Nello scatenamento antimarxista che ha accompagnato l’offensiva liberista degli anni Ottanta, la statura di Marx si è rivelata abbastanza imponente perché si potesse essere certi di un suo ritorno, di una riabilitazione editoriale e accademica, pronta a presentarne una versione light, liberata dalla carica sovversiva. Ci si poteva persino attendere indulgenza verso Trotskij, come riconoscimento del talento letterario dimostrato dalla sua Storia della rivoluzione russa e del fascino estetico suscitato dal tragico destino del vinto. Ma Lenin, no! Il suo ruolo è stato il più ingrato: quello del “cattivo” nella storia, morto troppo presto per aver conosciuto processi ed esilio, sospettato per aver vinto, vittima di un culto di cui fu oggetto suo malgrado. Chi ancora andrà a frugare nella quarantina di volumi cartonati delle edizioni moscovite, odorose di colla di pesce? Chi tornerà su quel susseguirsi di articoli, di note giornalistiche, di scritti militanti e di circostanza, di polemiche, i cui destinatari sono per la maggior parte dimenticati? Quasi non ci sono veri libri in questa compilazione di libelli, di articoli, di testi militanti. Malgrado la sua profondità, eccezionale per un’opera giovanile, Sviluppo del capitalismo in Russia finirà con il sommergere il lettore nelle statistiche degli zemstov, malgrado le sue opere senza “l’opera” e l’acutezza teorica espressa nei margini della Logica di Hegel, Lenin non avrà gli onori di edizioni prestigiose. Pochi si sono arrischiati intorno a questo pensiero sconcertante, in un’epoca in cui, pure, l’università ardiva di accettarlo: prima di tutto con Althusser, Lefebvre, Colletti, Lukacs1. Lenin merita invece di essere percepito diversamente che come un volgare specialista del colpo di Stato. Assai più di Marx è un pensatore della politica in atto, nelle contraddizioni e dei limiti di un’epoca. [rouge]Il tempo spezzato della politica[/rouge] La nozione di “leninismo” è ormai utilizzata più o meno a proposito, senza neppure che si ricordi che il termine è stato in origine codificato da Zinoviev al tempo del V Congresso dell’Internazionale Comunista per giustificare la mise au pas dei giovani partiti comunisti con il pretesto della bolscevizzazione. Assai più che una forma di disciplina e di centralizzazione, l’idea centrale di Lenin coglie “la confusione tra il partito e la classe”, considerata “disorganizzatrice”. La distinzione introdotta tra classe e partito si inserisce nelle grandi polemiche del movimento socialista dell’epoca e, più precisamente, in Russia, contro le correnti populiste, “economiste” e mensceviche. Su questioni fondamentali, come quella del governo provvisorio o quella delle alleanze, in quegli anni di formazione della socialdemocrazia russa, menscevichi ed “economisti” difendevano, assieme, posizioni in apparenza più intransigenti, più conformi a quella di un “socialismo puro” rispetto a quelle dei bolscevichi. L’ortodossia derivava però dalla concezione della rivoluzione democratica “borghese” contro il dispotismo come fase necessaria, inevitabile, nel corso della quale il nascente movimento operaio avrebbe dovuto rimanere una forza complementare, senza compromissione con il potere, in attesa di una modernizzazione capitalistica della società. Nella vicina Germania, Kautsky sosteneva allora l’idea parallela di una “accumulazione passiva” di forze e della partecipazione governativa fino al momento in cui la maggioranza elettorale del proletariato avesse raggiunta una maggioranza sociale che gli permettesse di governare da solo. Si è chiamato, questo, il socialismo della “marcia al potere”, fiducioso nella logica del progresso; il “socialismo fuori dal tempo”. Si trattava in realtà di un socialismo abbandonato alla corrente del tempo, di un appiattimento della lotta politica a vantaggio di un determinismo sociologico. Lenin si oppone, in modo per l’epoca originale, alla riduzione del politico al sociale. Come uno psicanalista attento ai “deplacements” e alle “condensations” che operano nelle nevrosi, egli si rende conto che le contraddizioni economiche e sociali non si esprimono in forma diretta, ma in quella specifica, deformata e trasformata, della politica. Il partito ha perciò come principale compito quello di rimanere in guardia, di scorgere nel campo della politica la forma spesso inattesa con cui si rivelano