Innanzitutto, è positivo che ci sia questo dialogo tra docenti universitari che si rifanno, per un verso o per un altro, al marxismo critico, ed esponenti della sociologia critica. Sorprende inoltre che questo incontro avvenga così in ritardo perché, da qualche anno, siamo stati perlopiù impegnati in battaglie comuniste (gli scioperi del 1995, l’appoggio agli immigrati, la prospettiva di un’Europa sociale, nonché – in larga misura – la guerra dei Balcani). I rapporti, tuttavia, non sono andati oltre una cortese coabitazione. C’è da pensare che l’ambiente universitario, forse traumatizzato dalle passate esperienze, si attenga a una prudente coesistenza (più o meno pacifica), a svantaggio di una franca discussione, che potrebbe benissimo essere amichevole. Ad ogni modo, il dibattito di oggi segna un duplice incontro, tra due culture critiche, per un verso, ma anche -stando ai partecipanti e per la composizione della sala -, tra generazioni. Diciamo, per semplificare, che i “marxisti” presenti sono reduci (sicuramente valorosi) degli anni Sessanta e Settanta, mentre i sociologi critici appartengono piuttosto alla generazione che si è formata alle scienze sociali negli anni Ottanta o Novanta. Ci auguriamo quindi che i nostri scambi contribuiscano a una migliore reciproca comprensione.
Importanti punti d’accordo
Forse è utile, onde evitare qualsiasi fraintendimento, cominciare riprendendo quanto mi sembra costituisca un’area notevole di accordo, che sintetizzerei in quattro punti.
In primo luogo, condividiamo la critica alle impostazioni essenzialiste o sostanzialiste (relativa soprattutto all’analisi delle classi sociali). Un approccio in termini di rapporti e relazioni mi sembra non solo compatibile, ma coerente con un aspetto a mio avviso cruciale della critica dell’economia politica in Marx. In questa, il valore non ha il ruolo di sostanza ma, al pari del capitale, si presenta come un dato economico. Si tratta appunto di rapporti sociali, di un sistema di relazioni storicamente date degli uomini in rapporto fra loro e di questi con le loro condizioni naturali di riproduzione. Donde la logica del Capitale (note di Fausto, Tombazos, Smith) come logica del divenire e non dell’essere o dell’essenza.
Possiamo inoltre riferirci a quello che io chiamo un “ragionevole costruttivismo”, di cui offre un buon esempio il libro di Edward Thompson su La formazione della classe operaia inglese. Egli infatti mette lo sviluppo delle tecnologie, delle condizioni e dell’organizzazione del lavoro in relazione in rapporto con la formazione di un discorso e di pratiche sociali costitutive della “classe operaia inglese”. Si può interpretare in una prospettiva analoga la dialettica tra la classe probabile e la classe mobilitata in Bourdieu, sottolineando come questo costruttivismo non si riduca a una convenzione o a un gioco di parole, ma rimandi a trasformazioni reali; altrimenti, perché la classe sarebbe probabile anziché improbabile?
Concordiamo, ancora, sul fatto di tenere conto della pluralità e complessità delle appartenenze che determinano la singolarità di ciascun individuo. Sì, l’individuo è questo e quello, o quell’altro ancora: lavoratore, salariato, donna, di una determinata origine, lingua, religione, ecc., e l’accento tra queste appartenenze si sposta nei comportamenti in funzione di situazioni concrete. Il titolo di Bernard Lahira, “L’uomo plurale” è perciò adeguato, o la formula di “me molteplice”. Considerare tuttsavia l’uomo plurale non significa accontentarsi dell’uomo frantumato o del me disperso, suggeriti dalle espressioni del tipo “scoppiare afferrandosi il piede”. Una certa immagine dello smembramento corporeo rinvia piuttosto a disordini psichici che non alla liberazione. Di qui l’importanza di individuare, in una situazione data, ciò che salda diverse appartenenze e rappresenta la persona come tale.
