“Salti! Salti! Salti!”

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Hannah Arendt temeva che la politica potesse sparire completamente dal mondo. Il secolo appena trascorso ha conosciuto tali disastri che la questione se “la politica continua ad avere un significato” è diventata inevitabile. Le implicazioni contenute in questi timori erano eminentemente pratiche: “L’assenza di significato a cui sta arrivando tutta la politica è confermata dal vicolo cieco in cui si stanno chiudendo le specifiche questioni politiche”.1Secondo la Arendt, la forma assunta da questa paventata scomparsa della politica era il totalitarismo. Oggi siamo confrontati a differenti forme di pericolo: il totalitarismo, il volto umano della tirannia del mercato finanziario. Qui la politica si trova stritolata tra l’ordine dei mercati finanziari – fatto per sembrare naturale – e le prescrizioni moralizzanti del capitalismo ventriloquo. La fine della politica e la fine della storia coincidono allora nell’infernale ripetizione dell’eternità della merce, in cui risuonano le voci stonate di Fukuyama e Furet: “L’idea di un’altra società è diventata quasi impossibile da concepire, e nessuno nel mondo oggi ne parla. Siamo qui, condannati a vivere nel mondo qual è”.2 Questo è peggio della malinconia – è la disperazione, come avrebbe detto Blanqui, quest’eternità del genere umano attraverso il Dow Jones e l’FT 100.

Hannah Arendt pensava di poter fornire una data d’inizio e di fine della politica: inaugurata da Platone e Aristotele, aveva trovato la sua conclusione definitiva nelle teorie di Marx.3 Con lo stesso gesto con cui aveva annunciato la fine della filosofia, Marx avrebbe pronunciato anche quella della politica. Questo giudizio, tuttavia, non riconosce la politica di Marx come la sola concepibile di fronte alla violenza del capitalismo e ai feticismi della modernità: “Lo Stato non vale per ogni cosa”, egli scrisse, prendendo chiaramente posizione contro “le presuntuose esagerazioni del fattore politico” che trasformano lo Stato burocratico nell’incarnazione dell’universale astratto. Piuttosto che essere un’unilaterale passione per il sociale, i suoi sforzi sono diretti verso l’emersione di una politica degli oppressi a partire dalla costituzione di corpi politici non statali, che preparino la strada alla necessaria estinzione dello Stato come corpo separato.

La questione vitale, urgente, è quella della politica dal basso, politica per coloro che sono esclusi e tagliati fuori dalla politica statale delle classi dirigenti. Dobbiamo risolvere l’enigma delle rivoluzioni proletarie e delle loro ripetute tragedie: come scrollarsi di dosso la polvere e vincere la scommessa? Come può una classe fisicamente e moralmente menomata nella sua vita quotidiana dalla schiavitù involontaria del lavoro salariato trasformarsi nel soggetto universale dell’emancipazione umana? Le risposte di Marx a questa questione rappresentano una scommessa sociologica – lo sviluppo industriale conduce all’incremento numerico e alla concentrazione della classe lavoratrice, le quali a loro volta conducono al progresso nella sua organizzazione e coscienza. La logica stessa del capitale conduce alla “costituzione del proletariato in classe dirigente”. La prefazione di Engels all’edizione del 1890 del Manifesto comunista conferma quest’affermazione: “Per quanto riguarda il trionfo finale delle idee sostenute nel Manifesto, Marx contava solamente ed esclusivamente sullo sviluppo intellettuale della classe lavoratrice, derivante necessariamente dall’azione unitaria e dalla discussione”. L’illusione secondo la quale la concessione del suffragio universale avrebbe permesso al proletariato inglese, che rappresentava la maggioranza della società, di adeguare la rappresentanza politica alla realtà sociale deriva da questa scommessa. Nello stesso spirito, nel suo commento del 1898 al Manifesto, Antonio Labriola ha espresso il punto di vista che l’auspicata unione dei comunisti e del proletariato fosse un fatto compiuto sin da subito. L’emancipazione del proletariato sarebbe derivata necessariamente da questo sviluppo sociale.

La storia convulsa dell’ultimo secolo mostra che non possiamo fuggire facilmente dallo stregato mondo delle merci e dai suoi dei assetati di sangue. L’importanza attuale di Lenin risulta necessariamente da quest’affermazione. Se la politica oggi continua ad avere una possibilità di evitare il doppio pericolo di una naturalizzazione dell’economia e di un fatalismo storico, questa possiblità ha bisogno di un nuovo gesto leninista nelle nuove condizioni della globalizzazione imperiale. Il pensiero politico di Lenin è quello della politica come strategia, del momento propizio e degli anelli deboli.