le contraddizioni (una lotta studentesca, l’affaire Dreyfus, una vicenda elettorale, un incidente internazionale). La loro irruzione improvvisa in un momento imprevisto costituisce un sintomo, condensa e rivela una latente crisi complessiva dei rapporti sociali: il miracolo di quel che – diversamente da un fatto ordinario – costituisce, per parlare con esattezza, l’evento politico. Per questo, anzi, la concezione del militante rivoluzionario, per Lenin, non è quella del buon sindacalista, ma quella del “tribuno popolare” che interviene “in tutti gli strati della popolazione” per cogliere la forma concreta in cui si condensa una molteplicità di contraddizioni. È questa la questione centrale del famoso dibattito sugli statuti del partito, minuziosamente commentata in Un passo avanti, due passi indietro. La definizione di membro del partito (chi semplicemente si riconosce nel partito, lo aiuta, o simpatizza… o chi milita in una istanza regolare, versa quote, si sente responsabile delle decisioni collettivamente assunte) non è una discussione formale o amministrativa. La piccola differenza, a prima vista anodina, coinvolge la delimitazione del partito dalla classe: è infatti la forma partito che permette di intervenire sul terreno politico, di operare sulle possibilità, di non subire passivamente i flussi e riflussi della lotta di classe. In questo consiste la “rivoluzione nella rivoluzione” secondo Lenin. Con la distinzione del partito dalla classe, del politico dal sociale diviene possibile cogliere il rapporto dell’uno con l’altro, “la rappresentazione del sociale nel politico” che è, secondo Badieu, “il punto chiave”. Può essere che nel 1902, nel fervore della polemica interna, la questione sia stata forzata, ma gli eccessi sono stati corretti dallo stesso Lenin. La questione controversa del “centralismo democratico”, deformata dalla pratica dell’effettivo centralismo burocratico attuato a partire dal 1924, deriva in gran parte da questa delimitazione tra partito e classe, che comporta logicamente la selezione dei militanti, la concentrazione delle forze, e nello stesso tempo una democrazia che permetta di assimilare l’insieme delle esperienze sociali del partito. La democrazia è funzionale alla riflessione e alla decisione, il centralismo a un’azione che sposti i rapporti di forza. Si tratta di problemi generali, non riducibili all’una o all’altra tecnica organizzativa. Nella discussione con Rosa Luxemburg a proposito di Un passo avanti, due passi indietro Lenin distingue esplicitamente i “principi organizzativi” (derivati dalle condizioni generali della lotta nel regno del capitale), dal “sistema di organizzazione”, mutevole a seconda delle condizioni concrete di legalità, di repressione, di sviluppo. Alla luce dell’esperienza del 1905, Lenin, nella raccolta In dodici anni, insiste sul fatto che il partito, per quanto delimitato, vive in permanente scambio e dialogo con le esperienze della classe (in particolare con l’innovazione imprevista costituita dai soviet). Al di là di sfumature e variazioni, il partito non è una forma organizzativa tra le altre, sindacali o associative, ma è la forma specifica nella quale la lotta di classe si inserisce nel campo politico. L’idea della specificità del politico torna del resto nella nozione di crisi rivoluzionaria, conseguenza non di un semplice movimento sociale, ma “crisi nazionale”, crisi generale dei rapporti reciproci tra le classi e la società. Assai chiaramente Lenin scrive in proposito nel Che fare?: “…La conoscenza che la classe operaia può avere di se stessa è indissolubilmente legata a una precisa conoscenza dei rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea, conoscenza non solo teorica quanto piuttosto meno teorica che fondata sull’esperienza della vita politica”. Sottolineiamo: questa conoscenza dei rapporti reciproci tra tutte le classi deriva dall’esperienza della vita politica. Si tratta infatti di “seguire le pulsazioni dell’insieme della vita politica”2. Per questo “la nostra rivoluzione è quella dell’intero popolo”. Lo strumento privilegiato dell’esperienza propriamente politica è il partito: la sua mediazione collega la strategia e la tattica, in un tempo che non è più quello, omogeneo e vuoto, dei progressi e della pazienza elettorale, ma quello pieno, contorto, ritmato dalla lotta e lacerato dalle