata’, al contrario è giusto affermare che l’indipendenza e la sovranità nazionale oggi più che in ogni altro periodo possono essere garantite e sostenute solo dal proletariato in armi”.21Quest’orientamento generale è giustificato dal posto particolare dell’Italia nello spiegamento dei rapporti di forza internazionali. Si sottolinea in effetti che, di fronte alle minacce di guerra in Medio Oriente, e soprattutto dopo la crisi dei rapporti fra la Grecia e la Nato, l’Italia costituisce “un avamposto della presenza militare USA” e anche un paese di ‘‘frontiera nel suo duplice senso territoriale e di classe”.22Si verifica qui che tutta l’argomentazione sull’inutilità attuale di un’Internazionale trova strane appendici. Lottare contro la presenza militare USA contro la Nato, non implica il farlo in nome dell’ indipendenza nazionale… Anche se i compagni di LC a differenza dei riformisti, fanno del proletariato in armi il solo difensore di questa indipendenza, essi mettono il piede in una strada che fu e resta l’asse politico dei riformisti in Europa. E’ in nome dell’indipendenza nazionale che questi ultimi giustificano l’alleanza e la collaborazione di classe con i settori non monopolistici e patriottici della borghesia; è in nome dell’indipendenza e della sovranità nazionale, che essi chiedono alla classe operaia di moderare le proprie rivendicazioni, per non mettere in difficoltà l’industria nazionale, o il settore pubblico, o le imprese nazionalizzate che dovrebbero essere un modello di efficienza. E’ molto pericoloso dare spazio a ipotesi del genere.
Tanto più che non si è dimostrato che una versione “rivoluzionaria” della “sovranità nazionale” sia oggi possibile.
Consideriamo l’esempio del Portogallo. La lotta contro la Nato per l’espulsione delle basi americane, per il controllo operaio sui movimenti di capitale, per l’esproprio delle imprese straniere, per l’epurazione dell’esercito e dell’amministrazione sono compiti del tutto concreti. Essi sboccano sul rifiuto delle alleanze stipulate, sul rifiuto dell’alleanza atlantica. Ma l’alleanza atlantica non può essere respinta in nome della sola sovranità nazionale. La lotta contro la Nato, contro l’imperialismo non passerà attraverso un’alleanza di collaborazione di classe con la media borghesia nazionale, ma attraverso l’internazionalizzazione più risoluta della lotta di classe, contro i Trust multinazionali e la CIA, per un rafforzamento dei legami tra i proletariati dei vari paesi d’Europa. Noi diciamo che bisogna innanzitutto mettere l’accento su questo punto : l’internazionalizzazione del capitale è un processo oggettivo, come l’internazionalizzazione della repressione borghese e dei suoi strumenti (patti militari, cooperazione poliziesca). Bisogna rispondere con un rafforzamento dell’internazionalismo proletario. La crisi attuale del capitalismo europeo non deve sfociare nella difesa, paese per paese, dell’interesse nazionale che è preso a pretesto dai riformisti per giustificare la loro collaborazione con la borghesia da essi giudicata “non monopolistica”. L’interpenetrazione del capitale europeo, il cemento che possono costituire gli emigrati, la lotta comune contro la Nato e il fatto Atlantico, devono al contrario mettere all’ordine del giorno l’Europa rossa dei lavoratori, gli Stati Uniti Socialisti d’Europa. I manifestanti del Maggio 1968 gridavano già “delle frontiere ce ne freghiamo!”. La situazione attuale deve spingere le avanguardie rivoluzionarie a superare lo stadio della cooperazione congiunturale ed a centralizzare la loro elaborazione e la loro azione.
Mettere l’accento sul quadro strategico continentale o invece sulla difesa della sovranità nazionale porta a due prospettive di lotta e a due orientamenti distinti. Per noi la scelta di LC sulla difesa della sovranità nazionale è collegata con il suo rifiuto di una nuova Internazionale e col suo appoggio alla politica estera cinese. Prima di passare ai problemi d’orientamento in Italia, citeremo un altro passo della tesi sulla questione dell’imperialismo che mostra bene come l’importanza data all’indipendenza nazionale rischia sempre di reintrodurre una prospettiva di alleanza interclassista e di tappa intermedia (“nuova democrazia avanzata”) fra capitalismo e socialismo.
“La rivendicazione della neutralità e dell’indipendenza nazionale, come sbocco necessario di una lotta contro la Nato e la dipendenza dell’Italia dagli USA, non è solo una parola d’ordine giusta, è una prospettiva reale che trova un ampio terreno di convergenza in processi sociali e politici da tempo in corso in altri paesi del Mediterraneo: la Jugoslavia, la Grecia, l’Albania, Cipro, l’Algeria il Portogallo”.23Qui non è questione solo di indipendenza, ma di neutralità nazionale, come punto di convergenza di processi in corso in paesi di differenti sistemi sociali. Una tale prospettiva, affermata non solo come mediazione “pedagogica” di denuncia antimperialista, ma come “prospettiva reale” entra a pieno nella strategia dei tre mondi definita da Teng-Hsiao-Ping che dà il primo posto al fronte diplomatico a scapito del fronte di classe.
III. La nozione di crisi “prolungata” e le sue conseguenze
Il rapporto del compagno Sofri sulle “tendenze del movimento di lotta” ribadisce un punto di partenza che noi condividiamo. Egli rifiuta l’idea di un riflusso duraturo del movimento di massa che giustificherebbe un ritorno all’avanguardismo, al sostitutismo, in particolare a proposito della violenza. La classe operaia italiana attraversa, dice Sofri, una fase di maturazione e perplessità per quanto riguarda lo sbocco politico delle sue lotte; ma non bisogna trarre la conseguenza di un riflusso di combattività: “sarebbe un irrimediabile errore non rendersi conto di ciò, scambiare la diversificazione degli obiettivi e delle forme di lotta per un regresso rispetto alla tendenza dominante degli ultimi anni”.
A prova di ciò egli cita il fatto che, durante le manifestazioni del 4 dicembre 1974, gli slogan, largamente ripresi dai lavoratori, ponevano la questione del potere “è ora, è ora, potere a chi lavora !” e “il potere deve essere operaio!”.
Ma quando si passa ad affrontare le prospettive concrete, ritroviamo nei compagni di LC il riflesso della loro problematica generale.
Il loro congresso ha il merito di dare un espressione più sistematica alla loro impostazione.
