Gli studenti francesi contre la precarieta’

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Cinzia Arruzza: La mobilitazione contro il Cpe è la terza forte mobilitazione sociale in Francia nel corso di un anno: pensi che si possa parlare di una nuova ondata di lotte sociali?

Daniel Bensaïd: Ci sono diversi modi possibili per periodizzare il movimento sociale in Francia. Ad esempio, gli scioperi dell’autunno 1995 contro la riforma dello stato sociale e per la difesa dei servizi pubblici segnano senza alcun dubbio una data cruciale nella resistenza alle controriforme liberiste. Se questa lotta non è riuscita a impedire l’applicazione della riforma, ha, però, portato alla caduta differita (un anno dopo) del governo Juppé. Inoltre, si inscriveva in un movimento più generale di opposizione crescente alle politiche liberiste, che a partire dal 1999 si è espresso nel movimento altermondialista.

Una nuova sequenza si mostra a partire dalle elezioni presidenziali del 2002 e con l’hold-up che in quel momento Jacques Chirac è riuscito a realizzare, facendosi eleggere al secondo turno, grazie alla paura di Le Pen, con uno score alla Lukashenko (82% dei voti !), mentre aveva raccolto solo il 18% al primo turno! Ne sono risultati una maggioranza e un presidente con una legittimità molto debole e tuttavia molto brutali nell’applicazione delle riforme liberiste. Così, nel 2003 c’è stata una grande mobilitazione contro la riforma delle pensioni (con uno sciopero degli insegnanti durato diverse settimane), ma questo movimento è stato battuto. Da due anni sono in campo lotte locali contro la delocalizzazione e le privatizzazioni, ma la maggior parte di esse è andata incontro a sconfitte (ad esempio, diversi scioperi duri a Marsiglia lo scorso autunno). Piuttosto che di una nuova ondata di lotte, si potrebbe parlare di un inasprimento delle resistenze sociali, ma il futuro sarà sicuramente segnato dalla vittoria della lotta contro il Cpe.

Il governo sapeva bene che se fosse riuscito a tener duro nonostante questa mobilitazione, l’orizzonte sarà libero per lo smantellamento ancora più sistematico del codice del lavoro, per la precarizzazione generalizzata, l’inasprimento della legislazione discriminatoria sull’immigrazione, ecc. Al contrario, con questo passo indietro, le riforme liberiste saranno bloccate sino alle elezioni presidenziali del 2007 e il clima sarà tale che anche in caso di vittoria della sinistra social-liberista, questa farà fatica a trovare dei margini di manovra, in un rapporto di forza meno sfavorevole al movimento sociale.

Cinzia Arruzza: Credi che ci sia la possibilità di creare dei legami tra le differenti lotte sociali? E se si, come? La relazione tra studenti e giovani delle banlieues è sembrata spesso complessa…

Daniel Bensaïd: È più che una possibilità. Questi legami esistono già. Ed è abbastanza logico, dal momento che la questione del contratto di prima assunzione (Cpe) illustra e cristallizza la precarizzazione generalizzata del lavoro in differenti forme e a differenti livelli. Per questo motivo, la mobilitazione comune giovani/lavoratori non deriva questa volta da una “solidarietà” esterna dei secondi rispetto ai primi, ma da una causa comune. Questo spiega anche la partecipazione degli insegnanti al movimento – partecipazione e non solidarietà – o il sostegno delle principali organizzazioni di genitori alle manifestazioni, e addirittura alle occupazioni e ai blocchi degli edifici scolastici. Contrariamente a ciò che sostiene la grande menzogna governativa, il Cpe non è una risposta mirata al sollevamento delle banlieues del novembre scorso, destinata ad aprire il mercato del lavoro ai giovani più esclusi e meno dotati di capitale scolastico. Esso non è, in effetti, che il fratello gemello del contratto di nuova assunzione (Cne), destinato ai disoccupati e messo in campo in fretta e furia, durante le vacanze, nell’agosto 2005, nel corso della marcia accelerata dei primi 100 giorni del governo Villepin. Il carattere improvviso della riforma e il peso della disoccupazione e della precarietà hanno fatto sì che all’epoca non avesse luogo alcuna risposta; ma i sindacati hanno capito perfettamente che si trattava di un’offensiva in piena regola contro il codice del lavoro e le garanzie di negoziazione collettiva. Dunque, ci sono una base comune e degli interessi convergenti, anche se essi non sono spontaneamente coscienti in tutti gli attori. È lì che interviene il rapporto tra studenti e giovani delle banlieues. Ma le categorie sono discutibili e la loro opposizione in larga misura artificiale. In primo luogo dal punto di vista sociologico. La grande maggioranza dei giovani detti “delle banlieues” sono anche studenti come gli altri, che manifestano e occupano i loro licei o le facoltà (per esempio, nella mia università, Paris VIII, che si trova nel 93 arrondissement – divenuto emblematico dei dipartimenti della desolazione). Il governo ha parlato molto di “mescolanza sociale” dopo il sollevamento di novembre. Praticamente, questa retorica non ha portato che a una promozione omeopatica di figure provenienti da ciò che ormai, nei discorsi ufficiali, viene chiamato “la minoranza visibile”: un ministro delle “pari opportunità” d’origine maghrebina, un “prefetto musulmano” nominato da Sarkozy, un presentatore intermittente della televisione antillese… La vera mescolanza sociale si trova al contrario nella “maggioranza invisibile” dei manifestanti, nella strada, nelle aule. È sufficiente osservare gli spezzoni delle scuole di banlieue.