crisi: “La rivoluzione stessa non potrebbe neppure essere rappresentata nella forma di un unico evento; sarà invece una successione rapida di esplosioni più o meno violente, alternate da fasi di calma più o meno profonde. Per questo l’attività essenziale del nostro partito, il centro della sua attività, deve essere un lavoro possibile e necessario nei periodi delle più violente esplosioni come in quelli di calma, un lavoro cioè di agitazione politica unitaria per tutta la Russia”. Il partito è quindi l’elemento di continuità nelle fluttuazioni della coscienza collettiva. La storia non è la marcia trionfale di qualche forza tranquilla verso uno svolgimento garantito, ma è un complesso di lotte, di crisi, di rotture. Il partito non si accontenta di illuminare un processo organico e naturale di emancipazione sociale, ma è costitutivo di rapporti di forza, generatore di iniziative, organizzatore della politica, non coniugata al futuro semplice ma al futuro anteriore. È, in altri termini, l’organizzatore di durate diverse, la condizione di un pensiero strategico che supera l’orizzonte immediato della tattica politicista quotidiana, contingente, priva di principi. Questo approccio, originale rispetto alla cultura dominante nella Seconda Internazionale, rende concepibili le scelte e l’atteggiamento adottato nelle cruciali giornate del luglio 1917, quando il partito fu chiamato a impegnarsi in un’azione che non si era augurato, al fine di limitarne gli effetti negativi, di ricavarne le lezioni, di contenere il riflusso e preparare il contrattacco. Il principale rimprovero rivolto al leninismo – meno al “leninismo sotto Lenin”, alle effettive idee di Lenin, quanto alla vulgata del “leninismo” stalinizzato – si riferisce alla convinzione a posteriori che il concetto di partito d’avanguardia porti in seno, fin dall’origine, tutti i gradi della sostituzione dell’apparato al movimento sociale reale e pertanto tutti i gironi dell’inferno burocratico. Non sarebbe giusto minimizzare questo aspetto che richiede una discussione più profonda dei consueti regolamenti di conti, anche se questa dimensione, davvero reale, del problema ne nasconde un’altra, non meno importante, tanto più che lo stesso Lenin esista, e non misura sempre la portata delle proprie innovazioni. Pensando di parafrasare un testo canonico di Kautsky, nella sostanza lo modifica. Là dove Kautsky scrive che “la scienza” giunge ai proletari “dall’esterno della lotta di classe”, portata “dagli intellettuali borghesi”, Lenin traduce che “la coscienza politica” (e non la scienza) giunge “dall’esterno della lotta economica” (e non della lotta di classe che è tanto politica quanto sociale), portata non dagli intellettuali in quanto categoria sociologica, ma dal partito in quanto agente specificamente politico. La differenza è rilevante e ancora una volta riguarda la specificità della politica. Questa concezione rompe con la tradizione dominante del movimento socialista dell’epoca. Nel commento per l’anniversario del Manifesto comunista, Antonio Labriola sostiene decisamente, nel 1898, che “l’auspicata unione dei comunisti con i proletari è ormai un fatto compiuto”. Con l’entrata in scena della “massa operaia”, il movimento si è rallentato e il partito di massa appare come una specie di incarnazione politica della classe. Quest’idea si ispira a formule di Marx secondo cui la progressiva organizzazione del proletariato in partito politico e in classe sono sinonimi; l’essere sociale e l’essere politico si ricollegano nel partito. Lenin, al contrario, sottolinea la rottura di continuità tra il conflitto “economico” immediato e il conflitto politico mediato, e ancora più precisamente rifiuta di “mescolare il problema della classe con quello del partito”, il contenuto sociale con la sua espressione politica. Infatti, la lotta di classe non si riduce al conflitto dell’operaio contro un padrone, ma “contro la classe capitalista tutta intera”. Così la socialdemocrazia rivoluzionaria in quanto partito politico “rappresenta” la classe lavoratrice nei suoi rapporti non solo con un determinato gruppo di imprenditori, ma anche con “tutte le classi della società contemporanea e con lo Stato come forza politica organizzata”3. Si tratta di fondere in un tutto indissolubile il movimento spontaneo con l’attività del partito rivoluzionario. Da qui il ruolo