Teoria del valore, lavoro e classi sociali

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“Per entrare nella lotta non è necessario possedere le chiavi del paradiso della città perfetta.
È resistendo a ciò che sembra irresistibile che diventiamo rivoluzionari, senza saperlo.”

Daniel Bensaïd, Marx l’intempestivo, 1999
Alegre, Roma, 2007

[rouge]Presentazione della rivista[/rouge]
Henrique Amorim, Leandro de Oliveira Galastri

Daniel Bensaid è morto lottando, il 12 gennaio 2010. Partecipava in prima fila alla guerra contro il capitale, ed era una figura eminente dell’impegno di costruzione del Nuovo Partito Anticapitalista in Francia, nato ufficialmente nel gennaio 2009. Fu anche uno dei fondatori della rivista Contretemps, che ha cercato di essere uno strumento intellettuale di rinnovamento delle strategie della sinistra rivoluzionaria francese. Sono stati gli ultimi atti di una vita interamente guidata dalla convinzione della militanza socialista, fin dalla fine degli anni Sessanta, quando Bensaid era già uno degli acuti giovani critici dello status quo nell’ondata della contestazione del Maggio ’68 in Francia.

Notevole filosofo marxista della contemporaneità, una delle sue recenti elaborazioni teoriche più interessanti è stata quella della «discordanza dei tempi», o delle differenti temporalità storiche. Proponeva una nuova scrittura della storia (Bensaid, 1999), che sarebbe «una nuova scrittura e un nuovo ascolto del tempo». Il tempo, per lui, si concretizzerebbe nell’esistenza degli spazi sociali. Senza la separazione dicotomica tra tempo e spazio, sostiene, citando Hegel, che il «tempo è la verità dello spazio» (ibidem). Così, l’esistenza dei diversi spazi sociali costituirebbe l’occasione delle varie temporalità concomitanti della storia, un insieme pieno di rotture da cui uscirebbe «un vortice di cicli e spirali, di rivoluzioni e restaurazioni» (ibidem).Trattare la storia come l’insieme delle sue varie temporalità sarebbe quindi sempre, in qualche modo, trattare del presente. E qual è il luogo della politica? Se quel che è in gioco sono le potenziali soluzioni del presente, la storia è superata dalla politica. Il presente, quindi, cesserebbe di costituire un momento della continuità temporale e si trasformerebbe in scontro per la scelta di possibilità; in questo, l’azione rivoluzionaria diventa una lotta dai risultati imprevedibili.

Si può allora considerare la lotta anticapitalista sostenuta da Bensaid come inserita nella disputa per stabilire queste potenzialità storiche contro il vigente sistema dominante. Secondo lui, la dominazione in seno alla società capitalista si costruirebbe – e, ove fosse necessario, si rigenererebbe – attraverso un «circolo vizioso», espressione mutuata da Marcuse. L’autore tedesco formula il concetto di «circolo vizioso della dominazione» a partire dalla sua analisi della società capitalista di consumo di massa degli anni Sessanta, che considera come la «società tecnologica». Questa società offrirebbe la virtualmente piena soddisfazione delle necessità e dei desideri delle persone, in quanto riuscirebbe essa stessa a forgiare queste necessità e questi desideri. Insomma, creerebbe le necessità adeguate ad essere soddisfatte e consoliderebbe in tal modo la dominazione tramite il consenso, nella parvenza della più ampia libertà. Non vi sarebbe bisognocosì, di reprimere con la forza fisica i desideri da essa stessa creati, controllati e soddisfatti. Le persone si muoverebbero, in questo caso, in seno a un circolo di dominazione totalitaria, unidimensionale (Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967).

