Trent’anni dopo

Introduzione critica all’ Introduzione al marxismo di Ernest Mandel

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La prima edizione, per la Fondazione Leon Lesoil, di questa introduzione al marxismo risale al 1974. La data non è irrilevante. Dopo lo “shock petrolifero” del 1973, Ernest Mandel è stato probabilmente uno dei primi a diagnosticare l’esaurimento dei “trent’anni gloriosi” e a prevedere un’inversione dell’onda lunga espansiva affermatasi dopo la seconda guerra mondiale 1. I dibattiti all’interno della sinistra e nel movimento operaio europeo, tuttavia, non sono stati scalfiti nella loro illusione di un progresso illimitato garantito dal compromesso keynesiano e da uno “Stato della Provvidenza”. Questa visione ottimistica dello sviluppo storico nutriva, nella sinistra parlamentare e negli apparati sindacali, la speranza di un socialismo a passo di tartaruga rispettoso delle istituzioni esistenti fino a quando la maggioranza politica avrebbe finito per diventare maggioranza della società in paesi in cui – come è stato mostrato nel maggio ‘68 dal più grande sciopero generale nella storia – il lavoro salariato rappresentava per la prima volta più di due terzi della popolazione attiva.

L’introduzione di Mandel non è dunque un testo fuori dal tempo. Se vale ancora oggi per le sue qualità pedagogiche nella presentazione della genesi del capitalismo, del funzionamento dell’economia, delle crisi cicliche, dello sviluppo ineguale e combinato, ecc., non di meno ha una dimensione polemica, di cui alcuni dei suoi aspetti essenziali sono stati ampiamente confermati nei trent’anni dalla sua stesura:

• La logica del capitalismo non tende a una progressiva riduzione delle disuguaglianze, o addirittura alla loro estinzione. Se queste disuguaglianze sono sembrate declinare nel periodo del dopoguerra, non è a causa della generosità di un capitalismo compassionevole, ma a causa dei rapporti di forza sociali prodotti della guerra e dalla resistenza, dell’ondata di rivoluzioni coloniali, della grande paura delle classi dirigenti che avevano conosciuto durante gli anni Trenta e la Liberazione. Fin dall’inizio, negli anni ‘80, della contro-riforma liberale, l’United Nations Development Programme (UNDP) registra ogni anno un crescente divario non solo tra i paesi definiti come Nord e Sud, ma anche tra i più ricchi e i più poveri all’interno dei paesi sviluppati, e tra i sessi malgrado le conquiste delle lotte delle donne. Non solo “lo stato sociale” e “l’economia mista” non erano eterni, non solo non erano la soluzione infine trovata alle contraddizioni ed alle crisi del capitalismo, ma niente, contrariamente alle illusioni riformiste, è stato acquisito definitivamente dai lavoratori tanto quanto il mantenimento da parte della borghesia della proprietà dei grandi mezzi di produzione e delle leve del potere. Thatcher e Reagan non hanno tardato a dimostrarlo. E G.W. Bush conferma a suo modo che l’epoca resta quella delle guerre e delle rivoluzioni.

• La proprietà privata dei mezzi di produzione, di scambio e di comunicazione, lungi dall’essere diluita nell’azionarato popolare, ha una concentrazione senza precedenti, ed esercita un potere effettivo corrispondente non solo nella sfera economica, ma anche nella sfera politica e mediatica. Per chi non ha rinunciato all’urgenza di “cambiare il mondo”, la radicale trasformazione dei rapporti di proprietà nel senso di un’appropriazione sociale rimane decisiva come all’epoca del Manifesto del partito comunista. E questo è particolarmente vero nell’era della globalizzazione, dove il capitale mercifica tutto, dove la privatizzazione del mondo si estende all’educazione, alla salute, al vivente, al sapere, allo spazio.