Il tempo “omogeneo e vuoto” del progresso meccanico, privo di crisi e interruzioni, non è un tempo politico. L’idea sostenuta da Kautsky di un’ “accumulazione passiva di forze” appartiene a questa concezione del tempo. Versione primitiva della forza calma, questo “socialismo fuori del tempo” e a velocità di tartaruga dissolve le incertezze della lotta politica nelle leggi conclamate dell’evoluzione storica.

Lenin, al contrario, pensa la politica come un tempo pieno di lotte, un tempo di crisi e crolli. Per lui la specificità della politica è espressa nel concetto di crisi rivoluzionaria, che non è la continuazione logica di un “movimento sociale”, ma una crisi generale delle relazioni reciproche tra tutte le classi nella società. La crisi è allora definita come “crisi nazionale”. Essa mette a nudo le linee di conflitto che sono state oscurate dalla fantasmagoria mistica delle merci. Solo allora, e non in virtù di una presunta maturazione storica, il proletariato può essere trasformato e “diventare ciò che è”.

La crisi rivoluzionaria e la lotta politica sono quindi strettamente legate. “La coscienza di sé che può avere la classe lavoratrice è legata indissolubilmente a una precisa conoscenza delle relazioni reciproche tra tutte le classi nella società contemporanea, una conoscenza non solo teorica, al contrario bisognerebbe dire che è meno teorica che fondata sull’esperienza della politica”. Solo attraverso il test della pratica politica, infatti, questa conoscenza dei rapporti reciproci tra le classi può essere acquisita. Essa trasforma la “nostra rivoluzione” in una “rivoluzione per tutto il popolo”.

Si tratta di un approccio del tutto opposto a un operaismo rozzo, che riduce il politico al sociale. Lenin rifiuta categoricamente di confondere la questione delle classi con quella dei partiti. La lotta di classe non si riduce all’antagonismo tra il lavoratore e il suo padrone. Mette a confronto il proletariato con l’intera classe capitalista sul livello del processo della produzione capitalista come intero, che costituisce l’oggetto della ricerca nel III Libro del Capitale. Per questo motivo, inoltre, è perfettamente logico che il capitolo incompiuto sulle classi di Marx arrivi precisamente a questo punto e non nel I Libro sul processo produttivo o nel II sul processo di circolazione. In quanto partito politico, la socialdemocrazia rivoluzionaria rappresenta quindi la classe lavoratrice non solo nella sua relazione con un gruppo di datori di lavoro, ma anche con “tutte le classi della società contemporanea, con lo Stato come forza organizzata”4.

Il tempo del momento propizio nella strategia leninista non è quello delle Penelopi e delle Danaidi elettorali, il cui lavoro è costantemente fatto e disfatto, ma quello che dà un ritmo alla lotta ed è sospeso dale crisi – il tempo del momento opportuno e della singola congiuntura, dove necessità e contingenza, atto e processo, storia ed evento sono intrecciati. “Non dobbiamo immaginarci la rivoluzione come un atto singolo: la rivoluzione sarà una rapida successione di esplosioni più o meno violente, che si alterneranno con fasi più o meno calme. Per questo motivo l’attività essenziale del nostro partito, il fulcro della sua attività, deve essere un lavoro possibile e necessario sia in periodi di violentissime esplosioni sia in quello calma, cioè un lavoro di agitazione politica unificata per tutta la Russia”.

Le rivoluzioni hanno il loro ritmo, segnato da accelerazioni e rallentamenti. Hanno la loro geometria, nella quale la linea dritta è interrotta da biforcazioni e svolte improvvise. Il partito appare così in una nuova luce. Per Lenin, non è più il risultato di un’esperienza di accumulazione, né l’insegnante modesto il cui compito è di risollevare il proletariato dalle tenebre dell’ignoranza all’illuminazione della ragione. Esso diventa un operatore strategico, una specie di scatola del cambio della lotta di classe. Come Walter Benjamin aveva chiaramente riconosciuto, il tempo strategico della politica non è il tempo vuoto e omogeneo della meccanica classica, ma un tempo spezzato, pieno di nodi e di grembi gravidi di eventi.

Senza alcun dubbio, nella formazione del pensiero di Lenin c’è un intreccio di continuità e rotture. La maggiore rottura (che non è una “rottura epistemologica”) può essere collocata nel 1902, attorno a Che fare? e a Un passo avanti, o di nuovo nel 1914-1916, quando era necessario ripensare l’imperialismo e lo Stato all’ombra della guerra e ritrovando di nuovo il filo della logica hegeliana. Allo stesso tempo, da Lo sviluppo del capitalismo in Russia, un’opera fondativa, in poi, Lenin stabilirà l’impalcatura che gli permetterà successivamente di operare correzioni teoriche e aggiustamenti strategici.