Allora, l’opposizione tra facoltà e banlieues (o tra veri studenti e casseurs) è una costruzione discorsiva del potere e dei media. Così, il famoso ministro alle pari opportunità (i giovani di banlieue l’hanno battezzato “il fayot della Repubblica”) ha scritto il 17 marzo un intervento scandaloso sul quotidiano Liberation: “A novembre si è domandato ai giovani delle banlieues di rispettare la legge francese. I loro atti di distruzione sono stati severamente sanzionati. Ecco perché questi stessi giovani non potrebbero comprendere come mai gli studenti hanno, loro sì, il potere di cambiare una legge con cui non sono d’accordo, occupando le università e la strada”.

Dunque, bisogna essere chiari sulle proporzioni. La grande maggioranza dei giovani detti di banlieue ha fatto parte del movimento anti-Cpe, come gli altri. Ci può essere una minoranza, infima, (qualche centinaia rispetto a centinaia di migliaia di manifestanti) che ha aggredito le manifestazioni (spontaneamente o no). Là bisogna distinguere tra resistenze legittime e violenze strutturali della società, la brutalità di Stato, le violenze quotidiane di grado diverso (dalla persecuzione poliziesca alla persecuzione morale, passando per le umiliazioni quotidiane). Per questo abbiamo sostenuto in modo incondizionato la rivolta delle banlieues. Essa era legittima, di fronte alle molteplici forme di segregazione (sociale, spaziale, scolastica, razziale), anche se le sue forme e la sua efficacia potevano essere a volte discutibili. Ma per poter discutere, bisognava in primo luogo sostenere e comprendere prima di giudicare. Così, se alcune violenze sono state autodistruttrive, dal momento che danneggiavano il vicino della porta accanto o le infrastrutture sociali prese come simboli dell’istituzione statale in generale, è anche questo il prodotto di una situazione. Nel 1968 si voleva bruciare la Borsa, ma oggi, per dei giovani ghettizzati nelle loro periferie, il centro della città è una terra straniera e ostile. Si rivoltano sul territorio che è loro familiare, là dove si sentono di più a casa loro, a rischio di autodistruggere quel poco di infrastrutture sociali e scolastiche che simbolizzano così il loro fallimento.

Allo stesso modo, se dei giovani manifestanti affrontano la polizia, non si tratta necessariamente dei casseurs denunciati dal governo (d’altra parte le comparizioni immediate dei manifestanti arrestati indicano che si tratta sino a quel giorno, nella loro grande maggioranza, di studenti “normali”). E anche se dei giovani, lungo il percorso di una manifestazione, rompono una vetrina per regalarsi degli occhiali da sole che non potrebbero mai permettersi, non è un bene per l’immagine della manifestazione, ma non è niente di drammatico. Al contrario, quando dei gruppi (di qualche decina) aggrediscono i manifestanti negli spezzoni (cosa che si era prodotta già nei movimenti studenteschi del passato), per rubare i loro telefoni, stanno attaccando il diritto di manifestazione, terrorizzano i manifestanti, giocando un ruolo classico di crumiri. Si tratta della piccola frazione tradizionale di sottoproletariato che parassita sul movimento e può, alla bisogna, servire da squadracce per la destra. È senza dubbio l’espressione di una miseria. Ma comprenderlo non lo giustifica.