• Se lo Stato non è più solamente una “banda di uomini armati” o “il guardiano notturno”, se soddisfa le funzioni sempre più sofisticate e complesse della riproduzione sociale, una “funzione ideologica” dice Mandel, non è nemmeno una relazione di potere tra le altre (nazionale, culturale, simbolica). E ‘infatti il garante e la catena dei rapporti di potere, il “boa constrictor” che stritola la società con i suoi molteplici anelli. Si tratta dunque sempre di romperlo e aprire la strada al suo declino come apparato specializzato separato dalla società. Tutte le rivoluzioni del ventesimo secolo, nelle vittorie come nelle sconfitte, hanno confermato questa grande lezione della Comune di Parigi.

Nonostante la verifica di questi aspetti, l’Introduzione al marxismo di Mandel colpisce per alcuni silenzi. Gli anni ‘70 sono stati quelli di un nuovo sviluppo planetario dei movimenti di emancipazione delle donne. La IV° Internazionale avrebbe adottato sulla questione un importante documento programmatico nel suo XI° Congresso Mondiale del 1979. Tuttavia, le relazioni di genere, nel testo di Mandel, occupano un posto marginale nella migliore delle ipotesi. Analogamente, mentre le preoccupazioni ecologiche acquisivano importanza a partire dai movimenti contro centrali nucleari o dal disastro di Three Mile Island, sono praticamente assenti nella prima edizione di questa Introduzione. Questo può essere probabilmente spiegato – ma non giustificato – dall’ottimismo umanista e prometeico, che conviveva in Mandel con una chiarezza indiscutibile sulle ambivalenze del progresso tecnico e le minacce della barbarie.

Questa incoerenza o contraddizione è confermata dal ruolo che attribuisce, quando si tratta di affrontare le sfide della transizione verso una società socialista, a quello che io chiamo “il jolly dell’abbondanza”: “Una società egualitaria basata sull’abbondanza, è l’obiettivo del socialismo”. La marcia per l’abbondanza implica una crescita delle forze produttive e della produttività del lavoro per permettere una drastica riduzione dell’orario di lavoro. Se questo è vero in termini generali, è ancora necessario, pena di cadere nel produttivismo cieco e nell’incoscienza ecologica, sottoporre queste stesse forze produttive ad un esame critico. Inoltre, la nozione di abbondanza è altamente problematica.

La supposizione di un’ abbondanza assoluta e la saturazione dei bisogni naturali, appaiono in effetti come una scappatoia davanti alla necessità di stabilire delle priorità e delle scelte nell’allocazione di risorse limitate: quanto attribuire alla sanità, all’ istruzione, alla casa, ai trasporti, come decidere la destinazione di questi investimenti, ecc? Esiste un limite naturale ai bisogni in materia di salute o di istruzione ? Come l’abbondanza, i bisogni sono storici e sociali, quindi relativi. Si può giustamente considerare che la logica della crescita mercantile dei consumi suscita e nutre bisogni artificiali, stravaganti, non necessari, e che una società socialista può farne a meno. Ma da qui a predicare l’austerità e la frugalità ai poveri, non c’è che qualche ideologo della decrescita che non esita a farlo. Chi è autorizzato a decidere tra i bisogni veri e quelli falsi, quelli buoni e quelli cattivi? Certamente non un aeropago di esperti, ma la decisione democratica dei produttori e degli utenti associati.

Il ricorso al jolly dell’ abbondanza permette di sottrarsi, o quanto meno semplificare, non solo alla questione delle priorità sociali in un ecosistema soggetto a limiti e soglie, ma consente di lasciare nel vago la questione delle istituzioni democratiche di una società in transizione al socialismo. Non si tratta certamente di rivendicare un’utopia democratica basata sui piani preconfezionati di una città perfetta, ma sottolineare l’importanza decisiva delle forme democratiche in una società dove il deperimento dello Stato non è affatto sinonimo di un declino della politica in una mera “amministrazione delle cose” (come è stato suggerito da una formula di Saint Simon inoppurtunamente presa in prestito da Engels).