Innanzitutto l’analisi del “primato della politica” si ritrova nell’analisi della crisi che essi, sviluppano. La battaglia contro l’economicismo trova la sua appendice nell’affermazione seconda la quale
“la forza del proletariato sempre più tende ad esprimersi come autonomia relativa dalle ‘condizioni oggettive’, cioè dai tempi e dai modi di estrinsecazione della crisi. Ogni posizione economicista che faccia dipendere in modo automatico i movimenti della classe operaia dalle variazioni del ciclo capitalistico viene sempre più chiaramente smentita dai fatti”.24Tutta l’astuzia di tale formula sta nell’uso dell’aggettivo “automatico” che suggerisce, ma immediatamente nasconde, il suo materialismo volgare. Di fronte ad una tale accusa, ognuno si difenderebbe immediatamente: noi non facciamo dipendere in maniera automatica… Ma così il problema non è affatto risolto. Dire che il periodo di espansione e di accumulazione sfrenata del capitale dopo trenta anni sbocca in una crisi generalizzata senza preced enti dei rapporti sociali è una cosa, (ma questo non significa forse riconoscere l’ampiezza di questa crisi come la conseguenza di un ciclo “lungo”, che è seguito alla seconda guerra mondiale?). Affermare l’autonomia più che “relativa” di questa crisi sociale in rapporto al ciclo capitalistico è un’altra. Questa affermazione illustra in effetti una tendenza più generale al soggettivismo già presente nella tesi sull’Internazionale. Ma si tratterebbe solo di una questione ideologica di secondaria importanza, se essa non svolgesse una funzione precisa nella problematica strategica dei compagni di LC. In effetti essi riconducono la contraddizione del modo di produzione capitalista alla contraddizione che oppone il proletariato al sistema. Il proletariato, nella tesi sul materialismo, è definito come la principale se non la sola forza produttiva :
“la principale forza produttiva alla quale, in ultima istanza, sono riconducibili tutte le altre, è costituita dal proletariato, dalla sua crescita numerica e qualitativa, dai suoi interessi di classe che si radicano nei suoi bisogni materiali, cioè nelle condizioni storiche della sua esistenza”25.
Si comprende come una simile tesi permetta di semplificare al massimo le contraddizioni sociali di un’economia di transizione, come abbiamo visto nelle posizioni sulla Cina e nella definizione teorica delle deviazione staliniana; tale tesi va nel senso del volontarismo maoista secondo il quale l’uomo è un foglio bianco su cui si può scrivere tutto. La lotta contro l’economicismo, condotta con accanimento, ci conduce alle soglie dell’idealismo. Sarebbe d’altronde difficile vedere solo un concorso di circostanze nel fatto che gli scioperi belgi del ‘60- 61 siano scoppiati proprio alla fine di una recessione, in periodo di ripresa economica, come lo sciopero generale del Maggio 1968 ha avuto luogo alla fine della recessione europea – soprattutto tedesca – del 1967.
L’impostazione di LC ha una serie di conseguenze politiche molto concrete. Essa porta innanzitutto a dissolvere la nozione leninista di crisi rivoluzionaria in quella di “crisi prolungata” (che esprime la crisi permanente, relativamente autonoma dei rapporti sociali). Questa crisi prolungata fornisce il tempo necessario perché si affermi, progressivamente, l’“autonomia operaia”, risultato diretto della crescita numerica e qualitativa del proletariato, unica forza produttiva (paradossalmente, non c’è qui uno scivolamento nel meccanicismo del materialismo volgare?). L’idea di crisi prolungata, di crescita dell’autonomia operaia al di fuori dell’influsso riformista, introduce un vocabolario evoluzionista che rischia di riportarci a una strategia a tappe e gradualista della conquista del potere. Pericolo per nulla ipotetico, come vedremo.
1. Fronte unico, scavalcamento e concezione dello sviluppo per tappe
Questa questione la ritroviamo trattata abbastanza sistematicamente nella tesi sulla tattica. Questa tesi si sforza di circoscrivere bene il proprio argomento:
“Noi sottolineiamo il carattere strategico dei contenuti dell’autonomia operaia, della negazione reale del lavoro salariato, dell’unificazione del proletariato sotto la direzione operaia […]. Noi riteniamo che, nella sua forma generale, la questione della tattica abbia al suo centro la questione del rapporto fra autonomia di classe e organizzazione maggioritaria della classe”26.
E più in là : “Che cosa è dunque la tattica? E’ il modo in cui riteniamo possibile conquistare alla direzione rivoluzionaria la maggioranza del proletariato”.27Il problema posto è certamente quello in cui si imbatte ai nostri giorni ogni organizzazione rivoluzionaria: come forgiare l’indipendenza e l’unità di classe del proletariato, sulla base dei suoi interessi storici, rivoluzionari, quando esso resta sottomesso nella sua maggioranza a direzioni riformiste di collaborazione e di capitolazione? Come strappare le masse alle loro attuali direzioni? Come guadagnare la loro fiducia? Ogni risposta a questi problemi presuppone una certa analisi del riformismo, e una certa analisi dello sviluppo della coscienza di classe. Le nostre risposte partono in particolare dall’idea che il riformismo, socialdemocratico o staliniano, non si riduce ad una invenzione diabolica della borghesia, per manipolare il proletariato, ma che è innanzitutto un prodotto delle lotte quotidiane dei lavoratori, che esso esprime la coscienza spontanea delle masse alienate dal lavoro salariato, espropriate dei loro mezzi di lavoro e del prodotto del loro lavoro, incapaci di innalzarsi ad una visione che vada al di là del sistema sociale che li sfrutta. L’idea sviluppata nel Il manifesto del Partito Comunista, secondo la quale il proletariato è una classe economicamente, politicamente ed ideologicamente dominata, porta direttamente alla questione strategica centrale della formazione della coscienza di classe rivoluzionaria, della conquista dell’unità e dell’indipendenza di classe di fronte alla borghesia. La borghesia trae prima il suo potere economico poi l’egemonia culturale, dall’appropriazione dei mezzi di produzione e dalla generalizzazione dello scambio nel quadro di un mercato che si unifica. La sua conquista del potere politico non è che il risultato di un processo maturato a lungo. Per il proletariato, invece, la conquista del potere politico è l’inizio, è la chiave della sua emancipazione economica e culturale. Vi è una contraddizione evidente nella quale mette radice il riformismo: come una classe espropriata e diseredata possa innalzarsi all’altezza di questo compito e prendere nelle sue mani la organizzazione di tutta la società.