I dibattiti nel corso dei quali fu definito il bolscevismo sono un’espressione di questa rivoluzione nella rivoluzione. Delle polemiche del Che fare? e di Un passo avanti, due indietro, i testi classici conservano l’idea di un’avanguardia centralizzata con una disciplina militare. La questione reale è altrove. Lenin lotta contro la confusione, che egli descrive come “disorganizzante”, tra il partito e la classe. Operare una distinzione tra di essi trova il suo contesto nelle grandi controversie allora in corso nel movimento socialista e in particolare in Russia. Si oppone alle correnti populiste, economiciste e mensceviche, che a volte convergono nel difendere il “socialismo puro”. L’apparente intransigenza di questa ortodossia formale esprime di fatto l’idea che la rivoluzione democratica deve essere una tappa necessaria sulla strada dell’evoluzione storica. Si presupponeva che, mentre aspettava di rafforzarsi e di raggiungere la maggioranza sociale ed elettorale, il nascente movimento operaio dovesse lasciare il ruolo di direzione alla borghesia e accontentarsi di agire in supporto della modernizzazione capitalista. Questa fiducia nella direzione della storia, nella quale ogni cosa sarebbe giunta al momento dovuto per coloro che lo attendevano, esprime le posizioni orotodosse di Kautsky nella Seconda Internazionale: dobbiamo avanzare pazientemente lungo la “strada per il potere” finché il potere non cadrà come un frutto maturo.

D’altra parte, per Lenin è l’obiettivo a orientare il movimento; la strategia consegue il primato sulla tattica, la politica sulla storia. Per questo è necessario delimitare se stessi prima di unirsi e, per unirsi, utilizzzare ogni manifestazione di scontento ed elaborare sino ai minimi elementi di una protesta, foss’anche embrionale. In altre parole, concepire la lotta politica come molto più ampia e complessa della lotta economica dei lavoratori contro i padroni e il governo. Così, quando Raboceie Dielo deduce gli obiettivi politici dalla lotta economica, Lenin lo critica per il fatto di abbassare il livello dell’attività politica multiforme del proletariato. È illusorio pensare che il movimento della classe operaia, da solo, sia capace di elaborare da sé un’ideologia indipendente. Il mero sviluppo spontaneo del movimento operaio, al contrario, conduce alla subordinazione all’ideologia borghese. Per l’ideologia dominante non si tratta della manipolazione della coscienza, ma del risultato oggettivo del feticismo delle merci. Si può sfuggire alla sua morsa d’acciaio e alla sua schiavitù forzata solo attraverso la crisi rivoluzionaria e la lotta politica dei partiti. Questa, infatti, è la risposta di Lenin all’enigma irrisolto di Marx.

In Lenin ogni cosa conduce alla concezione della politica come l’irruzione grazie alla quale ciò che era assente diventa presente: “La divisione in classi è certamente, in ultima istanza, la base più profonda per i raggruppamenti politici”, ma quest’ultima opzione “è stabilita solo dalla lotta di classe”. Così “il comunismo erompe letteralmente da tutti i punti della lotta sociale: fiorisce decisamente da ogni dove. Se uno degli sbocchi è completamente bloccato, allora il contagio ne troverà un altro; a volte il più inatteso. Per questo non possiamo sapere “quale scintilla appiccherà il fuoco”.

Da qui lo slogan che secondo Tucholskij sintetizza la politica leninista: “Essere pronti!” Pronti per l’improbabile, per l’inatteso, per l’evento. Quando Lenin descrive la politica come “economia concentrata”, questa concentrazione significa un cambiamento qualitativo a partire dal quale la politica conseguirà necessariamente il primato sull’economia. Sostenendo la fusione tra i punti di vista politico ed economico, Bucharin, invece, “sta scivolando” verso l’ecletticismo”. Allo stesso modo, nella sua polemica del 1921 contro l’Opposizione operaia, Lenin critica questo “nome sventurato” che riduce il politico al sociale e che sostiene che la direzione dell’economia nazionale dovrebbe essere affidata direttamente ai “produttori raggruppati insieme in sindacati di produttori”, che arriverebbe a ridurre la lotta di classe al confronto tra interessi settoriali privi di sintesi.