Non sarebbe da rimproverare a Mandel questa sottovalutazione dal momento che è stato il principale estensore della risoluzione sulla “Democrazia socialista e la dittatura del proletariato”, adottata nel 1979 nel XI° Congresso Mondiale della IV Internazionale. Ma il fatto è che la sua insistenza sul tema dell’abbondanza tende a relativizzare il ruolo della politica a favore di una gestione tecnica della distribuzione senza limiti “Al salario monetario si deve sostituire la retribuzione del lavoro mediante il libero accesso a tutti i beni necessari per soddisfare le esigenze dei produttori. Solo in una società che fornisce agli uomini uguale abbondanza di beni può nascere una nuova coscienza sociale”. Questa questione della gratuità – del “libero accesso” – non solamente per alcuni servizi sanitari o educativi, ma di beni di consumo alimentari, di prima necessità come l’abbigliamento gli stava particolarmente a cuore. Ne va infatti della demercificazione del mondo e di una rivoluzione delle mentalità, e per la prima volta porre fine alla maledizione biblica che obbliga l’essere umano a guadagnarsi il pane “con il sudore della fronte”. Mandel insiste nel dire che “tale abbondanza di merci non è affatto utopistica, a condizione che sia introdotta gradualmente, a partire da una progressiva razionalizzazione dei bisogni degli uomini, emancipata dai vincoli della concorrenza, dalla caccia per l’arricchimento privato, dalla manipolazione della pubblicità interessata a creare uno stato di insoddisfazione permanente tra gli individui. E i progressi nel tenore di vita hanno già creato una situazione di saturazione del consumo di pane, patate, verdura, frutta o alcuni prodotti lattiero-caseari, grassi e carne di maiale nella parte meno povera della popolazione dei paesi imperialisti. Una tendenza simile si manifesta per quanto riguarda la biancheria intima, la calzature, i mobili di base, ecc. Tutti questi prodotti possono essere distribuiti progressivamente in modo gratuito, senza far intervenire il denaro, e senza che questo comporti un aumento significativo della spesa collettiva”.

Questa logica della gratuità come condizione per il deperimento parziale delle relazioni monetarie rimane attuale. L’enfasi sulle condizioni di “saturazione dei consumi” per i meno poveri della popolazione nei paesi più ricchi lascia in ombra ancora il peso delle disuguaglianze globali e il rapporto tra produzione ed evoluzione demografica. La nozione di “progressiva razionalizzazione dei bisogni umani”, se è rilevante per la critica dello stile di vita indotto dalla concorrenza capitalista, non deve essere confusa con quello di abbondanza, se non di una relativa abbondanza in un stato di sviluppo sociale, visto che in nessun modo ci dispensa dai criteri e dalle priorità nell’uso e nella distribuzione delle ricchezze. La politica – quindi “la democrazia socialista”, non “l’amministrazione delle cose” – rimane allora necessaria per convalidare i bisogni e le modalità per soddisfarli.

La parte più datata dell’Introduzione del ‘74, quella che sopporta peggio la prova degli anni e degli eventi accaduti nell’ultimo quarto di secolo, è senza dubbio quella che riguarda lo stalinismo e la sua crisi. Mandel riprende le parti essenziali dell’analisi dell’Opposizione di Sinistra e di Trotsky sulla contro-rivoluzione burocratica dell’URSS e sulle sue ragioni: “La ricomparsa di una forte disuguaglianza sociale oggi in URSS si spiega fondamentalmente con la povertà della Russia dopo la rivoluzione, con l’insufficiente livello di sviluppo delle forze produttive, con l’isolamento e l’insuccesso della rivoluzione in Europa nel periodo 1918-1923.” Questo approccio ha il merito di concentrarsi sulle condizioni sociali e storiche della cancrena burocratica, a differenza della storiografia reazionaria oggi in voga – tra gli altri gli autori del Libro nero del comunismo – per la quale i grandi drammi storici sono semplicemente il risultato meccanico di ciò che è germogliato nei fertili cervelli di Marx o di Lenin, quando non è semplicemente “colpa di Rousseau”. Le ricerche contemporanee più serie supportate dall’apertura degli archivi sovietici (compresi quelli di Moshe Lewin) confermano ampiamente il metodo di Mandel e illuminano le varie fasi della reazione burocratica in Unione Sovietica.