Certamente, è sulla base della propria esperienza, delle sue lotte, della sua organizzazione che nasce e si forma la coscienza di classe, che si sviluppa la tendenza a quella autoemancipazione dei lavoratori che i compagni di LC chiamano la affermazione dell’autonomia operaia ad un livello strategico. Ma quando passiamo sul terreno della tattica, dell’organizzazione concreta del movimento operaio, la nostra risposta al problema centrale della conquista della maggioranza della classe, ruota intorno a due idee: quella del fronte unico di classe e quella di crisi rivoluzionaria.
Il fronte unico. Noi non partiamo da una classe operaia vergine, ma da una classe operata già organizzata, per la maggior parte nei partiti riformisti, già divisa in varie organizzazioni, in funzione di diversi progetti strategici, peggio ancora consolidata, cristallizzata nelle sue divisioni, da una rete di alleanze internazionali, dall’influenza di apparati dì Stato consolidati. Ma nell’esistenza e nella pratica sociale del proletariato è radicata una profonda aspirazione all’unità. E’ su questa aspirazione che noi facciamo leva per farla entrare in contraddizione con la politica delle direzioni riformiste, portando avanti parole, d’ordine e forme di organizzazione che tendono all’unificazione della classe: aumenti di salario uguali per tutti, scala mobile del salario e delle ore di lavoro, unificazione sindacale e sovranità delle assemblee generali, ecc. Perché questa unificazione rafforza la fiducia in se stessa della classe operaia. Ma per mettere a nudo le contraddizioni delle direzioni riformiste non basta sviluppare queste parole d’ordine e proposte di azione che cerchino di guadagnare i militanti che hanno fiducia in esse. Bisogna proporre alle stesse direzioni riformiste l’unità d’azione sulla base della lotta di classe, dell’indipendenza di classe. E’ ciò che noi chiamiamo una problematica di fronte unico opposto ai fronti di collaborazione di classe (“unione delle sinistre”, “compromesso storico”,“giunta democratica”) portati avanti dai riformisti. Che questa prospettiva possa tradursi in una tattica sistematica di unità d’azione, dalla base al vertice, dipende dai rapporti di forza: un’organizzazione rivoluzionaria troppo debole che volesse praticare tale tattica, senza poterne imporre i fondamenti, sarebbe ridotta al codismo, all’opportunismo da gruppo di pressione impotente sulle direzioni riformiste. Ma anche quando non è possibile sistematizzare il maniera permanente tale tattica, è possibile, su tematiche o terreni su cui i rapporti di forza sono più favorevoli, tracciarne la prospettiva, imponendo o proponendo l’unità d’azione, come noi abbiamo fatto in certe mobilitazione della gioventù, in certe lotte antimilitariste, antimperialiste, o intorno a certi scioperi operai (la marcia sulla Lip). Tutto ciò per riassumere grosso modo la nostra posizione sul problema della tattica.
La crisi rivoluzionaria. D’altra parte, noi non pensiamo che l’indipendenza o l’autonomia di classe possono affermarsi a poco a poco, gradualmente sul filo delle esperienze accumulate. L’ideologia dominante è radicata nei rapporti di produzione capitalistici e sino a che essi non sono distrutti, essa riprende forza nelle file stesse del proletariato. Chi ha creduto che dopo il 1968, il livello di coscienza raggiunto dallo sciopero generale del Maggio sarebbe restato un punto di partenza per le lotte future, si è sbagliato. La società borghese ha saputo riprendersi e recuperare terreno perché aveva conservato l’essenziale: il potere politico e i rapporti di sfruttamento capitalistici. E per questo noi continuiamo a pensare che le masse possono sottrarsi, nella loro maggioranza alla ideologia dominante solo in un periodo di crisi che le trasforma. Si vede per esempio come i lavoratori di un’industria in sciopero sfuggano temporaneamente al dispotismo della fabbrica, come possano trovare in sé stessi nuove risorse, nuova audacia. Questa metamosfosi si riproduce, su scala di massa, durante una crisi rivoluzionaria e pre-rivoluzionaria, quando il tessuto della società borghese si lacera. Ci riferiamo a questo proposito ai testi di Lenin in Il fallimento della Seconda Internazionale e a quelli di Trotskij nella Storia della Rivoluzione Russa. La nozione di crisi rivoluzionaria è per noi un concetto strategico che risponde alla forma di dominazione subita dal proletariato e alle condizioni per la conquista del potere da parte dei produttori associati.
Ci sembra che i compagni di LC, non utilizzando né l’una né l’altra di queste due nozioni, confondano due idee. Essi spiegano che:
“Un passaggio repentino della maggioranza del proletariato dalle file del PCI alle file del partito rivoluzionario è completamente improbabile”28.
E questo è vero. Bisogna trarne delle conclusioni rispetto alla costruzione del partito rivoluzionario. I compagni di LC avevano già spiegato (nei testi tradotti e pubbblicati da Les temps modemes) che la loro forza fu di comprendere per primi che potevano appoggiarsi per la costruzione della loro organizzazione sulla corrente di radicalizzazione operaia che passava largamente fuori dei ranghi del PCI, senza attendere una sua ipotetica crisi o frattura.
Ma che sia possibile gettare le basi di una organizzazione rivoluzionaria fuori dei partiti riformisti tradizionali non implica che, dal punto di vista della conquista del potére, si possa ignorarli o girar loro intorno. Ora i compagni di LC passano dalla prima idea alla seconda:
“Non solo la solidità dell’edificio revisionista […] ma la natura prolungata della crisi capitalista e imperialista […] modificano l’ipotesi di una precipitazione verticale degli equilibri politici e sociali di uno spostamento brusco di campo, da parte delle grandi masse, di un rapido sviluppo insurrezionale guidato dal partito rivoluzionario”.29
Una tale ipotesi, secondo noi sopravvaluta la solidità e la coesione dell’edificio revisionista (o staliniano). E, in mancanza di una tattica adeguata a sfruttarne le contraddizioni e accentuarle, i compagni di LC sembrano ripiegare su una posizione, in ultima analisi disfattista: il tempo farà la sua opera, il cambiamento di campo da parte delle masse non avrà il carattere di una crisi brusca ma di una lenta erosione. Ecco che noi ritroviamo l’idea della crisi prolungata, l’estrapolazione impressionista del “Maggio strisciante” italiano, in oppostizione all’ipotesi di un rapido sviluppo insurrezionale.