Come complemento di questo circolo vizioso egemone, Bensaid addita la divisione capitalistica del lavoro, che contrapporrebbe tra loro i dominati: disoccupati e coloro che hanno un lavoro, nativi e immigrati, uomini e donne, giovani e vecchi. Alla fine, un’egemonia che si rafforzerebbe anche grazie alla riproposizione quotidiana e obbligata del discorso univoco, grazie all’inquadramento ideologico delle prospettive di trasformazione entro i limiti dell’orizzonte borghese, vale a dire della proprietà privata e dell’individualismo concorrenziale. Discorso univoco che approfondisce le radici della dominazione nei costumi appresi in famiglia, a scuola, al lavoro, che insegnano la sottomissione (Bensaid/Besancenot, Prenons Parti – Pour un socialismo du XXIe siècle, Mille et Une Nuits, Parigi, 2009). Ecco allora la funzione strategica del partito politico, rivoluzionario, naturalmente: rompere quel «circolo vizioso di dominazione». Partito inteso come organizzazione portatrice di una memoria collettiva, fatta di esperienza di lotta, di assimilazione di vittorie e sconfitte, che sappia operare e prendere le decisioni indispensabili nei momenti di acuta crisi del capitale e di rivolta sociale. È a questa funzione che Bensaid sperava si rivolgesse il NPA, che costituirebbe il portavoce di un anticapitalismo di nuovo tipo, non più come critica romantica della società borghese, ma come vessillo allo scopo di raccogliere tutti coloro che, in qualche modo, fossero disposti ad offrire resistenza alle forze del capitale.

Credeva che la lotta contro il circolo vizioso della dominazione dovesse avvenire passo passo, giorno per giorno, contro i preconcetti, la disinformazione, evitando le trappole del «discorso degli altri». Una lotta sicuramente impari, ma con la tenacia che permette di superare i limiti materiali degli strumenti a disposizione, che consente di costruire un discorso proprio. In fondo, «le parole hanno la loro importanza. Pensiamo per parole. Rappresentiamo il mondo tramite parole. E quando le parole sono ambigue, finiamo per pensare ambiguamente» (ivi). L’autore naturalmente ricorda che nelle condizioni stesse della produzione si radica la subordinazione alle idee dominanti. Ed è contro queste condizioni che si dovrebbe incentrare la strategia dell’intera resistenza. La resistenza, di per sé, non è tutto, ed è chiaro che Bensiad lo sapeva. Per lui l’anticapitalismo era, malgrado tutto, almeno l’individuazione chiara del nemico contro cui battersi. Si tratta di un’alternativa cui si dovrebbe, tuttavia, conferire un contenuto rivoluzionario propositivo, che comprenda in linee generali l’uguaglianza, la solidarietà, la messa in discussione dei rapporti di produzione, l’internazionalismo. Vale a dire, una presa di posizione per il superamento del sistema capitalistico, contro il nuovo discorso unidimensionale che ne difende il «recupero o la moralizzazione» (Bensaïd, 2009).

L’intervista che segue aveva affrontato alcuni elementi centrali per l’analisi del capitalismo contemporaneo, quali la teoria del valore, quella delle classi sociali, le nuove forme di sfruttamento del lavoro e le loro conseguenze per i lavoratori. Rilasciata il 5 maggio 2009, Bensaid aveva parlato di questioni rilevanti anche per la letteratura marxista, sociologica e filosofica, contemporanea. L’intervista, registrata in video, della durata di circa due ore, si svolse a Parigi, presso la libreria La Brèche.

Uno dei momenti salienti è la questione della costituzione delle classi sociali. Elaboratore di un’analisi profonda al riguardo nei suoi scritti, in questa intervista l’autore conferma la sua prospettiva critica indicando l’impossibilità di definire a priori le classi sociali, come farebbe la tradizione positivista. Insistendo sull’importanza relativa dei dati storici e statistici per la valutazione degli attuali conflitti sociali, Bensaid compie un’interessante separazione tra una concezione di classe che si basa su criteri sociologici e l’altra, la sua, basata sulla prospettiva strategica delle classi sociali in lotta. Precisa quindi: «Il concetto di classe, secondo Marx, non è riducibile né a un attributo di cui sarebbero portatori i singoli individui che la compongono, né alla somma di questi singoli. È una cosa diversa. È una totalità di relazioni e non una semplice sommatoria» (ivi). La prospettiva sociologica tenterebbe di collocare a ogni costo un gruppo di individui con criteri scelti arbitrariamente. Ricorda i tentativi del PCF al riguardo. Critica, in questo modo, una concezione di classe che avrebbe lo scopo di realizzare quella che ha chiamato «l’autolegittimazione» del PCF della sua condizione di rappresentante dei “veri” lavoratori.