Mandel riprende la classica analisi della burocrazia dalla tradizione dell’Opposizione di sinistra allo stalinismo: la burocrazia. non è “una nuova classe dirigente” e “non svolge alcun ruolo indispensabile nel processo di produzione” è “uno strato privilegiato che ha usurpato l’esercizio delle funzioni di gestione dello Stato e dell’economia sovietica, e si è accaparrata sulla base di questo monopolio di potere di sontuosi vantaggi nel campo dei beni di consumo”. Anche se discutibile (la definizione delle classi – nel senso più ampio e storico o nel senso specifico delle società moderne – non è chiaramente stabilita in Marx stesso) la distinzione tra le classi fondamentali e la casta burocratica si sforzava di pensare la singolarità di un fenomeno inedito. Permetteva di evitare le semplificazioni di fare dell’ex Unione Sovietica o della Cina le “patrie del socialismo” richiedendo una fedeltà incondizionata, o viceversa individuandole semplicemente come una versione orientale dell’imperialismo occidentale.

Ma Mandel va oltre. La burocrazia è solo uno “strato sociale privilegiato del proletariato”. In quanto tale, “rimane un avversario della restaurazione del capitalismo in Urss, che avrebbe distrutto le fondamenta stesse dei suoi privilegi”. L’Unione Sovietica rimane, “come all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre una società in transizione tra il capitalismo e il socialismo; il capitalismo può essere ripristinato, ma al costo di una contro-rivoluzione sociale; il potere dei lavoratori può essere restaurato, ma al costo di una rivoluzione politica che rompe il monopolio dell’esercizio del potere nelle mani della burocrazia”. Eppure negli anni ‘70, troppa acqua era passata sotto i ponti della storia, e fin troppi crimini erano stati commessi, perchè si potesse rivendicare una tale continuità tra la società sovietica di Breznev e “gli indomani della Rivoluzione d’Ottobre”. Quanto alla burocrazia al potere, non ha tardato a dimostrare che non è stata come tale un “avversario” determinato alla restaurazione del capitalismo.

Anche tenendo conto dell’intenzione didattica, questo passaggio dell’ Introduzione non regge alla prova dei fatti. Da una parte riducendo la burocrazia a un’escrescenza funzionale del proletariato, Mandel esclude a pieno titolo l’ipotesi della sua trasformazione in una classe dominante. La disintegrazione dell’Unione Sovietica e le “rivoluzioni di velluto” nell’Europa dell’Est hanno dimostrato invece che una frazione considerevole della burocrazia potrebbe, sulla base di una “accumulazione primitiva burocratica”, trasformarsi in borghesia mafiosa. Dall’altra parte la concezione poco dialettica della burocrazia come “l’escrescenza parassitaria del proletariato” fonda un’alternativa doppiamente discutibile tra contro-rivoluzione sociale e rivoluzione politica. L’ipotesi di una restaurazione del capitalismo come “contro-rivoluzione sociale” evoca in effetti una simmetria di eventi tra la Rivoluzione d’Ottobre e questa contro-rivoluzione. Tuttavia, e questo è l’interesse del concetto analogico di Termidoro, una contro-rivoluzione non è una rivoluzione in senso contrario (una rivoluzione all’inverso), ma il contrario di una rivoluzione, non un evento simmetrico all’evento rivoluzionario, ma un processo. In questo senso, la contro-rivoluzione burocratica in Unione Sovietica è iniziata negli anni ‘20 e il crollo dell’Unione Sovietica è solo l’ultimo episodio.