Tuttavia, a differenza dell’ ultrasinistrismo volgare, i compagni di LC, sono coscienti del carattere contraddittorio delle organizzazioni riformiste Essi spiegano che il PCI esprime una direzione borghese, ma che la comprensione della sua politica e della sua natura sarebbe incompleta se non si aggiungesse
“che in ultima istanza essa vincola le sue scelte al mantenimento dell’influenza sulla classe operaia, che costituisce la condizione della sua forza e della sua autorità”30i compagni mettono anche in rilievo certe contraddizioni reali:
“Qual è, in questa situazione, la giusta tattica rivoluzionaria? Non certo quella di inseguire ideologicamente il revisionismo nella sua bancarotta, con l’intenzione di divenirne gli esecutori testamentari, bensì quella di rafforzare l’autonomia del movimento, di lavorare nelle sue lotte e nella sua organizzazione dal basso, alla conquista della direzione rivoluzionaria, di ridurre gli spazi di utilizzazione padronale del revisionismo, per accrescerne viceversa la contraddizione con le esigenze nazionali e anche internazionali della restaurazione capitalista, di utilizzare il rapporto di contraddizione fra l’organizzazione revisionista e le masse come un tramite dell’azione generale e unitaria delle masse”.31Ma questa definizione di una giusta tattica rimane a livelli assai generali. Da nessuna parte si trova l’esposizione concreta della forma che riveste lo sviluppo dell’ “autonomia operaia” a livello di tattica: né delle forme precise d’auto-organizzazione né una prospettiva di tendenza sindacale, né una formula generale di governo dei lavoratori. Su quest’ultimo aspetto ritorneremo più avanti.
Ma siamo stati sorpresi soprattutto di non udire, durante il congresso, nessun intervento sistematico sulla questione del lavoro sindacale, o dell’auto-organizzazione delle lotte.
Per quanto concerne i sindacati, la loro “istituzionalizzazione” è messa sullo stesso piano dell’avvento della democrazia parlamentare. Il loro carattere contraddittorio è meno analizzato di quello del PCI. Ne risulta che la loro utilizzazione, lungi dal rimandare ad un’orientamento preciso, si limita all’intervento puntuale o congiunturale nelle strutture sindacali, a una politica di presenza là dove esistono militanti fuorviati ma onesti, magari ad un sostegno empirico, che non è esente da scivolamenti opportunisti, agli elementi della sinistra sindacale. Ma il sindacato non è mai considerato come una struttura elementare di fronte unico in seno alla quale portare avanti ed affermare una tendenza di lotta di classe sulla base di una piattaforma di difesa delle rivendicazioni unificanti e dell’indipendenza di classe.
Alla stessa maniera, la battaglia per le forme di auto-organizzazione della classe (assemblee generali sovrane, comitati di sciopero eletti e revocabili) non appare un asse centrale. Di modo che, di fronte al recupero parziale dei consigli dei delegati da parte dell’apparato sindacale sotto controllo burocratico, i compagni di LC sembrano attenersi a un atteggiamento variabile, di utilizzazione tattica di questi consigli, secondo i luoghi e le circostanze, senza una prospettiva centrale d’insieme; in altre parole, la prospettiva “strategica” dell’autonomia operaia rimane abbastanza disincarnata, al di fuori delle mediazioni tattiche della sua applicazione.
Per quanto ci riguarda, noi leghiamo la battaglia per l’auto-organizzazione democratica della classe allo sviluppo del controllo operaio, di cui esso è il supporto indispensabile. Nel suo rapporto politico, il compagno Sofri constata: “sarebbe un grave errore politico abbandonare la lotta nei consigli, nel momento in cui si va ad una normalizzazione burocratica; ma i consigli di fabbrica non hanno oggi, in una situazione decisiva, la forza di dirigere la lotta e ancora meno di servire da trampolino per la sua generalizzazione. C’è una tendenza significativa e feconda verso una ridistribuzione della rappresentatività operaia in funzione dell’iniziativa diretta di lotta e di una nuova comunicazione delle direzioni nelle fabbriche, a partire dalle avanguardie reali”.
Se una tale valutazione può dare luogo a prese di posizione di volta in volta, essa non può per niente fondare una linea generale. E in assenza di una linea definita, chiara e decisa di fronte ai riformisti, lo sbriciolamento delle scelte tattiche, lasciate alla valutazione dei rapporti di forza locali, non può che favorire gli adattamenti più diversi, compreso l’adattamento agli apparati riformisti. Così il risultato generale di questa mancanza di definizione di un’orientamento rispetto ai riformisti, è che la tattica che LC cerca di definire per la conquista della maggioranza della classe si diluisce e scompare. Al posto di una prova di forza con i riformisti, per la conquista delle masse, si ritorna a una specie di spontaneismo originale: la dinamica dell’autonomia operaia provvederà… Lo scavalcamento dei riformisti sarà assicurato dalla crescita progressiva nella “crisi prolungata”, dell’autonomia operaia senza che la tattica unitaria concreta di fronte alle organizzazioni riformiste maggioritarie diventi mai un problema centrale. Questo girare intorno ad un problema così cruciale non può che favorire una visione gradualista che in effetti affiora bella e buona, in molte formule. Nella tesi sulla questione della tattica si legge ancora:
“Conquistare la maggioranza alla rivoluzione, dentro una crisi del capitale che assume una forma prolungata – e che, dunque, esclude, ben più e ben diversamente che cinquantanni fa, il crollo subitaneo del regime capitalista, e il rovesciarneto subitaneo dei rapporti di forza dentro le masse tra la minoranza rivoluzionaria e l’organizzazione maggioritaria revisionista e riformista – questo è il problema della tattica.