Cinzia Arruzza: Quali sono le analogie e le differenze tra questo movimento contro il Cpe e altri movimenti studenteschi del passato in Francia? Il ’68 per esempio?

Daniel Bensaïd: Se i media internazionali si interessano alla comparazione tra maggio ’68 e marzo 2006, questo è molto meno vero in Francia, e i giovani mobilitati sembrano piuttosto volersi sbarazzare una volta per tutte del peso invadente dei sessantottini stanchi e dei loro racconti di anziani combattenti. Le similitudini sono più o meno quelle che si ritrovano in tutti i grandi movimenti giovanili da quasi mezzo secolo a questa parte: entusiasmo, coraggio, umorismo, insolenza, immaginazione… Ma le differenze sono ben più importanti delle somiglianze.

La principale riguarda evidentemente il contesto. Nel 1968, noi ci avvicinavamo, senza saperlo, alla fine dei “trenta gloriosi” (più di un quarto di secolo di crescita). Eravamo in una situazione di quasi piena occupazione (meno di 200mila disoccupati, detti “di frizione” – in altri termini, di corta durata – dunque senza grandi inquietudini sull’avvenire. I temi iniziali del movimento erano quelli di una critica della funzione ideologica dell’università e in particolare delle “scienze umane” (ispirata soprattutto dall’esperienza dell’università critica di Berlino), di una critica della società dei consumi e dello spettacolo, di una critica della vita quotidiana (Henri Lefebvre!) e della repressione sessuale, e soprattutto della solidarietà internazionale contro la guerra del Vietnam (la guerra d’Algeria e la rivoluzione cubana avevano segnato l’esperienza di questa generazione), ma anche con gli studenti polacchi in lotta contro la burocrazia. Così la giornata a porte aperte organizzata una settimana dopo la data simbolica del 22 marzo all’università di Nanterre (che non riunì più di 400 o 500 studenti) era organizzata in commissioni su queste questioni internazionali, sulla solidarietà con le lotte operaie che stavano conoscendo una ripresa, e sull’immigrazione. Il movimento si definiva, più come un movimento politico antimperialista, antiburocratico e anticapitalista che come un movimento rivendicativo o sindacale.

Oggi, dopo una ventina d’anni di reazione liberista o “social-liberista”, abbiamo al contrario all’incirca 3 milioni di disoccupati, circa 6 milioni di esclusi o precari, un numero crescente di studenti mangia alle mense per poveri, ci sono lavoratori senza domicilio fisso, e più di un milione di bambini al di sotto della soglia di povertà. In altri termini, il futuro è divenuto oscuro e inquietante: l’80% della popolazione pensa ormai che i bambini conosceranno delle condizioni di vita peggiori e non più migliori dei loro genitori, e il 5% soltanto dei giovani si dice fiducioso rispetto al futuro – contro il 20% in Germania e il 30 % negli Stati Uniti. Il rapporto di forza sociale è dunque fortemente degradato dalla spirale delle sconfitte passate (tra cui quella del 2003 sulle pensioni). Questo spiega anche perchè il movimento studentesco sia stato così massiccio e il collegamento con i sindacati dei lavoratori abbastanza naturale – la precarietà è il destino comune. Sino alla metà degli anni Settanta, i poveri erano concentrati nei settori più anziani e coloro che avevano meno di trent’anni beneficiavano della relativa prosperità dei “trenta gloriosi”. È a partire dal 1975 che il paese ha cominciato a scoprire la disoccupazione di massa, toccando la soglia del milione di disoccupati (contro i 250mila di cinque anni prima). Poi, negli anni Ottanta è cominciata la lunga marcia dei giovani per l’impiego, con la moltiplicazione di “contratti sovvenzionati”, dispositivi di “impiego giovani”, stages. I giovani hanno cominciato a poco a poco a uscire sempre più tardi dal nucleo familiare, ridivenuto una forma elementare di solidarietà e di protezione. È ciò che gli psicologi chiamano “prolungamento della giovinezza” e che è in realtà una dipendenza prolungata. Mentre nel 1984 il 75% dei giovani assunti l’anno successivo alla fine della loro formazione otteneva un contratto di lavoro a tempo indeterminato, oggi non è che il 50%. Lo scarto di remunerazione tra i cinquantenni e i trentenni raggiunge ormai il 40% e il tasso di risparmio degli under 30 è caduto della metà tra il 1995 e il 2001, mentre quello dei quarantenni e dei cinquantenni aumenta.