Se è necessario, alla luce degli ultimi venti anni, passare la griglia di lettura di Mandel al vaglio della critica, ciò non impedisce di riconoscere che ebbe anche la sua utilità per orientarsi nei tumulti del secolo. Bisogna però riconoscere che commesso degli errori di apprezzamento, in particolare sul significato della perestroïka di Gorbaciov o sulla caduta del Muro di Berlino. Dopo aver individuato nel “declino della rivoluzione internazionale dopo il 1923” e nell’arretratezza dell’economia sovietica, “i due pilastri principali del potere della burocrazia”, Mandel ne deduce logicamente che con l’economia sovietiva in crescita (simboleggiata dallo Sputnik) e l’ascesa della rivoluzione mondiale (nei paesi coloniali, ma anche in Europa dopo il maggio ‘68), il tempo della rivoluzione politica stava per suonare in URSS e nell’Europa orientale. La sopravvalutazione delle “conquiste socialiste”, che avrebbero facilitato una rivoluzione politica che democratizzava dei rapporti sociali già costituiti, lo ha portato nel suo libro Dove va l’URSS di Gorbaciov ? (1989) a sopravvalutare le dinamiche della stessa rivoluzione politica e a sottovalutare le forze della restaurazione capitalista. Allo stesso modo, il suo entusiasmo comprensibile di fronte alla caduta del Muro di Berlino lo ha portato a interpretare l’evento come un ritorno alla tradizione di Rosa Luxemburg e dei consigli operai, dopo una lunga pausa di reazione, e a sottovalutare la logica restauratrice inscritta nei rapporti di forza internazionali. Non era solo, da parte sua, una manifestazione dell’ ottimismo della volontà, ma piuttosto un errore di giudizio che aveva in parte delle radici teoriche.

La sua visione era basata sulla concezione, condivisa all’interno della VI° Internazionale dopo il suo congresso del 1963, di una convergenza dei “tre settori della rivoluzione mondiale”: la rivoluzione democratica nei paesi coloniali, la rivoluzione sociale nelle metropoli imperialiste, la rivoluzione politica anti-burocratica nei paesi del “socialismo reale”. Negli anni sessanta, questa prospettiva non era priva di elementi di fatto: l’onda d’urto della rivoluzione cinese, la vittoria della rivoluzione cubana, le lotte di liberazione in Algeria, in Indocina, e nelle colonie portoghesi, la rivolta anti-burocratica a Budapest nel 1956, la Primavera di Praga nel 1968, le lotte antiburocratiche in Polonia, la ripresa delle lotte sociali e dei grandi movimenti per gli scioperi in Francia, Italia, Gran Bretagna negli anni ‘60, l’abbattimento delle dittature di Franco e Salazar.

A metà degli anni Settanta, con l’arresto della rivoluzione portoghese nel 1975, con il passaggio alla monarchia in Spagna, con lo strappo tra Vietnam e Cambogia, con la svolta verso l’austerità della sinistra europea, con normalizzazione in Cecoslovacchia e poi il colpo di stato in Polonia, i venti avevano cominciato a cambiare, e i “tre settori”, lungi dal convergere armoniosamente avevano cominciato a divergere. Le forze centrifughe prevalevano. Le lotte burocratiche a l’Est non si svolgevano più in nome dei consigli operai o dell’autogestione (”Ridateci le nostre fabbriche!”) come era avvenuto, ancora una volta, nel 1980 al congresso di Solidarnosc, ma si nutrivano dei miraggi della società dei consumi occidentale. Il riflusso ineguale delle rivoluzioni sociali profane annunciava l’onda contraria delle “rivoluzioni di velluto” e delle “rivoluzioni sacre”, di cui Foucault fu uno dei primi a percepirne l’importanza durante la rivoluzione iraniana del 1979.