Sul terreno generale, noi orientiamo la nostra tattica rispetto alla direzione maggioritaria del proletariato sulla base dell’analisi delle sue contraddizioni. In ultima istanza, esse si riducono alla contraddizione fra una direzione borghese e la necessità di conservare la rappresentanza del movimento di classe. Questa contraddizione viene dominata dall’organizzazione revisionista quando l’autonomia anticapitalista della classe operaia è relativamente più debole e diviene viceversa sempre più dirompente a mano che cresce l’autonomia operaia…”32Non si vede bene qui il ruolo tattico dell’avanguardia organizzata, visto che la crescita dell’autonomia operaia porta essa stessa al loro punto di rottura le contraddizioni dei riformisti. Supponendo ovviamente che l’autonomia operaia cresca effettivamente in maniera lineare, cosa che contraddirebbe gli ultimi 100 anni di storia del movimento operaio. A meno che ancora l’abbandono della linea economicista, origine di tutti i mali, e l’apertura di una crisi prolungata, relativamente autonoma del ciclo di produzione capitalistico siano sufficienti ad assicurare per l’avvenire quello che non si è mai verificato nel passato: una crescita dirompente dell’autonomia operaia che sommerga le vecchie burocrazie riformiste, e della quale l’avanguardia rivoluzionaria non sarebbe che la punta avanzata. Dobbiamo sottolineare a questo proposito che i compagni parlano di “avanguardie a carattere di massa” come noi utilizziamo nei nostri testi la nozione di avanguardia larga o di avanguardia con carattere di massa. Certo, noi indichiamo con essa, parzialmente almeno, lo stesso fenomeno: la formazione nella lotta di un’avanguardia. Ma per i compagni di LC, questa nozione non significa altro che parte avanzata dell’autonomia operaia che va costituendosi senza praticamente far intervenire criteri politici che indichino delle rotture in seno al movimento operaio organizzato. Per noi invece la nozione di avanguardia larga non indica solo un certo grado di combattività operaia essa esprime anche l’idea di una rottura, ancora parziale o empirica, con la strategia riformista, e pone dei problemi di tattica unitaria: come appoggiarsi sull’avanguardia larga, come mobilitarla, senza dividere il movimento operaio, ma al contrario nella prospettiva di imporre ai riformisti l’unità d’azione. Questa assenza di prospettive, la mancanza di preoccupazioni di sistematizzazione a questo proposito, è confermata dal fatto che nessuna delle tesi del congresso di LC è dedicata ad una analisi precisa dell’estrema sinistra italiana e della tattica unitaria in seno ad essa e in direzione dei riformisti.
Noi pensiamo che si ritrovano qui le più vecchie illusioni spontaneiste e le più teorizzate: quelle che nascono dall’estrapolazione teorica di una data situazione. Così i consiliari tedeschi, i Görter, i Pannekoek hanno creduto ai loro tempi che la crisi che aveva scosso la Germania, fra il ‘19 e il ‘23 si prolungasse indefinitamente. Hanno creduto che il proletariato fosse entrato in una specie di età adulta, di crescita organica, e che i consigli nati dalla crisi fossero destinati ormai a svilupparsi fuori e contro i vecchi apparati burocratici. Una volta sciupate le occasioni della crisi rivoluzionaria, una volta perduta la possibilità di conquistare il potere, i consigli sono deperiti, quando non sono stati istituzionalizzati dalla socialdemocrazia sotto forma di comitati di azienda.
Così ancora, dopo il Maggio 1968 i maoisti francesi hanno creduto che “il vento dell’Est avesse definitavamente spazzato il vento dell’Ovest”, che l’ideologia proletaria fosse divenuta dominante sul piano planetario, che gli apparati sindacali riformisti fossero in rotta e che i burocrati alla Renault camminassero rasente i muri. Essi hanno cominciato col prendere i loro desideri per realtà, per avere creduto eterno il momento favorevole della crisi. Molti hanno finito per contentarsi di prendere la realtà per desiderio riguadagnando i ranghi del PS o della sinistra sindacale o del baronato universitario, o, più semplicemente, le loro pantofole.
I compagni di LC, con le sfumature che implica la situazione di crisi strisciante in Italia, sembrano sviluppare teorizzazioni che vanno in questo senso. Se possono permetterselo è perché la crisi endemica in Italia ha sviluppato un’esperienza operaia più ricca e più profonda che in Francia. Tuttavia questa esperienza ha un limite, cioè che non è realmente orientata al problema del potere. Gli scioparanti francesi del Maggio 1968 hanno intravisto il balzo considerevole che dovevano compiere per arrivare alla prova di forza con l’apparato dello Stato. L’esistenza dello Stato forte come interlocutore stimola contradditoriamente la tendenza alla generalizzazione e alla centralizzazione delle lotte: il Maggio 1968, le lotte della gioventù della primavera 1973, gli scioperi dei bancari e dei postini, tutti l’hanno mostrato a modo loro. Questo orizzonte politico delle lotte è il miglior rimedio contro tutte le illusioni gradualistiche nell’estrema sinistra, contro tutti i tanfi dell’ideologia evoluzionista.
Al contrario, l’idea che la crescita dell’autonomia operaia avrà ragione dei riformisti sembra una tautologia: chi assicurerà questa crescita all’autonomia operaia e il suo non-recupero da parte dei burocrati? Questa crescita presuppone un tempo omogeneo, lineare nel quale il movimento arriva alla sua ora; essa limita il ruolo del partito di avanguardia come distaccamento di lotta, collettivo d’elaborazione, e strumento tattico di una strategia. I tempi della lotta di classe sono al contrario tempi sincopati, di crisi e di prove di forza, dove il problema del potere, come diceva Rosa Luxemburg, si pone sempre a tempo opportuno e tuttavia troppo presto. A tempo opportuno perché presuppone l’esistenza di una classe operaia già sufficientemente forte. E troppo presto perché l’effetto di sorpresa che inganna la borghesia, presuppone anche che l’avanguardia rivoluzionaria sia ancora poco sviluppata, ripiegata sulle sue radici. Quale deve essere la tattica in Italia, nel caso che si arrivi a una crisi rivoluzionaria, prima che la crescita dell’autonomia operaia abbia assicurato la maggioranza della classe ad un orientamento proletario e rivoluzionario? Questa è la domanda principale a cui bisogna rispondere perché essa esprime l’ipotesi e le scadenze più probabili. Ora, la prospettiva strategica di insieme sviluppata dai compagni di LC, la fumosità degli orientamenti tattici in rapporto ai riformisti, lascia via libera alle improvvisazioni tattiche tanto più aperte a slittamenti opportunisti in quanto sono considerate come secondarie e provvisorie.
2. Il PCI al governo?
Questi pericoli diventano particolarmente chiari in una prospettiva governativa. I compagni di LC partono da un rifiuto delle formulazioni avanzate da altre correnti dell’estrema sinistra: “La formulazione dei tipo ‘governo di sinistra’nella quale sembra affiorare un riequilibrio delle forze attraverso una coalizione composita (fra socialisti, alcune frange cattoliche, e certi settori della sinistra rivoluzionaria) ha tutta l’aria di una candidatura al rimpiazzo della DC, nella gestione della crisi e della ristrutturazione”.
A queste formule opportuniste nel peggiore dei casi di alleanze interclassiste, comunque di accodamento ai riformisti col pretesto del fronte unico, i compagni di LC oppongono una politica che si appella al realismo evitando di alimentare illusioni sulle direzioni riformiste e sul loro eventuale passaggio dalla parte della rivoluzione sotto la pressione delle masse.