Infine, la teoria dei campi (e dei capitali) può sicuramente aiutare a concepire la pluralità degli specifici modi di dominazione e la discordanza dei tempi (i fenomeni di asincronia o non contemporaneità). Ad esempio, i diversi campi non si trasformano allo stesso ritmo. I rapporti di classe, quelli di sesso, i rapporti della società con gli eco-sistemi rispettano cadenze temporali diverse, e non è perché si sia adottata una legge sull’appropriazione sociale
che si è chiuso con il complesso di Edipo. La discordanza dei tempi, del resto, è presente in Marx, in forma di “contrattempi”, e in Althusser nella critica dello storicismo. Sarebbe peraltro interessante confrontare la teoria dei campi con quella dei “corpi sociali”, sviluppata da Claude Meillassoux a partire dalle sue ricerche antropologiche, che consente soprattutto di rinnovare lo studio dei fenomeni burocratici.
Pluralità e articolazione
La problematica della pluralità dei campi solleva tuttavia un problema che può essere gravido di implicazioni strategiche. Se i vari campi fossero semplicemente giustapposti, come una sorta di mosaico sociale, i/le dominati/e di questi campi potrebbero annodare e sciogliere alleanze congiunturali e tematiche (del resto, è il presupposto delle coalizioni “arcobaleno” a geometria variabile nei paesi anglosassoni), ma la loro convergenza o unificazione non avrebbe alcun fondamento reale. Ogni sforzo per tenerli insieme dipenderebbe da un colpo di mano o da un volontarismo etico. Si ricadrebbe in questo caso nelle forme peggiori del concetto di avanguardia. Salvo, appunto, adattarsi alla dispersione priva di progetto comune e di attribuire ai vari movimenti sociali il semplice ruolo di gruppi di pressione sulla rappresentanza politica, ma in alcun modo quello di alternativa alle politiche vigenti.
Questo problema spinoso viene perlopiù eluso con un artificio verbale. Si invoca l’“autonomia relativa” delle distinte dominazioni e dei diversi movimenti, oppure l’“articolazione dei campi”, o il loro essere “omologhi”. Sono formule che sembrano jockers che negano il problema invece di risolverlo: perché infatti i campi dovrebbero essere tra loro omologhi? Come è concepibile e possibile la loro articolazione? E se la loro è un’autonomia relativa, lo è in rapporto a che cosa? Un primo elemento di risposta riguarda il fatto che tutti i campi (economico, politico, sociologico, o anche mediatico o filosofico) non sono equivalenti. “Nelle società contemporanee”, sottolinea B. Lahire, “l’universo economico non è veramente distinto dagli altri universi”: anche quando coltiva al livello più alto la propria autonomia, un campo incontra sempre, in un certo momento o in un altro, “la logica economica che è onnipresente”. Pierre Bourdieu sottolinea da parte sua come il campo politico presenti la peculiarità di non riuscire “mai ad autonomizzarsi completamente”, in quanto stabilisce pertinenti principi di visione e di divisione che rinviano alla struttura complessiva e alla riproduzione sociale. Così, privilegiare una visione in termini di classi e di lotta di classe, di contro a una visione secondo cui il discrimine sarebbe tra nativi e stranieri, rinvia a problemi economici e sociali oltre che simbolici.