Basato su una famosa formula di Trotsky nel Programma di transizione, che “la crisi dell’umanità” si riduce alla crisi della sua direzione rivoluzionaria, Mandel è spesso ricorso, per interpretare una serie di eventi imprevisti, alla nozione di ritardo. Le condizioni oggettive della rivoluzione sarebbero quasi sempre mature. Mancherebbe solamente il “fattore soggettivo”, troppo debole o quanto meno in considerevole ritardo rispetto all’ora esatta della storia. Se le vecchie idee continuano a dominare il movimento operaio, “questo è dovuto alla forza d’inerzia della coscienza che ritarda sempre rispetto alla realtà materiale”. Questa idea di un ritardo imputabile “alla forza d’inerzia della coscienza” è strano. Certo, si considera che l’uccello della saggezza prenda il volo al crepuscolo, ma le difficoltà della coscienza di classe riguardano molto di più gli effetti dell’alienazione del lavoro, del feticismo delle merci, piuttosto che una latenza rassicurante che suggerisce che la coscienza può venire più tardi, ma verrà necessariamente… A meno che non arrivi troppo tardi?

La nozione di “ritardo”, come quella di “deviazione”, spesso utilizzata da Mandel, presuppone una discutibile concezione normativa dello sviluppo storico. Essa introduce inoltre un rapporto problematico (poco dialettico, nonostante quello che dice Mandel nella parte metodologica della sua Introduzione – i capitoli sulla dialettica materialista e sul materialismo storico) tra le “condizioni oggettive” e le “condizioni soggettive” dell’azione rivoluzionaria. Come spiegare, se le condizioni oggettive sono così propizie, che il fattore soggettivo è così infedele nella maggior parte dei suoi appuntamenti? Tale divorzio tra i due può portare alla paranoia del tradimento: se il fattore soggettivo non è quello che dovrebbe essere, questo non è in funzione di certi limiti relativi alla situazione e ai rapporti di forza effettivi, ma perché è costantemente tradito dall’interno. Le capitolazioni, addirittura i tradimenti, sicuramente reali delle direzioni burocratiche del movimento operaio hanno avuto costi certamente grandi per l’umanità nel secolo scorso (e ancora gli costerà caro), ma farne il fattore esplicativo principale o esclusivo delle delusioni e delle sconfitte del XX° secolo porta quasi inevitabilmente ad una visione poliziesca della storia a cui le organizzazioni trotskiste non sempre sono sfuggite.

Mandel è fortunatamente molto più sfumato. Arricchisce la sua nozione di condizioni oggettive, “indipendenti dal livello di coscienza dei proletari e dei rivoluzionari” per includere “le condizioni materiali e sociali” (la forza del proletariato) e le “condizioni politiche”, ossia l’incapacità delle classi dominanti a governare e il rifiuto delle classi dominate ad essere governate. Così reinterpretate, le “condizioni oggettive” includono un ampio margine di soggettività. Non rimane quindi, per le condizioni cosiddette soggettive, solo il livello della coscienza di classe del proletariato e il livello della forza “del suo partito rivoluzionario”. Lo loro esistenza non è ridotta alla forza, alla consapevolezza, alla maturità della sua avanguardia, staccata dalle mediazioni complesse della lotta di classe e delle istituzioni. Perchè quest’ultima è la strada aperta verso un volontarismo esacerbato, che sta alla volontà rivoluzionaria come l’individualismo sta all’individualità liberata.

Il rischio di ridurre il problema delle rivoluzioni moderne alla volontà della loro avanguardia è compensata da Mandel con una fiducia sociologica per l’estensione, l’omogeneità, e la crescente maturità del proletariato nel suo complesso. Anche se gli capita di ammettere che “la classe operaia non è del tutto omogenea in termini di condizioni sociali della sua esistenza”, la tendenza verso l’omogeneità la supera di gran lunga i suoi occhi. Si suppone che superi quasi spontaneamente le divisioni interne e gli effetti della concorrenza sul mercato del lavoro: “Contrariamente a una leggenda molto diffusa, nella massa proletaria, anche se altamente stratificata, aumenta notevolmente e non diminuisce il grado di omogeneità. Tra un operaio, un impiegato di banca, e un lavoratore del pubblico impiego, la distanza è minore oggi di quanto non fosse un mezzo secolo o un secolo fa, per quanto riguarda il tenore di vita, l’inclinazione a sindacalizzarsi ad aderire a uno sciopero e per quanto riguarda la potenziale acquisizione di una coscienza anticapitalista.”