Ma queste preoccupazioni di realismo, quali ne siano gli argomenti, anche validi, si traducono di fatto in un sostegno alla politica di compromesso storico del PCI. I compagni avanzano la formula “PCI al governo”. In un primo tempo, noi abbiamo creduto che si trattasse della ricerca di una formula transitoria, del tipo “governo PCI!”. Dai chiarimenti che sono seguiti, sembra invece che si tratti di esigere l’ingresso del PCI al governo, a fianco della Democrazia Cristiana. Si tratterebbe, cioè, di esigere la realizzazione immediata del compromesso storico a livello governativo. Riferiamoci alla relazione dello stesso Sofri. Egli dice:
“Un cambiamento di regime che avesse per asse la presenza del PCI al governo, significherebbe in virtù del processo stesso di cui sarebbe il risultato una riduzione drastica delle possibilità di una gestione della crisi”. Più in là egli dice ancora:
“Tutto ciò significa, che il ruolo maggioritario del PCI si fa più contradditorio e vulnerabile, ma non tende puramente e semplicemente a sparire. Un governo col PCI non sopprimerebbe semplicemente questa doppia tendenza, ma al contrario, l’aggraverebbe radicalizzando la contraddizione fra il PCI e il programma fondato sui bisogni del proletariato, da una parte, la contraddizione fra il PCI e la borghesia dall’altra. La tragica frase dell’operaio cileno (‘è un governo di merda, ma è il mio governo”) sarebbe ancora valida nella nostra situazione ma i rapporti di forza e la maturità dell’autonomia operaia sarebbero diversi”.
Qui ci sono molte idee mescolate e confuse. L’idea secondo cui l’ingresso del PCI al governo esprimerebbe, anche se in maniera deformata, la spinta della classe operaia. L’idea secondo la quale la presenza del PCI al governo aggraverebbe le contraddizioni del sistema capitalistico e dei suoi rappresentanti politici diretti (DC). Con questo siamo d’accordo, in una certa misura che precisiamo subito: il fatto è che, se la partecipazione al governo del PCI non costituisce la soluzione di ricambio desiderabile, a freddo, dalla borghesia (essa teme la dinamica sociale che si profilerebbe dietro ad una tale operazione, non certo i progetti politici del PCI) non bisogna però sottovalutare il fatto che in ultima analisi, in caso di crisi aperta, il PCI potra essere l’ultima soluzione della borghesia. Ed è per meglio prepararsi a questo ruolo che esso prende già da ora impegni programmatici di rispetto delle istituzioni, della proprietà privata, e si sforza si stringere un’alleanza col partito più rappresentativo della borghesia, col compromesso storico. Perciò, presentare l’entrata del PCI nel governo solo come l’aggravamento delle contraddizioni che ne risulterebbe, è unilaterale. Il compagno Sofri è portato a minimizzare il ruolo che i riformisti sarebbero portati ad avere :
“Molti sembrano temere, in una situazione di questo tipo, i pericoli rappresentati dal ruolo repressivo del PCI. Il ruolo indubbiamente e irrimediabilmente repressivo, legato alla natura dell’organizzazione revisionista non può prevalere oggi di fronte all’autonomia delle masse e difficilmente potrebbe averla vinta su un movimento di massa uscito da un’offensiva vittoriosa”.
Il problema per noi non è tanto nel ruolo repressavo del PCI (anche se l’esempio della guerra civile spagnola è lì a ricordarci che non dobbiamo sottovalutarlo) quanto nel fatto che questo ruolo può essere meglio esercitato se le masse saranno preliminarmente disarmate.
Riprendiamo i due elementi che intervengono e a volte si mescolano per giustificare la parola d’ordine del PCI al governo. Innanzitutto un argomento che ricorda la politica del tanto peggio tanto meglio : le contraddizioni sarebbero portate al punto di rottura. Poi un argomento più pericoloso: il passaggio del PCI al governo sarebbe una tappa necessaria per chiarire il suo ruolo reale, dare fidueia alle masse, sottrarle alla sua influenza, in breve, per portare avanti l’autonomia operaia.
Per quanto riguarda il primo argomento, bisogna comprendere bene tutta la portata della contraddizione. Certo, il PCI al governo può essere inteso dalle masse come una vittoria e un incoraggiamento alle loro lotte. Ma la borghesia non si deciderà proprio per questa ragione, a lasciargli un posto al governo, se non in una situazione di estrema crisi, per gestire il sistema, come esso si impegna a fare già da ora. La presenza del PCI al governo costituirà allora, insieme ad un incoraggiamento, anche un freno, una diversione che tende a canalizzare le energie delle masse verso obiettivi strettamente democratici, e non verso un rovesciamento rivoluzionario. Mobilitare le masse in questa prospettiva di partecipazione governativa, non può che lasciarle disarmate poi di fronte alla coalizione interclassista e alle alleanze di collaborazione che fin da ora gli stalinisti preparano. Bisogna al contrario insistere già da adesso sul fatto che l’auto-organizzazione delle masse, lo sviluppo dei comitati di soldati, la lotta per il controllo operaio, sono le migliori garanzie che possono darsi i lavoratori contro le combinazioni governative con i partiti borghesi.
Sarebbe ancora più pericoloso dar credito all’idea che il passaggio del PCI al governo costituirebbe una tappa indispensabile sulla via dell’autonomia operaia. Il Maggio 1968 in Francia ha dimostrato che l’auto-organizzazione può fare passi di gigante nel quadro di uno sciopero generale. E’ educativo appoggiarsi su questi esempi per mostrare che se una vittoria elettorale può stimolare la mobilitazione delle masse, la crescita delle loro lotte e lo sviluppo delle loro forme di organizzazione non passa necessariamente di là. Senza questo il preteso “realismo politico” sarebbe di fatto la migliore iniziazione all’elettoralismo tout court.
Noi siamo ben coscienti del problema che ci si pone.