Infine, per il suo stesso titolo, “Il nuovo spirito del capitalismo” di Boltansky e Chiapello implica l’ammissione di un certo grado di coerenza sistemica, che si ritrova nella preoccupazione degli autori di non considerare sfruttamento ed esclusione come fenomeni separati, ma come le due facce di un unico processo. Il loro libro segna così un movimento che ritorna dalla microsociologia (e dai suoi indiscutibili apporti) alla macrosociologia. Analogamente, dopo l’infatuazione per la microstoria, le sue biografie e le sue monografie, il recente interesse per i grandi affreschi globalizzati, quelli di Furet, di Hobsbawn o di Wallerstein, dimostra un analogo sviluppo. Rispetto alla storia, Robert Bonnaud, nelle sue cronache della Quinzaine littéraire, aveva da tempo posto l’accento sulle sfide metodologiche e le implicazioni teoriche di questo dibattito. C’è però un punto su cui l’opera di Boltansky e Chiapello sembra esitare, ed è sullo sdoppiamento di quella che chiamano la “critica estetica” (ponendo l’accento sui fenomeni di alienazione) e la “critica sociale” (ponendo l’accento sulle ingiustizie e le disuguaglianze). Da un punto di vista descrittivo, la distinzione è utile: mentre le due critiche sembravano strettamente connesse negli anni Sessanta/Settanta, appaiono ormai dissociate (se non contrapposte) negli anni Ottanta/Novanta. Così, ormai si distinguono i problemi sociali dalle “questioni societarie”, che riguardano la modernizzazione delle istituzioni, dei rapporti di sesso o dell’approccio all’ambiente. La distinzione si ritrova sia negli stessi discorsi governativi, sia nel lessico di Daniel Cohn-Bendit. Questa distinzione viene illustrata a meraviglia in un articolo di Jacques Juillard, che contrappone la sinistra sociale alla sinistra etica, gli scioperi corporativi del dicembre 1995 alla generosa solidarietà con gli immigrati del febbraio 1997, il color seppia dei proletari al colore vivace e ai lampi intensi dei cineasti, i postulanti universitari di un tempo alle rivendicazioni professionistiche dei nuovi intellettuali. A parte il fatto che si tratta di una distinzione eccessiva (se si considerano le forze sindacali, politiche e associative implicate in questi vari movimenti ci si accorge della presenza di un consistente filone comune), essa suscita un problema di interpretazione. Si tratta di una distinzione stabile, che rinvia a trasformazioni di fondo della società, o di un effetto congiunturale delle sconfitte politiche e sociali subite nel corso degli ultimi decenni? Ad esempio, riprendendo da parte sua non pochi temi della postmodernità, Richard Rorty mette in guardia circa il fatto che essa possa trasformarsi nell’ideologia del pessimismo e della rinuncia, attraverso l’interiorizzazione del logoramento dei rapporti di forza sociali.
Boltansky e Chiapello su questo non si pronunciano. Ritengo, da parte mia, che vi siano sicuramente differenze fra critica sociale e critica estetica. Che esse rimandino a strati e priorità differenti, a seconda della collocazione nella distribuzione e nella gerarchia sociale. Ma tali differenze sono state spinte fino alla dissociazione dalle ripercussioni degli anni Ottanta, vale a dire da condizioni politiche congiunturali. In effetti, era in atto una tendenza pesante, proprio in quegli anni: quella indicata con il termine impreciso di “mondializzazione” (o “globalizzazione”). Se si precisa che si tratta più esattamente di una mondializzazione mercantile connessa alle attuali forme di accumulazione del capitale, risulta allora che il Capitale e la mercificazione del mondo sono, ben più che nel secolo scorso, i principali agenti dell’unificazione. La grande narrazione ventriloqua è sopravvissuta alla morte annunciata delle meta-narrazioni. Oggi ancor più di ieri il Capitale è il principale soggetto impersonale alla cui ombra – come dice Jean-Marie Vincent – siamo condannati a pensare. Ed è qui che intervengono i concetti decisivi di alienazione, di feticismo, di reificazione, che hanno a che fare esattamente con la condizione del lavoro salariato.
Al riguardo, si pone un problema importante: non rischiamo, insistendo sui fenomeni che pongono chi è dominato in condizione di subalternità ai dominanti, o sottolineando l’implacabile logica della riproduzione sociale, di trasformare la dominazione, nelle sue varie forme, in una morsa di ferro senza sbocco? Quale possibilità c’è di resistere e di infrangere questa morsa? Si tratta di un dibattito che va ben oltre quello che ci siamo proposti per oggi e che potremmo riservare a un’ulteriore riunione.
La logica di fondo del Capitale
Dire che il Capitale è il principale soggetto dell’epoca, la cui falsa totalità (la totalità astratta) grava con tutto il suo peso su tutte le sfere della vita sociale, può apparire come una mera formula magica. Si può comunque tornare sul concetto di sovradeterminazione utilizzato da Althusser (e dio sa che non sono mai stato althusseriano), che evita la nozione scarsamente dialettica di riflesso o di semplice casualità meccanica tra strutture. Ci troveremmo così di fronte a varie contraddizioni sovradeterminate dalla logica del capitale. L’ipotesi non è priva di argomenti, se appena si ritorni alle modalità concrete delle diverse “articolazioni”.