decisivo della stampa – come organizzatore collettivo – per unificare le lotte e iscriverle in una visione d’insieme. La politica non è quindi il semplice prolungamento e il riflesso della lotta economica, ma un’arte specifica dell’iniziativa e del movimento, della delimitazione e della combinazione delle forze. Occorre delimitarsi prima di unirsi e per unirsi, “utilizzare tutte le manifestazioni di scontento, elaborare perfino i più minuti elementi della protesta, anche la più embrionaria” concepire la lotta politica come “più ampia e più complessa di quanto non sia la semplice lotta degli operai contro il padrone”4. Quando il Raboceie Dielo fa derivare gli obiettivi politici dalla lotta economica, Lenin gli rimprovera “di abbassare il livello della multiforme attività politica del proletariato” e stima illusorio credere che “il movimento puramente operaio” sia in sé capace di elaborare una ideologia indipendente. Il solo sviluppo spontaneo del movimento operaio porta “a subordinarlo all’ideologia borghese”. L’ideologia dominante non è solo manipolazione di coscienze, ma un effetto obiettivo del feticismo della merce. Non vi è via d’uscita dal ferreo cerchio del feticismo e della servitù involontaria se non attraverso l’elaborazione delle categorie della rottura, della crisi, della rivoluzione e attraverso la lotta politica dei partiti. [rouge]La distinzione tra il politico e il sociale[/rouge] Tutto porta, secondo Lenin, a verificare che la politica ha una sua grammatica e una sua sintassi ed è luogo di una elaborazione, di una apparizione, di una rappresentazione in cui si tratta di presentare quel che è assente: “La divisione in classi è certo in fin dei conti l’assise più profonda del raggruppamento politico”5. Ma questo “in fin dei conti” lo stabilisce la lotta politica. Così: “Il comunismo sorge letteralmente da ogni punto della vita sociale; esplode nei fatti da più parti. Per quanto si chiuda con cura uno degli sbocchi, il contagio ne troverà un altro, magari il meno prevedibile”6. Per questo “noi non sappiamo, non possiamo sapere quale sarà la scintilla che determinerà l’incendio”. Da qui la parola d’ordine che, secondo Tucholsky, riassume il vero atteggiamento politico di Lenin: “Siate pronti!”. Pronti all’imprevedibile, all’improbabile, all’evento. Se la politica talvolta è definita come “l’espressione concentrata dell’economia” essa “non può non avere la primazia sull’economia”. “Sostenendo la fusione dei punti di vista economico e politico” Bukarin, al contrario è “scivolato verso l’eclettismo”. Per questo, nel 1921, perfino il nome dell’Opposizione operaia era criticato come “un cattivo nome” che ripiega di nuovo il politico sul sociale e pretende che la gestione dell’economia nazionale ricada direttamente “sui produttori, riuniti in sindacati di produttori”. Per Lenin, la storia delle rivoluzioni è “sempre più ricca di contenuto, più varia, più multiforme, più viva, più ingegnosa di quanto non pensino i migliori partiti, le avanguardie più coscienti delle classi più avanzate”. Vi è per questo una ragione profonda: “Le migliori avanguardie esprimono la coscienza, la volontà, la passione, l’immaginazione di decine di migliaia di uomini mentre la rivoluzione è, in momenti di esaltazione e di tensione particolare, opera della coscienza, della volontà, della passione, dell’immaginazione di decine di milioni di uomini sollecitati dalla più aspra delle lotte di classe”. E ne ricava due conclusioni pratiche di grande importanza: “La prima è che la classe rivoluzionaria, per assolvere il suo compito, deve impossessarsi, in tutte le forme e in tutti i lati, dell’attività sociale; la seconda è che la classe rivoluzionaria deve mantenersi pronta a lasciare bruscamente una forma per un’altra”7. In questa problematica, il linguaggio politico ha i suoi lapsus rivelatori e permette una interpretazione non sociologica del ruolo degli studenti e degli intellettuali nelle lotte sociali. Per questo “l’espressione più rigorosa, più completa e meglio definita della politica di classe è la lotta dei partiti”8. Nel dibattito del 1915 sulla questione dell’ultra-imperialismo, Lenin coglie il pericolo di un nuovo economicismo, apolitico, secondo cui la maturità dei rapporti capitalistici e la loro centralizzazione mondiale renderebbe impossibile alcune forme politiche e preluderebbe a un