Non è sufficiente promuovere l’auto-organizzazione alla base, i consigli e i comitati… La questione del potere potrebbe presentarsi quando questi embrioni del futuro potere proletario sono ancora isolati e sviluppati in un modo diseguale e quando le direzioni riformiste hanno ancora la fiducia della schiacciante maggioranza dei lavoratori. Non possiamo accontentarci di rispondere che non saremmo pronti e non ci resterebbe altro che guardare all’indomani. E’ a questa situazione contraddittoria che risponde secondo noi, la formula del “governo dei lavoratori” o “governo delle organizzazioni operaie”. Si tratta di esigere dalle organizzazioni maggioritarie nella classe che esse prendano il potere quando le masse le spingono, senza alleanze con i partiti borghesi, per via elettorale o no. Questa formula è per noi il coronamento della politica del fronte unico di classe, essa non mira solo a offrire una soluzione concreta, corrispondente ai rapporti di forza del momento ma anche a mostrare alle masse che i riformisti sono pronti ad andare al governo solo a certe condizioni, che garantiscano il mantenimento e la legalità dello Stato capitalistico, e non per applicare il programma anticapitalista che esprime i bisogni oggettivi nati dalle lotte. Ma perché questa formula non faccia semplicemente da sgabello ai patti di collaborazione riformista, essa deve rispettare un criterio fondamentale, quello del mantenimento dell’indipendenza di classe. Così in Francia all’Unione della sinistra con partiti borghesi (i radicali) noi opponiamo la prospettiva di un governo delle organizzazioni operaie senza ministri borghesi. Così in Cile, dopo l’ottobre 1972, parallelamente alla strutturazione dei cordones industriali e dei commandos comunali, bisognava battersi per la rottura dei legami fra partiti operai riformisti e la borghesia, per l’espulsione dei ministri militari, la formazione di un governo delle sole organizzazioni operaie che si appoggiasse sui cordones e sui commandos. Anche quando restano nel campo della propaganda, queste formule insistono, sulla necessità della indipendenza di classe; oppongono permanentemente, a tutte le forme di coalizione o di fronte interclassista, il fronte unico di classe.
Per questo, se sulla base di una ascesa delle lotte come quella dell’autunno 1974, possiamo esigere dai partiti riformisti che assumano il governo, ci preoccupiamo però di non fornire copertura alla loro politica di alleanza interclassista con un appello del tipo “l’Unione della sinistra al potere”, esigiamo invece un governo PC-PS per la realizzazione delle rivendicazioni operaie che escono dalle lotte.
Domandare puramente e semplicemente che il PCI entri al governo a fianco della Democrazia Cristiana non arma per niente i lavoratori contro i patti di collaborazione di classe. Questa richiesta è ancora più pericolosa in quanto, riallacciata alla lotta per l’indipendenza nazionale, rischia di apparire come la tappa di democrazia rinnovata e di restaurazione della sovranità nazionale, che si trova nel programma del PCI.
Questi pericoli si ritrovano nella presentazione dell’indicazione del voto, fatta dal compagno Sofri. Egli dice:
“Noi non facciamo dipendere l’opportunità di chiamare ad un voto al PCI dalla evoluzione politica del PCI stesso. A differenza di altri, noi non nutriamo nessuna illusione sulla linea politica del PCI”.
Non possiamo che essere d’accordo : quando noi votiamo o facciamo votare per un partito operaio riformista, lo facciamo in funzione dei suoi legami con la classe, e “non in virtù di qualche sostegno critico alla sua linea.
Ma se si mette in rapporto l’idea della crisi prolungata che dovrebbe permettere la maturazione dell’autonomia operaia, con la parola d’ordine dell’ingresso del PCI in un governo borghese e con una difesa della neutralità ed indipendenza nazionali, come “prospettiva reale”, ecco venire fuori un complesso di elementi che, pur avendo come orizzonte la tendenza generale all’autonomia operaia, delineano una vera e propria tappa intermedia, una prima scadenza sanzionata dalla partecipazione del PCI al governo.
Si può dire in un primo tempo che si tratta di un modo per accrescere le contraddizioni del regime, ma si può essere portati, per la stessa logica, a sostenere in maniera critica la stessa politica del PCI. Soprattutto, mettendosi su questa strada, non si mette principalmente l’accento sull’organizzazione unitaria, democratica e indipendente della classe. Anche se si continua a parlare in maniera generale, senza precisarne le concretizzazioni tattiche, dell’autonomia operaia. Essa non tarderà a diventare un riferimento lontano mentre le scadenze immediate, i compromessi “realistici” verso il riformismo passeranno in primo piano e, a poco a poco, finiranno per occupare lo spirito stesso dei militanti.
Noi ci rendiamo conto che le contraddizioni da superare non sono semplici. Anche noi, durante la preparazione del nostro congresso, abbiamo avuto un lungo dibattito sullo stesso tema. Dovrebbe esistere almeno un punto di partenza per questa discussione. Ci sembra difficile da parte di LC richiamarsi all’autonomia operaia come filo conduttore strategico, e nello stesso tempo spingere le masse che seguono il PCI nelle braccia della DC.
IV. La costruzione del partito
Vogliamo affrontare rapidamente un ultimo problema, quello della concezione del partito. Nel loro sforzo di sistematizzazione, i compagni di LC fanno discendere la concezione del partito dal superamento, come essi lo vedono, dell’economicismo e della divisione fra economico e politico, fra programma minimo e programma massimo, fra avanguardia e masse: “fra partito di massa elettorale della destra revisionista e partito di quadri settario e cospirativo staccato dalle masse, dalla sinistra revisionista”33
La questione è dunque semplice: il partito deve essere l’avanguardia naturale del movimento delle masse, cosa che si trova largamente illustrata nella definizione di membro del partito. Non c’è bisogno di sottolineare come questa semplificazione sia collegata con una certa situazione congiunturale di ascesa del movimento operaio. Cosa sarebbe stato il partito in un periodo di riflusso o di stagnazione del movimento, come negli anni cinquanta? O forse allora era normale che esso non esistesse, perché la sua apparizione è riservata ai periodi di ascesa? Eppure c’erano anche allora dei compiti che non potevano essere trascurati (Vietnam, Algeria). Una tale concezione, secondo noi, prepara la strada a pericolosi cedimenti politici e teorici.
Tanto più che per rafforzare la loro definizione di partito, i compagni di LC, fanno l’esempio del partito comunista cinese:
“Lo statuto approvato dal X congresso del PCC è l’esempio migliore del rapporto organico tra partito e classe, ed è un riferimento fondamentale per la nostra definizione statutaria.
La designazione dei membri del partito comunista cinese prevede l’intervento attivo delle masse senza partito. Esso esemplifica una concezione sostanziale e non formalmente disciplinare del centralismo democratico, che non regola solo i rapporti interni al partito, ma anche e soprattutto il rapporto fra il partito e le masse.