La politica, al contrario, ha un linguaggio, una grammatica e una sintassi proprie. Nella sfera politica, la lotta di classe trasfigurata ha “la sua più piena, più rigorosa e più definita espressione nella lotta tra i partiti”. Derivando da un registro specifico, non riducibile alle sue determinazioni immediate, il discorso politico è più vicino all’algebra che all’aritmetica. La sua necessità appartiene a un ordine differente, “molto più complesso”, di quello delle rivendicazioni sociali direttamente legate alla relazione di sfruttamento. Contrariamente a ciò che immagina il “marxista volgare”, la politica non segue pedissequamente l’economia”. Il modello ideale del militante rivoluzionario non è il sindacalista dall’orizzonte limitato, ma “il tribuno del popolo” che soffia sulla brace della sovversione in tutte le sfere della società.

Al “leninismo”, o piuttosto al “leninismo” stalinizzato edificato come un’ortodossia di Stato, viene spesso attribuita la responsabilità del dispotismo burocratico. Si crede che nella nozione di partito di avanguardia, separato dalla classe, siano contenuti i germi della sostituzione dell’apparato al movimento sociale reale e di tutti i gironi dell’inferno burocratico. Tuttavia, per quanto ingiusta possa essere, quest’accusa solleva una difficoltà reale. Se il politico non è identico al sociale, la rappresentazione dell’uno da parte dell’altro diventa necessariamente problematica: su cosa può basarsi la sua legittimità?

In Lenin esiste una forte tentazione di risolvere la contraddizione supponendo un adeguamento tendenziale tra rappresentanti e rappresentati, culminante nel deperimento dello Stato politico. Le contraddizioni della rappresentanza, che non consente nessun depositario esclusivo ed è messa costantemente in discussione dalla pluralità delle forme costituenti, sono allo stesso tempo eliminate. Quest’aspetto della questione rischia di coprirne un altro, non meno importante, nella misura in cui Lenin non sembra riconoscere la piena portata della sua innovazione. Pensando di star parafrasando un testo canonico di Kautsky, egli lo distorce in maniera decisiva. Kautsky aveva scritto che la “scienza” arriva al proletariato dall’esterno della lotta di classe, portata dagli “intellettuali borghesi”. Con uno straordinario scivolamento semantico, Lenin traduce che la “coscienza politica di classe” (anziché la “scienza”) giunge “dall’esterno della lotta economica” (anziché dall’esterno della lotta di classe, che è tanto politica quanto sociale!)5, portata non più dagli intellettuali come categoria sociale, ma dal partito in quanto soggetto che struttura in modo specifico il campo politico. La differenza è di sostanza.

Una tale insistenza sul linguaggio della politica, nel quale la realtà sociale si manifesta attraverso un gioco continuo di spostamenti e condensazioni, dovrebbe condurre logicamente a un pensiero della pluralità e della rappresentanza. Se il partito non è la classe, la classe stessa dovrebbe essere rappresentata politicamente da una pluralità di partiti che esprimano le sue differenze e contraddizioni. La rappresentanza del sociale nel poitico dovrebbe allora diventare l’oggetto di un’elaborazione istituzionale e giuridica. Lenin non arriva così lontano. Uno studio dettagliato, che andasse oltre le dimensioni di questo articolo, delle sue posizioni sulla questione nazionale, sulla questione dei sindacati nel 1921, e sulla democrazia nel 1917 ci consentirebbe di appurarlo.

Così egli sottomette la rappresentanza alle regole ispirate dalla Comune di Parigi, miranti a limitare la professionalizzazione politica: i rappresentanti eletti devono ricevere uno stipendio uguale a quello di un operaio qualificato, una vigilanza costante sui favori e i privilegi dei funzionari, la responsabilità degli eletti di fronte a coloro che gli hanno eletti. Contrariamente a un mito persistente, egli non difese il mandato imperativo. Sia in seno al partito: “i poteri dei delegati non devono essere limitati dal mandato imperativo”; nell’esercizio dei loro poteri “sono completamente liberi e indipendenti”; il congresso o l’assemblea sono sovrani. Sia per quanto riguarda gli organismi statali, dove “il diritto di revocare i deputati” non deve essere confuso con il mandato imperativo, che ridurrebbe la rappresentanza a una sommatoria di interessi particolari e limitati punti di vista locali, senza alcuna possibilità di sintesi, il che priverebbe la decisione democratica di ogni sostanza e rilevanza.