I pericoli ecologici non si limitano certamente all’“ecocidio” capitalistico (il Mar d’Arai o Chernobyl illustrano le possibilità altrettanto catastrofiche della distruzione burocratica degli equilibri ecologici). Resta comunque il fatto che, qui ed ora, in una formazione sociale storicamente data, il problema dei rapporti dell’uomo con le sue condizioni naturali di riproduzione e sovradeterminate dalla legge del valore, vale a dire dalla riduzione dei rapporti sociali a una “misura miserabile” (e cioè quella del tempo di lavoro astratto). I dibattiti sul ruolo e l’ammontare delle eco-tasse o sull’istituzione di un mercato dei diritti all’inquinamento illustra efficacemente quale rischio vi sia nell’affidare ai monitoraggi brevi (in tempi reali, come si usa dire, come se non esistessero i tempi lunghi!) fenomeni quali il riscaldamento del clima, le conseguenze dell’effetto serra, lo smaltimento dei rifiuti, la deforestazione, che dipendono da altre dimensioni temporali e da altri ritmi (secolari, se non millenari). Altrettanto vale per i problemi aperti dalle biotecnologie circa l’umanità che vogliamo o meno diventare, che non sono riducibili a criteri di classe e a imperativi di profitto. Tuttavia, ancora qui ed ora, non si può scindere la gestione di queste nuove possibilità dal contesto di mercato della loro scoperta e del loro uso, dall’incubo legato alla mercificazione dell’elemento vivente, degli organi, degli embrioni, dei geni e, perché no, un domani, dei cloni.
L’oppressione delle donne (indissolubilmente sociale, sessuale, simbolica) non risale al formarsi dell’economia-mondo mercantile, ma è ben anteriore ad essa e c’è da temere, purtroppo, che sopravvivrà al regno della proprietà privata e del profitto. Si tratta, d’altronde, del motivo di fondo dell’esistenza di un movimento autonomo delle donne. Ma le forme della dominazione e dell’oppressione si trasformano insieme a quelle della formazione sociale. Lo sviluppo capitalistico non ha creato l’oppressione, ma la ha sicuramente rimodellata e riplasmata. Si leggano o rileggano Michelet, Philippe Ariès e, più vicina a noi, la letteratura femminista degli anni Settanta (tra cui i due numeri speciali di Critique Comuniste o il libro curato da Nicole Chevillard). Appare chiaro che la valorizzazione sociale della produzione di mercato e del lavoro salariato svaluta e ricaccia indietro il ruolo del lavoro domestico, modifica quello della famiglia nella riproduzione sociale, ridefinisce la separazione tra sfera politica e sfera privata. Ne risulta un intreccio stretto tra divisione sociale e divisione sessuale del lavoro. Per questo, qui ed ora, la lotta contro l’oppressione è inscindibile strategicamente da quella contro lo sfruttamento. Ciò non significa minimamente che la prima si introduca spontaneamente per effetto dell’appropriazione collettiva. Tuttavia, le trasformazioni dei rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro collocheranno inevitabilmente il problema dell’oppressione nei rapporti di sesso in un nuovo contesto, a partire dai mutati rapporti di forza.