Inoltre, il controllo dei partiti e dei sindacati tradizionali sui lavoratori è molto minore rispetto al 1968 e la cultura democratica dei movimenti sociali è progredita nel corso delle esperienze dei comitati di sciopero, dei coordinamenti – degli infermieri o dei ferrovieri nelle lotte passate – delle assemblee generali, tanto più che i nuovi mezzi di comunicazione permettono di rompere il monopolio delle direzioni burocratiche centralizzate sulla circolazione dell’informazione.

Cinzia Arruzza: Ci sono altre ragioni che possono spiegare questa maggiore capacità di relazione e legame con i lavoratori e le loro organizzazioni rispetto al ’68?

Daniel Bensaïd: Oltre ai fattori già menzionati, bisogna sottolineare il ruolo delle organizzazioni politiche (principalmente trotskyste e anarchiche) extraparlamentari (definizione che risale al ’68) in rottura con la sinistra governativa tradizionale. Nel 1968, queste correnti erano allo stato embrionale (noi eravamo stati espulsi dal Partito comunista nel ’65-’66 e i maoisti ne erano usciti nel ’67). Praticamente non esistevano nella classe operaia, ma quasi esclusivamente tra gli studenti universitari e delle scuole. Dunque, era facile per le burocrazie riformiste opporre il mondo operaio ai “piccoli borghesi”. Oggi le correnti di opposizione radicale alle politiche liberiste sono radicate tra i lavoratori, influenti nei movimenti sociali e in alcuni sindacati. I loro militanti hanno acquisito una importante esperienza nel corso degli anni. I candidati di estrema sinistra (Lcr e Lutte ouvrière) hanno ottenuto più del 10% alle elezioni presidenziali del 2002 contro il 17% del Partito socialista e il 5% del Partito comunista. In breve: i rapporti di forza in seno al movimento sociale sono evoluti in modo considerevole.

Cinzia Arruzza: Credi che le differenze rispetto al passato siano legate anche ai cambiamenti dell’università francese degli ultimi anni? Gli studenti di oggi, in seguito alle riforme universitarie degli ultimi anni, sono diversi rispetto agli studenti del passato?

Daniel Bensaïd: Sicuramente, nel 1968 eravamo all’inizio della massificazione dell’insegnamento superiore, ed era solo la minoranza di una classe di età (15%) ad accedere al diploma e i figli delle classi popolari non erano che una piccola minoranza di questa minoranza, tanto più nell’insegnamento superiore. Oggi circa l’80% arriva al diploma, e di questi una proporzione importante entra all’università. Anche se l’ineguaglianza di accesso alla cultura sussiste, la mescolanza sociale del mondo studentesco si è sviluppata, e questo anche in ragione del legame con il mondo del lavoro. Inoltre, ne deriva che gli studenti non sono più un’élite che ha la sicurezza di accedere a degli impieghi garantiti, prestigiosi e ben pagati, ma in larga parte – come voi dite – dei “precari in formazione”. L’evoluzione dell’università era già percettibile nelle due ultime grandi mobilitazioni giovanili: il movimento contro la riforma universitaria del 1986 (che aveva già obbligato un governo Chirac a ritirare la sua proposta di legge!) e un movimento dei giovani della formazione professionale contro l’instaurazione di un “salario minimo” per i giovani nel 1994. Si usa dire che le università sono diventate di massa, o si sono “massificate”. Dietro questa massificazione si nasconde una differenziazione sempre più complessa delle filiere di formazione e una ramificazione degli orientamenti che rispondono alla complessità crescente della divisione del lavoro. In Francia c’è una grande differenza tra gli studenti delle grandi scuole il cui avvenire è assicurato e quelli dei dipartimenti artistici (musica, teatro, cinema, danza), in cui la maggior parte degli studenti è effettivamente destinata a divenire degli intermittenti dello spettacolo. C’è ugualmente una grande differenza tra coloro che si sono formati professionalmente in discipline scientifiche e coloro che provengono da discipline letterarie o dalle scienze umane. Queste differenze coincidono spesso con le differenze sociologiche legate all’origine degli studenti. Ma tutto questo richiederebbe un’analisi più precisa.