Nel rileggere questo passaggio, si deve ancora una volta, avere in mente il contesto sociale e le sue sfide polemiche. Di fronte alle mutazioni della divisione e dell’organizzazione del lavoro che hanno accompagnato l’onda lunga della crescita, la questione posta era di sapere se si fosse in presenza della formazione di una nuova classe operaia e dell’estensione del proletariato o, al contrario, dell’apparizione massiccia di una nuova piccola borghesia. Le alleanze di classe e la formazione di un nuovo blocco storico, avrebbero sollevato nuove questioni strategiche, come sostenuto allora da alcuni testi di Poulantzas, Baudelot e Establet, e da alcune correnti maoiste desiderose di trovare un equivalente europeo del “blocco delle quattro classi” caro al presidente Mao.

Mandel ha sostenuto che la situazione dei dipendenti del cosiddetto terziario si avvicinava alla condizione dei lavoratori, nei termini della forma (salario) e dell’ammontare medio del reddito, della loro posizione subordinata nella divisione del lavoro, nella loro esclusione dall’accesso alla proprietà. Questo riavvicinamento materiale era confermato da un riavvicinamento culturale, verificatosi nel comportamento dei nuovi strati di impiegati nelle lotte del maggio ‘68 in Francia o nel Maggio strisciante italiano: il sordo e vecchio antagonismo tra le tute blu e i colletti bianchi, tra officina e ufficio, si sbiadiva davanti alla solidarietà nelle lotte comuni contro lo sfruttamento e l’alienazione.

Se l’argomento di Mandel era giustificato sociologicamente e strategicamente (il problema principale era la raccolta dei lavoratori stessi e non la ricerca di un’alleanza di classe o una nuova versione del fronte popolare contro il capitalismo monopolistico di Stato), si trasformava però in una tendenza storica irreversibile nella particolare situazione creata dal capitalismo industriale del dopoguerra e nella sua specifica modalità di regolamentazione.

Riprendeva così a modo suo la scommessa sociologica di Marx, per la quale le difficoltà strategiche della rivoluzione sociale alla fine si sarebbero risolte grazie allo sviluppo della grande industria e nella crescente concentrazione del proletariato in grandi unità produttive, a sua volta propizia di uno sviluppo del movimento sindacale, di un rafforzamento della solidarietà e un’elevazione della coscienza politica. Se questa sembrava essere la tendenza degli anni ‘60 e primi anni ‘70, la risposta del capitale è venuta rapidamente con l’offensiva liberale. Lungi dall’essere irreversibile, la tendenza all’omogeneizzazione era minata dalle politiche di decentramento delle unità produttive, dall’intensificazione della concorrenza nel mercato del lavoro globalizzato, dall’individualizzazione dei salari e dei tempi di lavoro, dalla privatizzazione del tempo libero e dello stile di vita, dalla demolizione metodica della solidarietà e delle protezioni sociali.

In altre parole, lungi dall’essere una conseguenza meccanica dello sviluppo capitalistico, la ricomposizione delle forze della resistenza e della sovversione dell’ordine stabilito dal capitale è un compito che non finisce mai di ricominciare nelle lotte quotidiane, i cui risultati non sono mai definitivi.