Questa concezione vale nella sua sostanza per ogni partito rivoluzionario, qualunque sia la forma diversa che assume nelle particolari circostanze e situazioni in cui esso agisce. Chiamare le masse a designare i membri del partito significa per noi prima di tutto conquistare al partito quei proletari che esse riconoscono come dirigenti nella loro lotta”.34Non vogliamo attardarci sulla discutibile esemplarità dello statuto del X° congresso del PCC, né sulle pratiche che esso non ha potuto impedire (fortunato chi conosce le ragioni reali dell’allontanamento di Lin Piao!). Ma ci interessa soprattutto sottolineare la situazione radicalmente diversa tra un PC al potere e un partito rivoluzionario che deve ancora conquistarlo, a volte clandestino, spesso temporaneamente contro corrente rispetto all’ideologia dominante fra le masse, come furono gli internazionalisti zimmerwaldiani, da Lenin a Rosa, da Trotskij a Liebknecht, come furono in Francia i primi militanti delle organizzazioni di sostegno al FNL algerino, come sono i militanti antisionisti rivoluzionari in Israele. Il PC cinese è un partito ai potere. Un partito al potere non attira necessariamente solo l’avanguardia di classe, ma anche una marea di arrivisti e di intriganti. Teoricamente le masse si sono liberate del gioco capitalista ed è dunque giusto che esercitino un certo controllo sui membri del loro partito. Già, agli inizi degli anni venti, i bolscevichi avevano deciso l’epurazione permanente del loro partito sotto il controllo delle masse. Bisogna tuttavia notare che questa esigenza non può realizzarsi che entro certi limiti, giacché, continuando a dominare a livello mondiale un sistema imperialista, le prospettive rivoluzionarie internazionaliste e le esigenze spontanee delle masse non sempre coincidono.
Completamente diversa è la situazione di un partito che lotta per la conquista del potere in condizioni ostili. Sottoporre i propri membri alla designazione o alla ratifica della masse può dare libero corso alle peggiori pratiche demagogiche e aprire largamente il partito alle pressioni dei settori più arretrati delle masse. Nel 1914 le masse acclamavano Jules Guesde e non gli internazionalisti fedeli ai principi. A meno che non si concepisca la costruzione del partito rivoluzionario collegata unicamente al momento privilegiato in cui la crescita delle masse va di pari passo con l’elevazione del loro livello di coscienza. Perché se le masse fossero sempre capaci di scegliere il partito che rappresenta i loro interessi storici, rivoluzionari, questo vorrebbe dire che hanno già, nella loro grande maggioranza, una coscienza di classe rivoluzionaria. Non si vede allora perché il problema della conquista del potere non sia stato risolto già da lungo tempo. Lo statuto di LC sancisce:
“Per i nuovi membri del partito che provengono da una situazione di massa si dovrà tenere conto del giudizio che ne danno le masse. Per i nuovi membri del partito che non provengono da una situazione di massa, si stabilirà un periodo di candidatura, della durata fra i tre e i sei mesi”.35Se il desiderio di reclutare militanti temprati nel lavoro di massa è del tutto comprensibile, esso può costituire una condizione necessaria, ma non sufficiente. Senza di ciò il livello di coscienza, la maturità politica diseguale dei militanti diventerebbe un intralcio al pieno esercizio della democrazia interna nell’organizzazione. Tanto più che, nello statuto di LC, le modalità concrete di questa democrazia interna sono poco definite e il diritto di tendenza completamente assente. Si trovano certo, passaggi generali sulla garanzia della democrazia:
“E’ assolutamente vietato soffocare le critiche, ostacolare la discussione, effettuare ritorsioni. E’ essenziale creare una situazione in cui esistano sia il centralismo democratico che la democrazia, sia la disciplina che la libertà, sia la volontà unanime che la serenità e la creatività individuale”.36Ma per noi il funzionamento della democrazia all’interno di una organizzazione deve essere codificato, il diritto di tendenza definito, altrimenti le migliori promesse di democrazia non impediscano che si instauri di fatto una pratica nel migliore dei casi paternalisitica, nel peggiore burocratica. Soprattutto quando si riconosce senza definire le condizioni pratiche di esercizio, il diritto alla “opposizione e la lotta nel partito, quando non scelga la strada dell’intrigo e del frazionismo, e non sia il prodotto dell’infiltrazione del nemico di classe”,37 definizioni assai vaghe che offrono spazio all’arbitrio.
Dobbiamo infine notare che la direzione di LC è eletta su liste, a scrutinio segreto, il che gioca a suo favore rispetto alle elezioni a liste bloccate e per alzata di mano del Manifesto-PdUP.
Quarta Internazionale n° 18-19, 1975
www.danielbensaid.org
Documents joints
- Lotta continua, Tesi, fascicolo II, Sulla questione della forza, pag. 5.
- Ibid., pag. 9.
- Ibid., pag. 11.
- Ibid., pag. 6.
- Lotta continua, Tesi, fascicolo I, Sulla questione delle forze armate, pag. 12.
- Ibid.
- Lotta continua, Tesi, fascicolo I, Sulla questione dell’Internazionale, pag. 1.
- Ibid.
- Ibid.
- Ibid.
- Ibid., pag. 2.
- Cfr. “Poulantzas ou la politique de l’ambiguité”, in Critique de l’économie politique p. 10-11.
- Lotta continua, Tesi, fascicolo I, pag. 2.
- Cfr. Contre Althusser, editions 10-18.
- Ibid., pag. 299.
- Lotta continua, Tesi, fascicolo I, pag. 3.
- Ibid., Sulla questione dell’imperialismo, pag. 5.
- Ibid., pag. 5.
- Ibid., pag. 6.
- Ibid., pag. 7.
- Ibid., Sulla questione dell’Internazionale, pag. 3.
- Ibid., Sulla questione dell’imperialismo, pag. 7.
- Ibid.
- Ibid., Sulla questione dell’Internazionale, pag. 3.
- Lotta continua, Tesi, fascicolo I, Sulla questione del materialismo, pag. 4.
- Lotta continua, Tesi, fascicolo I, Sulla questione della tattica, pag. 14.
- Ibid., pag. 15.
- Ibid., pag. 14.
- Ibid.
- Ibid.
- Ibid., pag. 16.
- Ibid.
- Cfr. Lotta Continua, Tesi fascicolo II, Sulla questione del partito e dello statuto, pag. 12-13.
- Ibid., pag. 13.
- Ibid., proposta di statuto di Lotta continua , art. 2, pag. 22.
- Ibid., art. 5, pag. 23.
- Ibid., premessa, pag. 22.