Per quanto riguarda la pluralità, Lenin affermò continuamente che “la lotta tra opinioni differenti” nel partito è inevitabile e necessaria, nella misura in cui ha luogo entro confini “decisi di comune accordo”. Egli sosteneva “che è necessario includere nelle regole del partito la garanzia dei diritti delle minoranze, in modo tale che le insoddisfazioni, le irritazioni e i conflitti che si prsenteranno costantemente e inevitabilmente possano essere allontanate dagli abituali costumi filistei dello scandalo e delle polemiche meschine verso il canale ancora inabituale di una lotta regolare e degna per le proprie convinzioni. Tra queste garanzie, noi proponiamo che la minoranza l’ottenimento di uno o più gruppi letterari, con il diritto di essere rappresentati al congresso e con completa libertà di espressione”.

Se la politica è una questione di scelte e decisioni, essa implica una pluralità organizzata. Si tratta di una questione di principi organizzativi. Le forme organizzative possono variare a seconda delle circostanze concrete, a condizione di non perdere le linee guida nel labirinto delle opportunità. Allora anche la nota disciplina nell’azione appare meno sacra di quanto vorrebbe il mito aureo del leninismo. Si sa come Zinoviev e Kamenev si resero colpevoli di rottura della disciplina rendendo pubblica la loro opposizione all’insurrezione e nonostante ciò non furono rimossi in maniera permanente dalle loro responsabilità. Lo stesso Lenin, in circostanze estreme, non esitò a rivendicare un diritto personale a disobbedire al partito. Così egli decise di dimettersi dalle proprie cariche per avere “la libertà di fare propaganda” nella base del partito. Nel momento critico della decisione, egli scrisse senza mezza termini al Comitato centrale: “Sono andato dove non volete che io vada [allo Smolny, sede dei soviet]. Arrivederci”.

La sua stessa logica lo spinge a pensare la pluralità e la rappresentanza in un paese senza tradizioni parlamentari o democratiche. Ma Lenin non va sino in fondo. Ci sono (almeno) due ragioni per questo. La prima è che egli ereditava dalla Rivoluzione francese l’illusione che una volta che l’oppressore fosse stato rimosso, l’omogeneizzazione del popolo (o della classe) sarebbe stata solo una questione di tempo: le contraddizioni in seno al popolo sarebbero giunte solo dall’altro (lo straniero) o dal tradimento. La seconda è che la distinzione tra politico e sociale non è una garanzia contro un ribaltamento fatale: anziché andare verso la socializzazione della politica, la dittatura può significare la stratificazione burocratica del sociale. Non fu lo stesso Lenin a predire “l’estinzione della lotta tra i partiti nei soviet?”

In Stato e Rivoluzione i partiti perdono la loro funzione in favore di una democrazia diretta, che non sarebbe più uno Stato separato. Ma, contrariamente alle speranze iniziali, la stratificazione della società prevalse sulla socializzazione delle funzioni dello Stato. Assorbiti dal pericolo principale dell’accerchiamento militare e della restaurazione capitalista, i rivoluzionari non hanno visto crescere sotto i loro piedi il pericolo non meno grave della controrivoluzione burocratica. Paradossalmente, i punti deboli sono legati tanto, o anche più, alle sue inclinazioni libertarie quanto alle sue tentazioni autoritarie, come se un legame segreto unisse le due.

La crisi rivoluzionaria appare come il momento critico del possibile scioglimento, in cui la teoria diventa strategia:

La storia in generale e la storia delle rivoluzioni in particolare sono più ricche di contenuto, più varie, più multilaterali, più vive, più “astute” di quanto immaginino i partiti migliori, le avanguardie più coscienti delle classi più avanzate. E la cosa si capisce, perché le migliori avanguardie esprimono la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini, ma la rivoluzione viene realizzata in un momento di slancio eccezionale e di straordinaria tensione di tutte le facoltà umane, viene ralizzata dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di varie decine di milioni di uomini, spronati dalla più aspra lotta di classe. Derivano di qui due conclusioni pratiche molto importanti: la prima è che la classe rivoluzionaria, per assolvere il suo compito, deve sapersi impadronire di tutte le forme o di tutti i lati dell’attività sociale, senza eccezione alcuna (portando a termine, dopo la conquista del potere politico, e talvolta con grande rischio e con grave pericolo, ciò che non è riuscita a realizzare in precedenza); la seconda conclusione è che la classe rivoluzionaria deve essere pronta a sostituire nel modo più rapido e inatteso una forma di attività con l’altra.6Da questo Lenin deduce la necessità di essere disponibili all’inatteso, in cui si rivela la verità nascosta dei rapporti sociali:

Non sappiamo né possiamo sapere quale scintilla – tra le moltissime scintilla che si sprigionano attualmente in tutti i paesi sotto l’influsso della crisi economica e politica mondiale – farà scoppiare l’incendio, nel senso di un eccezionale risveglio delle masse, e siamo quindi tenuti a metterci “al lavoro” con i nostri principi nuovi, comunisti, in tutti i campi, di qualsiasi genere, anche nei più vecchi, aridi e apparentemente infecondi, perché altrimenti non saremo all’altezza del compito, non saremo onnilaterali, non padroneggeremo tutti i tipi di armi (…).7Coltivare tutti i terreni! Stare all’erta per le soluzioni più imprevedibili! Rimanere pronti per gli improvvisi cambi di forma! Sapere come usare tutte le armi! Questi sono i principi di una politica concepita come arte dell’inatteso e delle possibilità effettive di una congiuntura determinate.