Come sottolineato nella sua prefazione, Mandel attribuisce un’importanza maggiore ai capitoli metodologici sulla dialettica materialista e sulla teoria del materialismo storico. Questo tipo di esposizione generale ha le sue virtù pedagogiche. I famosi Principi elementari di filosofia di Georges Politzer hanno contribuito ad avviare alle fondamentali questioni teoriche decine o centinaia di migliaia di militanti, in tutto il mondo, che non avevano una formazione intellettuale. Ma, per Mandel come per Politzer, la semplificazione pedagogica ha il suo prezzo. La presentazione di una teoria assume i caratteri del manuale, un po ‘dottrinario, e tende a presentare delle leggi universali astratte – “la dialettica come logica universale del movimento e della contraddizione”, scrive Mandel – andando oltre i campi della loro validità specifica. Quindi, se è astrattamente corretto che “negare la causalità è, in ultima analisi, negare la possibilità della conoscenza”, un’affermazione così generale non dice nulla sulle numerose questioni che solleva il concetto stesso di causalità e sui differenti modi della causalità, irriducibili alla sola causalità meccanica ispirata dalla fisica classica. Quindi, di nuovo, definire la dialettica come “la logica del movimento” e delle forme di passaggio da uno stato all’altro, tende a renderla una logica formale, staccata dal contenuto, un sistema di leggi generali che regolano le singolarità all’opera nel mondo reale.

C’è in questo caso, certamente, materia per una discussione che supera di gran lunga i limiti di questa introduzione critica all’ Introduzione al marxismo. Non è superfluo segnalare che le poste in gioco sono tutt’altro che trascurabili. Il capitolo di Mandel sulla dialettica si conclude con l’idea che “la vittoria della rivoluzione socialista mondiale, l’avvento di una società senza classi, confermano in pratica la validità del marxismo rivoluzionario”. La formula è quanto meno avventurosa. Se la vittoria deve confermare la validità di una teoria, l’accumulo di sconfitte dovrebbe reciprocamente invalidarla. Ma, cosa significa vincere storicamente? A quale scala del tempo? Chi è il giudice? Con quali criteri?

Le domande sono concatenate e si spingono l’un l’altra, rinviando in ultima istanza, all’idea che si ha della scienza e della verità scientifica, o del rapporto tra verità ed efficacia2. Questa è un’altra e – molto – lunga storia.

Gli interrogativi e le critiche che può suscitare L’Introduzione al marxismo di Mandel, a trent’anni dalla sua prima pubblicazione, sono rivelatrici di un’epoca e dei rapporti di un rivoluzionario con il suo tempo. Roland Barthes potè scrivere di Voltaire che fu “l’ultimo scrittore felice”, nella misura in cui poteva esprimere la visione del mondo di una borghesia in pieno sviluppo, ancora in grado di credere – in buona coscienza – di rappresentare l’avvenire di un’umanità illuminata e liberata. Lo stesso si può dire che Mandel sia stato uno degli ultimi rivoluzionari felici. La formula potrebbe sorprendere o urtare, perchè si tratta di un militante che ha conosciuto le prove della guerra e della prigionia, che ha visto le tragedie del secolo degli estremi, che ha dovuto lottare tutta la vita contro la corrente dei venti dominanti. Fu tuttavia un rivoluzionario felice, malgrado le sconfitte e le delusioni conservava intatta la fiducia dei pionieri del socialismo nel futuro dell’umanità, e il loro l’ottimismo alla soglia di un ventesimo secolo che annunciava la fine delle guerre e dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Per Ernest, umanista classico e uomo dell’Illuminismo, le disillusioni del ventesimo secolo non erano state che una lunga deviazione, o uno spiacevole ritardo, che non mettevano in discussione la logica del progresso storico. Questa convinzione ostinata fa allo stesso tempo la sua grandezza e la sua debolezza.

25 luglio 2007
www.danielbensaid.org

Documents joints

  1. Ernest Mandel, La Crise, Paris, Champs Flammarion, 1978
  2. La citazione di Mandel fa uso, in una certa misura, del criterio di scientificità teorica proposto da Popper, quello della confutabilità (o della “falsificabilità») : una teoria non può essere detta scientifica se non si espone alle smentite (confutazioni) della pratica. Pertanto, la teoria di Marx, come quella di Freud, che sopravvivono alle smentite dei loro pronostici o ai loro fallimenti terapeutici, non possono vantare alcun titolo di scientificità. L’argomento si basa su una serie di presupposti discutibili, riguardanti sia il rapporto tra scienze sociali e scienze esatte, che le diverse forme di causalità.

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