Accade sempre più di frequente (segno dei tempi) che si contrappongano le appartenenze nazionali a quelle sociali, quasi che la nazionalità trascendesse le altre determinazioni sociali. Eppure, se non si vuol ricadere in una concezione naturalistica e sostanzialista della nazione e delle sue “origini”, il problema va affrontato dal punto di vista storico. La nazione non ha lo stesso significato o la stessa funzione se si tratta dell’unificazione appena avviata di un mercato nazionale (a partire approssimativamente dal regno di Luigi XI), della nazione repubblicana della Rivoluzione francese, dell’Unità della Germania o dell’Italia, delle lotte di liberazione nazionale contro la dominazione coloniale. Le attuali reinsorgenze di problemi nazionali irrisolti non possono essere scisse dal contesto della mondializzazione e dalla sua legge di sviluppo ineguale e combinato. Il movimento duplice, di unificazione dei mercati e di frammentazione degli spazi, di creazione di complessi continentali e di rivendicazioni regionalistiche, ravviva le rivendicazioni sociali e nazionali. Ma queste tardive aspirazioni alla sovranità, non potendo tradursi in una concezione civica (o costituzionale, come direbbe Habermas), in altri termini storica e politica, della nazione, ricercano una legittimazione (zoologica, diceva Renan a suo tempo) nel mito delle origini o nella trascendenza religiosa. Donde l’etnicizzazione e la confessionalizzazione dei conflitti come tendenza catastrofica di questa nostra epoca. La dimensione simbolica della rivendicazione nazionale e la sua efficacia specifica non per questo spariscono, ma se ne comincia a cogliere l’“articolazione”, in rapporto ai processi di accumulazione e di riproduzione allargata del capitale.
Si potrebbero fare molti altri esempi. Come affrontare seriamente la questione abitativa senza inserirla nel modo di produzione dello spazio (su cui Henri Lefèbvre ha scritto un libro pionieristico) e senza sollevare il problema della proprietà fondiaria nell’assetto urbano o territoriale? Come affrontare il diritto internazionale (che ha un’incontestabile autonomia relativa e ha a che vedere con tempi lunghi e lenti, messi efficacemente in evidenza in lavori come quelli di Ost), senza entrare nei rapporti tra questo diritto e la formazione dell’organizzazione mondiale del commercio, tra l’emergere dell’ingerenza umanitaria e la dinamica della mondializzazione, tra le nuove gerarchie di dipendenza e di dominazione e la natura dei recenti conflitti armati? Come concepire un campo così specifico come quello giornalistico senza partire dal fatto che il giornale è una merce, che le sue condizioni di riproduzione nell’era multimediale mobilita una mole considerevole di capitali, di tecnologie che operano sulla divisione del lavoro giornalistico (e sulla sua parziale proletarizzazione, analizzata da Louis Accardo), di strutture giuridiche e di alleanze? Tutto questo non ha una ripercussione meccanica diretta sulla produzione dell’informazione, ma non è neppure estraneo agli sviluppi delle forme e dei contenuti di questa (l’ossessione dei tempi reali, dello scoop, l’impaginazione, lo stile impersonale, ecc). Come, infine, affrontare la sfera accademica indipendentemente dallo sviluppo della divisione sociale del lavoro, dal finanziamento delle università, dal rapporto tra privato e pubblico, tra ricerca e produzione?
Spesso, la conclusione che si ricava dalla molteplicità dei movimenti sociali si limita all’enunciazione di un elenco: si mettono in fila le oppressioni di razza, di sesso, di generazioni, religiose, nazionali, ecc., e quelle di classe, pur ponendo un accento gravido di vaghe allusioni sull’ultimo termine che, inserito “nell’elencazione – osserva Ernesto Laclau – perde qualsiasi preciso significato e diventa un significante ambiguo”. In effetti, in Marx il conflitto di classe non è una qualsiasi “n” al termine di un elenco numerico, ma è al cuore dell’estrazione del plusvalore e, quindi, della logica d’accumulazione. E’ del tutto legittimo mettere in discussione questa tesi, ma bisogna farlo seriamente, aggredendo il nocciolo duro della Critica dell’economia politica. Si tratta della condizione richiesta a qualsiasi rivoluzionamento di problematica che approdi a un cambiamento di paradigma. Altrimenti, ogni sforzo teorico si annullerebbe in un eclettismo fragile che sfugge per principio a ogni verifica della realtà.