Questa rivoluzione nella politica ci riporta alla nozione di crisi rivoluzionaria sistematizzata in Il fallimento della Seconda internazionale. Essa è definita come un’interazione tra diversi elementi variabili in una situazione: quando quelli in alto non possono più governare come prima; quando quelli in basso non sopportano più di essere oppressi come lo erano prima; e quando questa doppia impossibilità è espressa da un’improvvisa effervescenza delle masse. Adottando questi criteri Trotskij afferma nella sua Storia della rivoluzione russa che queste premesse si condizionano reciprocamente. Più il proletariato agisce con decisione e sicurezza, maggiori possibilità ha di trascinare dietro di sé gli strati intermedi, più isolata sarà la classe dirigente e più acuta la sua demoralizzazione. D’altro lato, una demoralizzazione delle classi dirigenti porterà acqua al mulino della classe rivoluzionaria. Ma le crisi non garantiscono le condizioni della propria risoluzione. Per questo motivo, per Lenin l’intervento di un partito rivoluzionario è il fattore decisivo in una situazione critica: “La rivoluzione non sorge da ogni situazione rivoluzionaria; le rivoluzioni emergono solo da situazioni in cui ai cambiamenti oggetti summenzionati si accompagna un cambiamento soggettivo, cioè, la capacità della classe rivoluzionaria di condurre un’azione di massa abbastanza forte da spezzare il vecchio governo, che on cadrà mai, anche in momenti di crisi, se non lo si farà cadere”. La crisi può essere risolta solo o dalla disfatta, per mano di una reazione spesso feroce, o dall’intervento di un soggetto risoluto.

È questa l’interpretazione del leninismo in Storia e coscienza di classe di Lukacs. Già nel Quinto Congresso dell’Internazionale Comunista questa gli valeva l’anatema del bolscevismo termidoriano. Lukacs infatti insisteva sul fatto che solo la coscienza di classe può indicare la strada per uscire dall’impasse del capitalismo. Finché mancherà questa coscienza, la crisi rimarrà permanente, tornerà al punto di partenza, ripeterà il suo ciclo. Lukacs insisteva sul fatto che la differenza tra “crisi finale” del capitalismo e le sue crisi precedenti non risiede in un’estenzione e in un’intensità delle crisi in quanto tali. Questi cambiamenti quantitativi sono soltanto sintomatici di differenze fondamentali nella qualità che distinguono queste crisi le une dalle altre… A queste affermazioni faceva eco Trotskij nel 1930, quando di fronte alla reazione nazista e stalinista riconduceva la crisi dell’umanità alla crisi della sua direzione rivoluzionaria.

La strategia è un calcolo di massa, velocità e tempo, scriveva Chateaubriand. Per Sun Tzu, l’arte della guerra era già l’arte del cambiamento e della velocità. Quest’arte esigeva di acquisire la “prontezza della lepre” e di “prendere prontamente le decisioni”, perché è provato che la vittoria più famosa avrebbe potuto mutarsi in disfatta, se la battaglia fosse stata mossa un giorno prima o qualche ora dopo. La regola di condotta che deriva da ciò è valida tanto per i politici quanto per i militari: non lasciarsi sfuggire nessuna occasione propizia. I cinque elementi non sono dappertutto né egualmente puri. Le quattro stagioni non si succedono alla stessa velocità ogni anno; l’alba e il tramonto non sono sempre allo stesso punto dell’orizzonte. Alcuni giorni sono più lunghi e altri più brevi. La luna e crescente o calante e non brilla sempre allo stesso modo. Un’armata ben condotta e ben disciplinata deve saper imitare tutte queste variazioni.

La nozione di crisi rivoluzionaria riprende questa lezione di strategia, politicizzandola. In circostanze eccezionali, l’equilibrio delle forze raggiunge un punto critico. Come scrive Lefebvre, ogni cambiamento dei ritmi produce effetti e conflitti. Disorganizza e turba. Può anche produrre un vuoto nel tempo, che può esserre colmato con un’invenzione, con una creazione. Questo succede, individualmente e socialmente, solo passando attraverso una crisi.8Un vuoto nel tempo? Un momento eccezionale? Da cui può sorgere il fatto non compiuto, che contraddice la fatalità del fatto compiuto.