Cinzia Arruzza: Negli ultimi anni sono cambiate le forme di organizzazione delle mobilitazioni studentesche?

Daniel Bensaïd: Le forme sono più di massa, ma abbastanza classiche: assemblee, coordinamenti eletti, occupazione degli edifici scolastici e universitari, blocchi. Ciò che sembra un po’ più nuovo, è una maggiore sensibilità alle pratiche democratiche, una significativa mescolanza di uomini/donne nel movimento e nelle sue direzioni elette, un uso evidentemente sconosciuto all’epoca di tutti i mezzi di comunicazione orizzontale e anche una maggiore diffidenza verso gli effetti retorici, direi quasi una maggiore serietà nello sforzo di conoscere le riforme contro cui ci si mobilita, di studiare i testi ufficiali, di informarsi con precisione.

Cinzia Arruzza: Ci puoi dare un quadro delle differenti organizzazioni politiche e sociali che sono state impegnate nel movimento?

Daniel Bensaïd: Le organizzazioni sociali lo sono praticamente tutte: dai sindacati dei lavoratori (un fronte sindacale senza precedenti da molto tempo a questa parte, unito sino a oggi per il ritiro del Cpe), ai sindacati studenteschi (maggioritariamente legati al Partito socialista), passando per le associazioni dei genitori degli alunni, ecc.). Sul piano politico, le correnti più influenti nelle organizzazioni di lotta come il coordinamento studentesco (che si è riunito ogni fine settimana, con tre delegati-e per università in lotta) sono la Lcr-Jcr e gli anarchici. I rapporti di forza politici qui sono differenti, in effetti, rispetto a quelli che esistono nelle organizzazioni istituzionali come l’Unef: i militanti vicini al partito socialista vi sono presenti, ma minoritari rispetto alle correnti più radicali che ho citato. Una cosa curiosa è l’estrema debolezza nel movimento studentesco dell’Unione degli studenti comunisti (legata al Partito comunista).

Cinzia Arruzza: Quali sono i possibili effetti di questo movimento sul quadro politico francese? Sul governo da una parte e sulla sinistra dall’altra?

Daniel Bensaïd: È troppo presto per dirlo, ma è probabile che il popolo si vendichi di una nuova frustrazione, del disprezzo e della rigidità mostrati dal governo, sanzionandolo con un voto a sinistra (pur senza grandi illusioni su ciò che faranno i social-liberisti di ritorno al potere), come è successo già in occasione del referendum sul Trattato costituzionale europeo. In effetti è probabile che questo movimento favorisca la ricostituzione di una “sinistra plurale bis” sotto l’egemonia di un partito socialista che si è nuovamente unito (al di là della divisione tra il sì e il no al referendum) in occasione del suo ultimo congresso, a beneficio della sua ala destra. È evidente che per noi, dopo come prima del movimento anti-Cpe, una coalizione parlamentare sotto questa egemonia social-liberista è esclusa. D’altronde, i sondaggi (se si può accordare loro una parte di credito) indicano una popolarità crescente dell’estrema sinistra (circa il 10%) mentre il Partito comunista non sale mai al di sopra del 4%. Certamente, all’avvicinarsi delle scadenze elettorali, questo evolverà a favore di una alternanza “credibile” (dunque, del Ps) in nome dell’argomento del minor male e del “tutto tranne che Sarkozy”. Ma, dopo aver radicalizzato il suo linguaggio giusto per il tempo necessario a riconquistare una parte del suo elettorato popolare, il partito socialista si ritroverà in una situazione difficile. In effetti, il Ps non fa promesse, non prende impegni precisi in materia di occupazione, salari, fiscalità, ecc. E per condurre una politica neokeynesiana, come a volte pretende, dovrebbe rimettere in causa le privatizzazioni passate, la politica fiscale, l’autonomia della Bce, i criteri di Maastricht, il Patto di stabilità. Ciò che non ha affatto intenzione di fare, come ha mostrato il suo “sì” al Trattato costituzionale.

Perché delle nuove delusioni non vadano a vantaggio dell’estrema destra populista, sarà importante che una sinistra al 100% a sinistra, fedele ai suoi impegni e al mandato del no al referendum come a quello del movimento anti-Cpe, tracci con perseveranza la strada di una alternativa anticapitalista e non di una semplice alternanza social-liberista.

AA.VV. Studiare con lentezza, Edizioni Alegre, Roma, 2006
www.danielbensaid.org

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