Certi autori, ad esempio Leclau, hanno perlomeno dalla loro il merito della coerenza. Negando qualsiasi centralità ai rapporti di classe, arrivano ad abbandonare Marx, a rinunciare a qualsiasi alternativa sociale, rassegnandosi all’orizzonte insormontabile della democrazia di mercato ben temperata. Per Slavoj Zizek, invece, gli elementi dell’elenco non sono equivalenti. Ma non basta proclamarlo, bisogna anche dimostrarlo o inficiarlo. E questo compito passa ancora, lo si voglia o no, per i sentieri scoscesi della “critica dell’economia politica” che, ben lungi dal costituire un volgare determinismo economico, contrasta al contrario la concezione naturalistica dei rapporti di mercato e dell’economia, per sovvertirli.
La totalità in questione
Se non ci si vuole accontentare di descrivere la “mondializzazione”, bisogna ricercarne le molle nell’accumulazione allargata e nell’accelerata rotazione del capitale; altrimenti, le spiegazioni normalmente avanzate discendono perlopiù da un determinismo tecnologico (è la conseguenza di Internet…). Oppure, ci si limita ad ammirare il prodigio, il che ci rimanda a una concezione molto mistica dell’andamento del mondo. Per capire meglio la logica in atto, sarebbe particolarmente interessante approfondire il parallelo tra i processi in corso e il grande impulso alla mondializzazione (già) connesso, tra il 1851 e il 1873, allo sviluppo della ferrovia, del telegrafo, della navigazione a vapore, della rotativa, ecc. Sono proprio quegli anni ruggenti gli stessi della redazione e della pubblicazione del Capitale.
Per parte mia, dunque, resto fermo all’ipotesi che il rapporto di sfruttamento rimanga centrale nell’attuale dinamica sociale, purché non la si riduca alla sfera produttiva, ma la si concepisca in tutte le dimensioni della riproduzione sociale (distribuzione dei redditi, divisione del lavoro, sistema educativo, questione abitativa, ecc.). Il problema, infatti, è capire come si produce e utilizza globalmente il sovrapprodotto sociale. Non si può perciò scindere la sfera produttiva da quella della circolazione (consumo) della riproduzione complessiva.
Ritenere che il capitale stesso eserciti una sorta di egemonia sui vari campi, svolgendo il ruolo di mediatore tra questi, solleva questioni teoriche e concettuali di fondo, cui nel quadro di questo incontro possiamo soltanto accennare e che richiederebbero una discussione serrata. Ad esempio, Philippe Corcuff sottolinea “la difficoltà di concepire il globale nella pluralità”. Difficile? Sicuramente. Impossibile? Dipende dall’attrezzatura intellettuale messa in atto e soprattutto dalla pertienenza o meno delle categorie di totalità, di struttura, di sistema; il tutto, inoltre, non è estraneo al problema del rapporto tra produzione delle conoscenze e una qualche ricerca della verità (nozione praticamente sepolta dal gergo postmoderno). Comunque, anche con un approccio pragmatistico che sostituisca la questione della verità con quella dell’utilità, il problema della totalità e della verità, come quello del loro rapporto, non sarebbe risolto. Concepire la società non come sostanza, ma come relazione, va bene: è il nostro punto di partenza. Ma come concepire la relazione tra le relazioni? Rinunciarvi equivarrebbe ad accontentarsi di un mondo di voci e di furore, di frammenti e brandelli, altrimenti impensabile se non in forma poetica.
Non si tratta di una difficoltà nuova. Una totalità astratta, senza mediazioni, sarebbe indubbiamente una realtà dogmatica, se non “totalitaria”. Questa concezione porta con sé un pesante retaggio filosofico. Molti autori, e non dei minori, hanno invece cercato di abbordare diversamente la questione: Henri Lefébvre, parlando di “totalità aperta”; Sartre, parlando di “totalità detotalizzata”; Adorno, opponendosi alla “falsa totalità” del capitale. Per Lukàcs si tratta del banco di prova di qualsiasi pensiero dialettico. Tutti questi tentativi non possono liquidarsi alla leggera, senza un diverso modo di procedere. Lo stesso Bourdieu non rinuncia alla categoria quando si esprime in termini di “ipotetica totalizzazione” o di “totalizzazione al condizionale”. Del resto, come pensare di poter meditare con Pascal (uno dei pochi pionieri del pensiero dialettico in Francia), meditare dunque pascalianamente, sganciandosi dalla teoria di totalità e della duplice inclusione che l’accompagna!