Nel 1905, Lenin si unisce a Sun Tzu nel suo elogio della prontezza. È necessario, scrive, “iniziare in tempo”, “agire immediatamente”. Formare immediatamente gruppi di lotta, dappertutto. Dobbiamo essere in grado di cogliere al volo questo momenti evanescenti di cui parla Hegel e che costituiscono un’eccellente definizione di dialettica. La rivoluzione in Russia non è il risultato organico della rivoluzione borghese prolungata in rivoluzione proletaria, ma un groviglio di due rivoluzioni. Evitare il probabile disastro dipende da un senso acuto del momento. Una particolare istruzione valida ieri può non esserlo oggi, ma esserlo di nuovo domani. Sino al 4 luglio 1917 lo slogan “Tutto il potere ai soviet” era corretto. Dopo non lo fu più: “In questo momento, solo in questo momento, forse per pochi giorni al massimo o per una settimana o due, un governo di questo genere potrebbe sopravvivere…”

Pochi giorni! Una settimana! Il 29 settembre 1917 Lenin scrisse all’esitante Comitato centrale: “La crisi è matura”. Aspettare stava diventando un crimine. L’1 ottobre egli spingeva a prendere il potere senza indugi, a passare all’insurrezione. Qualche giorno dopo sosteneva di nuovo: “Sto scrivendo queste righe l’8 ottobre… Il successo della rivoluzione russa e mondiale dipende da due o tre giorni di lotta”. Continuava a insistere “Sto scrivendo queste righe la sera del 24. La situazione è estremamente critica. Infatti, ora è assolutamente chiaro che ritardare l’insurrezione sarebbe fatale… Tutto si regge su un capello”. È necessario agire “stasera, stanotte”.

“Rotture nella gradualità” annotava Lenin a margine della Scienza della logica di Hegel all’inizio della Guerra. E affermava, “la gradualità non spiega niente senza I salti. Salti! Salti! Salti!”

Tre brevi osservazioni per concludere sulla rilevanza di Lenin oggi. Il suo pensiero strategico definisce una prontezza all’agire in relazione a qualunque evento possa accadere. Ma questo evento non è l’Evento assoluto, venuto dal nulla, che alcuni hanno menzionato in riferimento all’11 Settembre. Esso è collocato in condizioni di possibilità storicamente determinate. Questo lo distingue dal miracolo religioso. Così la crisi rivoluzionaria del 1917 e la sua risoluzione attraverso l’insurrezione diventa pensabile strategicamente sulla base dell’impalcatura tracciata da Sviluppo del capitalismo in Russia. Questa relazione dialettica tra necessità e contingenza, struttura e interruzione, storia ed evento, pone le basi per la possibilità di una politica organizzata sulla durata mentre la scommessa volontaristica sull’improvvisa irruzione di un evento che possa permetterci di resistere all’aria dei tempi conduce generalmente a un atteggiamento di resistenza estetica, piuttosto che all’impegno militante a modificare pazientemente il corso delle cose.

Per Lenin, come per Trotskij la crisi rivoluzionaria si forma e ha inizio nell’arena nazionale, che allo stesso tempo costituisce la base della lotta per l’egemonia, e prenderà il suo posto nel contesto della rivoluzione mondiale. La crisi in cui si realizza il dualismo di poteri, tuttavia, non si reduce a una crisi economica o a un conflitto immediato tra forza lavoro e capitale nel processo produttivo. La questione leninista – chi la spunterà? – è quella della direzione politica: quale classe sarà capace di risolvere le contraddizioni che stanno soffocando la società, di imporre un’alternativa logica a quella dell’accumulazione del capitale, di trascendere i rapporti di produzione esistenti e aprire un nuovo spettro di possibilità? La crisi rivoluzionaria, quindi, non è una semplice crisi sociale, ma una crisi nazionale: in Russia come in Germania, in Spagna come in Cina. La questione oggi è senza dubbio più complessa nella misura in cui la globalizzazione capitalista ha rafforzato la sovrapposizione degli spazi nazionali, continentali e mondiali. Una crisi rivoluzionaria in un paese di importanza strategica avrebbe immediatamente una dimenzione internazionale e richiederebbe risposte in termini sia nazionali che continentali, o anche direttamente globali su questioni come l’energia, l’ecologia, gli armamenti, i movimenti migratori, ecc. Credere di poter eludere queste difficoltà eliminando la questione della conquista del potere politico (con il pretesto che il potere oggi ha ormai perso il legame con un territorio determinato ed è diffuso dappertutto) in favore di una retorica dei “contropoteri” rimane un’illusione. I poteri economici, militari e culturali sono forse diffusi in maniera più ampia, ma sono anche più concentrati che mai. Puoi pretendere di ignorare il potere, ma il potere non ignorerà te. Puoi sentirti superiore rifiutando di prenderlo, ma dalla Catalonia del 1937 al Chiapas, passando per il Cile, l’esperienza mostra sino ai giorni nostri che esso non esiterà a prendere te nel modo più brutale. In una parola: la strategia del contro potere ha un significato solo nella prospettiva del dualismo di poteri e della sua risoluzione. Chi la spunterà?