crollo quasi naturale del sistema. A suo parere, l’epilogo avviene nei termini specifici della lotta politica. Si ritrova la stessa preoccupazione, contro qualsiasi riduzione del politico al sociale o alla storia, nelle discussioni con Trotskij sulla caratterizzazione dello Stato dei soviet. Trotskij parla di Stato operaio, “ma questo Stato, rettifica Lenin, non è del tutto operaio, ecco il fatto”9. Per coglierne la singolarità, le categorie sociologiche sono meno adatte di quelle propriamente politiche. La sua formula è più descrittiva e più complessa, non riducibile in ogni caso a un contenuto sociale unilaterale. Sarà uno Stato operaio e contadino con “deformazioni burocratiche”, ed “ecco la transizione in tutta la sua realtà”. Le implicazioni di questa concezione della politica si verificano in quasi tutte le controversie importanti del periodo. Nel dibattito sui sindacati, di cui Trotsky difende la militarizzazione in nome di un comunismo di guerra, Lenin sostiene una posizione originale10. Poiché non costituisce un organo politico di potere, il sindacato non potrà trasformarsi in un “organismo coercitivo dello Stato”. Si situa nel sistema, “per così dire”, “tra il Partito e lo Stato”11. Nei primi anni della rivoluzione non vi furono restrizioni al diritto di sciopero e il consiglio dei commissari organizzò persino un fondo di resistenza12. Allo stesso modo, la questione sindacale viene affrontata nella sua specificità politica, in quanto questione democratica, fuori da qualsiasi schema sociologico astratto. Occorre considerare il problema dal punto di vista psicologico: la minima parte di costrizione che vi entri “inquina, vizia, annulla l’indiscutibile portata progressista della centralizzazione”. [rouge]Il pluralismo nella rappresentanza[/rouge] La costante insistenza di Lenin sulla distinzione tra partito e classe, sulla specificità della lotta politica e del suo linguaggio, porta logicamente alla pluralità della rappresentanza. Se il partito non è la classe, ne consegue che una stessa classe può essere politicamente rappresentata da partiti diversi, e che “la rappresentanza del sociale nel politico” deve costituire oggetto di elaborazione di regole e di istituti. Lenin non va oltre, ma apre uno spazio politico originale e ne esplora le tracce. Sottomette, anche, la rappresentanza a regole ispirate dalla Comune di Parigi, tese a limitare la professionalizzazione della politica: stipendi identici a quelli di un operaio specializzato, vigilanza contro i privilegi delle funzioni, responsabilità nei confronti dei rappresentati. Contrariamente a una duratura leggenda, non sostiene il mandato imperativo. Né all’interno del partito: “I poteri dei delegati non devono essere limitati da mandati imperativi”; nell’esercizio delle loro funzioni “essi sono completamente liberi e indipendenti”. Né negli organismi dello Stato in cui “il diritto di revoca dei deputati” non va confuso con un mandato imperativo che riduca la rappresentanza al semplice riflesso corporativo di interessi specifici e di punti di vista localistici, incapaci di sintesi possibili, che svuotano di ogni sostanza la deliberazione democratica. Per quanto concerne il pluralismo, Lenin afferma costantemente che “la lotta delle sfumature” nel partito è “inevitabile e necessaria”, fin che si svolga nei limiti “approvati di comune accordo”. Sostiene anche “la necessità di garantire, negli statuti del partito, i diritti di qualsiasi minoranza, al fine di allontanare dall’abituale corso filisteo degli scandali e delle meschine discussioni, le continue e inevitabili occasioni di scontento, di irritazione e di conflitto, al fine di ricondurle nel canale non ancora consueto di una lotta regolata e dignitosa in difesa delle proprie convinzioni. Tra queste garanzie assolute, va intesa l’attribuzione alla minoranza di uno (o più) raggruppamenti ideologici con diritto di rappresentanza al congresso e con il più completo diritto di espressione”13. E più in generale, sulle questioni di maggior rilievo, non esita a preconizzare un referendum nel partito. Persino la famosa disciplina nell’azione è meno intangibile di quanto non voglia la leggenda. Si sa della grave indisciplina di Zinoviev e di Kamenev che avevano pubblicamente preso posizione, nel settembre del ’17, contro il progetto di insurrezione, senza essere durevolmente