Philippe Corcuff cerca di risolvere la difficoltà recuperando il concetto di formazione sociale, avanzato in precedenza da Poulantzas, scindendolo dal concetto di modo di produzione, ritenuto troppo totalizzante. Non è un tentativo nuovo. Ha avuto corso negli anni Ottanta fra gli althusseriani anglosassoni, senza fornire risultati probanti. Pur non essendo un sostenitore fanatico del pensiero di Poulantzas, si deve nonostante tutto riconoscere che formazione sociale e modo di produzione rappresentano in lui una coppia concettualmente indissolubile. L’una è impensabile senza l’altra, dal momento che la formazione sociale concreta è concepita come un nodo o un accavallamento di modi di produzione non contemporanei. Uno degli esempi migliori di questo passaggio dall’astratto al concreto, dal modo di produzione alla formazione sociale, è fornito – mi si perdoni il riferimento in questa augusta assemblea – da Lenin in Lo sviluppo del capitalismo in Russia. Mi chi ha ancora la pazienza di spulciarsi un malloppo del genere?
Scindere la formazione sociale dal modo di produzione equivale a ridurla a un semplice collage di microrelazioni, ad abbandonare il globale per un minimalismo teorico localistico. Pensiero modesto o pensiero debole, vi sono in questo poste in gioco di notevole portata. Una, e non delle minori, concerne la capacità di distinguere tra la verità e l’errore, tra un ragionamento scientifico e una semplice opinione. Anche qui, ci troveremo d’accordo nel respingere un’idea della verità come sostanza (da scoprire e da possedere), o come l’adeguamento (il riflesso) tra ciò che si pensa è ciò che è. Ma neppure la questione del vero o della veridicità (Greimas parla di crisi della “veridizione”) è risolta: se non esiste criterio di verità, come distinguere la produzione scientifica dal gioco delle opinioni? Bisogna considerare vero quel che semplicemente è maggioritario e ridurre le enunciazioni a rapporti di forza? E anche in una problematica pragmatica come quella di Rorty, davvero non c’è più un nesso fra utilità e verità?
Sembra ragionevole contestare una verità assoluta che costituirebbe l’esatto contrario del senso comune, per concepire il loro rapporto come una tensione. Bisogna infatti cercare di superare l’antinomia platonica tra il filosofo (maestro ben poco socratico di verità) e il sofista demagogo che smercia opinioni. Una traccia feconda consiste certamente nell’inserirsi nella tensione o nella contraddizione, nel concepirle come facenti parte l’una dell’altra e non come estranee fra loro. Bisognerebbe inoltre non accontentarsi di una nozione indeterminata del senso comune. Infatti anche il senso comune ha una storia. Critico nei salotti e nelle società del XVIII secolo, tende a diventare apologetico quando passa a subire l’influenza dell’ideologia dominante. Bisognerebbe quindi approfondire anche le attuali relazioni tra senso comune e ideologia.
Pur potendosi in parte accettare la formula di Bourdieu che parla della verità come “posta in gioco di lotta”, non la si può interpretare, salvo piombare in un relativismo senza sbocco, come mero risultato dei rapporti di forza. Sarebbe del resto in palese contraddizione con lo statuto scientifico (in fondo discutibile) che Bourdieu attribuisce alla sociologia in contrapposizione alla doxa. A titolo indicativo, potrebbe essere utile interrogarsi sui “rapporti di verità” (in Whitehead) o sulle “verità relative” in Lenin, per capire se si tratti di aggirare la difficoltà con un artificio verbale o se si possano trovare piste interessanti.
In ogni caso, non ci si può sbarazzare alla leggera delle categorie di totalità, di sistema e di strutture, senza calcolare le conseguenze di una rinuncia del genere. Si può studiare seriamente l’organico e il vivente senza ricorrere ai concetti di autoregolazione, di omeostasia, di causalità strutturale (del tutto sulle parti)? Si può discutere seriamente di ecologia senza ricorrere agli eco-sistemi? Si può concepire la lingua comune come una mera somma di parole e non come una struttura che determina il senso di una locuzione rispetto a un paradigma e a un sintagma? Si può dire addio alla teoria dei sistemi in Bertallanfy o alle teorie informatiche? Più pertinente sarebbe piuttosto sapere se questi concetti di sistema e di strutture siano trasferibili nell’ambito delle scienze sociali e, se sì, con quali precauzioni.