Infine, i detrattori spesso identificano il “leninismo” e Lenin stesso con una forma storica del partito politico, che si dice sia morta insieme al crollo dello stato-partito burocratico. In questo giudizio affrettato ci sono molta ignoranza storica e leggerezza politica, che possono essere spiegate solo parzialmente con il trauma delle pratiche dello stalinismo. L’esperienza del secolo passato pone la questione della burocratizzazione come fenomeno sociale piuttosto che in termini di forma del partito d’avanguardia ereditata dal Che fare? e le organizzazioni di massa (non solo quelle politiche, ma anche i sindacati e le associazioni) non sono certo le meno burocratiche: in Francia il caso della CFDT, del Partito socialista, del Partito comunista, o dei Verdi sono assolutamente eloquenti. Ma, d’altro lato – come abbiamo accennato – nella distinzione leninista tra partito e classe ci sono alcune piste fertili per pensare la relazione tra movimenti sociali e rappresentanza politica. Ugualmente, nei principi del centralismo democratico, screditati in modo superficiale, i detrattori sottolineano in primo luogo l’ipercentralismo esemplificato dal sinistro modello dei partiti stalinisti. Ma un certo grado di centralizzazione, lungi dall’essere opposto alla democrazia, è una condizione essenziale per la sua esistenza – perché la delimitazione del partito è uno strumento per resistere agli effetti di decomposizione dell’ideologia dominante, e dunque per mirare a una certa uguaglianza tra i membri, contro le ineguaglianze che sono generate inevitabilmente dalle relazioni sociali e dalla divisione del lavoro. Oggi possiamo vedere molto bene come la debolezza di questi principi, lungi dal favorire una forma più alta di democrazia, porti alla cooptazione da parte dei media e alla legittimazione plebiscitaria di leader che sono sempre meno controllati dalla base. Inoltre, la democrazia in un partito rivoluzionario ha il fine di produrre decisioni assunte collettivamente per agire sui rapporti di forza. Quando i detrattori superficiali del leninismo affermano di essersi liberati da una disciplina opprimente, nei fatti stanno svuotando la discussione di tutta la sua rilevanza, riducendola a un forum di opinioni che non vincola nessuno: dopo uno scambio di opinioni senza una decisione comune, ognuno può andarsene come è venuto e non c’è nessuna pratica condivisa che consenta di mettere alla prova la validità delle posizioni opposte che si stavano discutendo. Infine, in particolare i burocrati riciclati dagli ex partiti comunisti sottolineano la crisi della forma partito, spesso per evitare di parlare della crisi di contenuto programmatico e per giustificare l’assenza di preoccupazioni strategiche.

Una politica senza partiti (qualunque nome si dia loro: movimento, organizzazione, lega, partito) finisce nella maggior parte dei casi come una politica senza politica: o un codismo senza scopo nei confronti della spontaneità dei movimenti sociali o la peggiore forma di avanguardismo individualistico elitario o infine una rimozione del politico a vantaggio dell’estetico o dell’etico.

Erre n° 25 settembre-ottobre 2007
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Documents joints

  1. H Arendt, Was ist Politik? (Munich, 1993), pp. 28, 31.
  2. F Furet, The Passing of an Illusion (Chicago, 1999), p. 502.
  3. H Arendt, op. cit, p. 146.
  4. Lenin, Che fare?, in Opere, vol. 5, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 370.
  5. Lenin, Che fare?, cit., p. 389.
  6. Lenin, <em>L’“estremismo” malattia infantile del comunismo</em>, in <em>Opere</em>, vol. 31, Roma, Editori Riuniti 1967, p. 87.
  7. Ibid., p. 89.
  8. Henri Lefebvre, Eléments de rythmanalyse, Paris, Syllepses,1996.

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