allontanati dalle loro responsabilità. Lenin stesso rivendicava, in circostanze estreme, un personale diritto alla disobbedienza e, per riprendere la propria “libertà d’agitazione” alla base del partito, si ripromette di dimettersi dalle proprie responsabilità. In un momento critico scrive al Comitato centrale: “Me ne sono andato là dove non volete che vada (allo Smolny). Arrivederci”. Spinto dalla propria logica a elaborare la pluralità della rappresentanza, Lenin non arriva però a fondare i principi del pluralismo, e questo almeno per due ragioni. In primo luogo, perché eredita dalla Rivoluzione francese l’illusione secondo cui, una volta rovesciati gli oppressori, il processo di omogeneizzazione della classe è solo questione di tempo e non sono più immaginabili contraddizioni in seno al popolo. Occorrerà attendere Trotskij e gli anni Trenta per vedere il pluralismo fondato su ragioni di principio, sulla constatazione dell’eterogeneità permanente delle forze sociali in un contesto internazionale determinato: dal momento che una classe resta “lacerata da antagonismi interni” essa può costituire “diversi partiti”14. La distinzione del sociale dal politico, poi, non impedisce il rovesciamento del tradizionale assunto secondo cui il politico si dissolve nel sociale. Con l’instaurazione della dittatura del proletariato, appare ormai il rischio simmetrico dell’assorbimento del sociale nel politico. Lenin stesso non ha forse ripreso l’equivoco dell’estinzione della politica e dello Stato quando pronosticava “l’estinzione della lotta dei partiti in seno ai soviet”15? Marcel Liebman segnala che in Stato e Rivoluzione, i partiti perdono la loro funzione a vantaggio di una democrazia diretta che non è affatto uno Stato separato. Contrariamente alle iniziali speranze rivoluzionarie, la contro-rivoluzione burocratica, la statalizzazione della società vincerà sulla socializzazione dello Stato. Trotskij ne sottolineerà la constatazione più evidente: “Lo Stato sono io! è una formula quasi liberale al confronto con la realtà del regime totalitario di Stalin… A differenza del Re Sole, Stalin può dire a buon diritto! La società sono io!”16. Paradossalmente, Lenin come Marx si sbagliano tanto dal loro lato libertario, quanto da quello autoritario. Qui è la loro debolezza. La faccenda è tragicamente complicata poiché si tratta di fondare una nuova legittimità – non riducibile al gioco ordinario dei partiti e del parlamentarismo – ma di inventare una nuova forma di rappresentanza che riconcilii l’uomo e il cittadino, il rappresentante e il rappresentato. Di fronte allo strato, “incredibilmente sottile” degli operai d’avanguardia, decimati dalla guerra civile e dalla carestia, Lenin si rassegna a una dittatura del partito, a un rovesciamento della piramide del potere che non costituiva il suo progetto iniziale. Da allora, la rivoluzione si regge sulla punta, in un equilibrio catastrofico, pateticamente messo in luce dalla sua “ultima battaglia”. [rouge]La porta stretta della crisi rivoluzionaria[/rouge] Che si tratti di rappresentanza, di organizzazione o di strategia, il pensiero politico di Lenin è elaborazione di una specifica temporalità che culmina nella comprensione delle crisi, delle guerre e delle rivoluzioni, dei momenti insurrezionali decisivi. Secondo il punto di vista maggioritario della Seconda Internazionale, la guerra non è vero elemento fondativo dello sviluppo del progresso umano, ma è una parentesi da chiudersi il più presto possibile. Deve cessare quanto prima, perché le cose riprendano il corso normale. Questo pacifismo differisce in modo radicale dal disfattismo rivoluziona Bandiera Rossa n° 75, dicembre 1997, gennaio 1998
Documents joints
- Vedere la mia tesi su “La nozione di crisi rivoluzionaria di Lenin”, sotto la direzione di Henri Lefebvre, Nanterre, 1967-1968.
- Lenin, Œuvres IX, p. 119 et XV, p. 298.
- Lenin, Œuvres V, p. 408.
- Ibid. p. 440-463.
- Lenin, Œuvres VII, p. 41.
- Lenin, Œuvres XXXI.
- Lenin, Œuvres XXXI, p. 92.
- Lenin, Œuvres X, p. 15.
- Lenin, Œuvres XXXII, p. 16.
- Cf. Pierre Broué, Trotskij, Fayard. Vedere anche Ernest Mandel.
- Lenin, Œuvres, XXXII, p. 12.
- Cf. Marcel Liebmann, le Léninisme sous Lénine, Seuil, II, p. 198.
- Lenin, Œuvres VII, p. 470.
- L. Trotskij, la Révolution trahie.
- Lenin, Œuvres, XXV, p. 335.
- L. Trotskij, Staline, Grasset, Paris.