Per chiudere senza concludere
Torniamo, per terminare, su alcuni punti iniziali.
C’è accordo nel pensare la totalità e la relativa autonomia dei movimenti sociali (al plurale, visto che il termine di movimento sociale postula una unità che crea appunto problema). In compenso, la stessa idea di un’autonomia relativa dovrebbe logicamente avere come corollario quella di una relativa unificazione, non concepita come un dato naturale, ma come un lavoro e un processo strategico. Bisogna inoltre, a rischio di finire in un allarmante volontarismo della ragione, che si diano nella realtà le condizioni dell’unificazione, le condizioni della sua “effettiva possibilità” (Reale Móglichkeit).
Pur esistendo una pluralità di campi, di capitali, di dominazione – e di movimenti –, non tutti svolgono un ruolo equivalente. Basta elencare alcuni “nuovi movimenti sociali” (movimenti antimissile degli anni Ottanta in Inghilterra, in Spagna e in Germania; movimenti antiguerra per l’Algeria o il Vietnam; movimenti di solidarietà; movimento antifascista come Ras l’Front o l’Antifascist League; movimento tematico come Attac; movimento delle donne; movimento sindacale) per verificare come non tutti abbiano lo stesso ruolo o lo stesso peso. Zygmunt Barman ha insistito sulla natura intermittente di alcuni di questi movimenti. I più stabili per la loro durata, malgrado alti e bassi, sono sicuramente il movimento sindacale e quello delle donne. Non è probabilmente un caso, ma la conseguenza del fatto che i campi cui si riferiscono – il rapporto di sfruttamento e la dominazione di sesso – svolgono un ruolo particolare nelle società contemporanee.
Occorrerebbe spingere la riflessione sul ruolo specifico della sfera politica e sulla forma della sua autonomia. E’ l’invito che ci rivolge Bourdieu nelle sue conferenze, specie quando sottolinea il “difficile problema, per gli intellettuali, di entrare in politica senza diventare dei politici”, o quando cerca “il modo di dare forza alle idee senza entrare nel campo e nel gioco politico”. Una traccia di risposta potrebbe consistere nell’estendere l’ambito politico, battendosi contro la sua chiusura Ma questa politica dal basso, quella che si inventa e si produce nei movimenti sociali, deve arrestarsi alla soglia della sfera politica (e delle sue pratiche istituzionali), con il rischio di rendere maturali due campi – quello sociale e quello politico – irrimediabilmente distinti; con il rischio, quindi, di perpetuare la frattura tra una politica professionistica e movimenti sociali costretti a limitarsi alla funzione di gruppi di pressione?
Infine, per valutare meglio tutti gli aspetti della discussione, sarebbe certamente utile collegarla alle controversie cui hanno dato luogo i discorsi postmoderni nei paesi anglosassoni. Autori che si richiamano al marxismo, come Fredric Jameson, riconoscono ai discorsi filosofico ed estetico postmodernisti una portata critica, che riguarda soprattutto la dissacrazione delle grandi ipostasi (Dio, il Vero, l’Arte, il Progresso, o qualsiasi altra maiuscola sostituzionista come la Storia o l’Umanità). Su questo, la tradizione marxista viene interpellata in modo promettente. Bisogna inoltre esaminare il rapporto fra discorsi e pratiche e la legittimazione spesso fornita dal gergo postmoderno alla rassegnazione di fronte alla democrazia di mercato, come pure le conseguenze della dissoluzione delle differenze strutturanti in un’amorfa diversità, in cui i movimenti sociali diventano un minestrone.
Il compito è vasto. Speriamo soltanto che il promettente dialogo affrontato oggi abbia un seguito e permetta l’apporto di altri contributi.
Ciclostilato settembre 2005