Riprendendo Marx, Bensaid sostiene l’impossibilità di indicare criteri sociologici quali reddito, qualifica professionale, ecc. come elementi che, tra l’altro, comporrebbero una definizione aprioristica di classe lavoratrice. A suo avviso, Marx non condividerebbe un smile procedimento ideologico. Seguirebbe, viceversa, la logica della determinazione concettuale basata sulla tradizione filosofica tedesca e non quella positivista francese che avrebbe ispirato tanti intellettuali in giro per il mondo, anche brasiliani. In questo senso, Marx non procede per definizioni (per enumerazione di criteri), ma per «determinazioni di concetti (produttivo/improduttivo), plusvalore/profitto, produzione/circolazione), che tendono al concreto, articolandosi all’interno della totalità» (ivi).

Daniel Bensaid e la sua opera sono l’esempio fecondo di una prospettiva che non lascia spazio all’imposizione di teorie quantitative e statistiche. Il suo lavoro, tra tante altre cose, è una forma di lotta politica contro chi cerca di ridurre l’opera di Marx, e cioè la teoria del valore, delle crisi, delle classi, ecc., a numeri e a formule matematiche. La tradizione teorica e filosofica sviluppata da Bensaid – che alimenta le sue prospettiva in rapporto al tempo, allo spazio, al problema delle classi sociali, al dinamismo e alla fluidità delle condizioni di lotta – corre il rischio di restare appannata in una società così presa dai canoni dell’obiettività scientifica.

Intervista

Herramienta: Il pensiero di Marx ha bisogno di essere aggiornato?
Come è possibile andare oltre Marx?

Daniel Bensaïd : Il pensiero di Marx non ha bisogno di essere aggiornato, è attuale. La sua attualità è quella del capitale, che costituisce l’obiettivo critico di Marx. All’epoca di Marx, i rapporti capitalistici di produzione dominavano solo una parte del mondo. Ora, basta di per sé la mondializzazione a dimostrarlo. Egli ne spiega, in primo luogo, la logica, vale a dire l’accumulazione allargata e l’accelerazione della rotazione di capitali. In secondo luogo, oggi prendiamo atto che c’è in Marx una teoria delle crisi o, più correttamente, ci sono gli elementi di una teoria delle crisi come separazione della sfera della produzione e del consumo, la generale schizofrenia che contraddistingue la società capitalistica che aveva radici nel manifestarsi della sovrapproduzione e della crisi finanziaria. E in terzo luogo, se guardiamo oggi alla principale caratteristica della crisi sociale, significa, da un lato, i fenomeni di esclusione e precarizzazione e, dall’altro, quelli della crisi ecologica, due grandi manifestazioni della crisi del valore e della legge del valore. L’attualità di Marx è quindi particolarmente evidente. Bene, dobbiamo andare più avanti di Marx? Penso che dobbiamo sempre andare più avanti. Non bisogna riprendere Marx per fermarsi al punto in cui lui si è fermato, ma assumerlo come punto di partenza per spingerci oltre. Ad esempio, andare oltre per analizzare fenomeni che superano la questione ecologica come la si conosce oggi, rispetto allo sviluppo del produttivismo capitalistico, anche se non si può dire che ci sia in Marx una teoria dell’ecologia, pur essendoci elementi che possono aiutarci.

Herramienta: Quali sono gli elementi concettuali che Marx non ha sviluppato nel Capitale? Li si potrebbero portare a conclusione?

Daniel Bensaïd : Concludere il Capitale è un compito in contrasto con il modo di pensare di Marx. Marx lo ha pensato in movimento e in un movimento che accompagna quello del suo oggetto. Siccome il movimento del capitale è un movimento permanente e illimitato, possiamo affermare che la critica del capitale è una critica che non si può concludere. Non ritengo che ci sia un motivo biografico, quello della fine dell’esistenza dell’autore. Il Capitale è rimasto un’opera incompiuta, aperta. Non possiamo dire, ad esempio, che Marx abbia sviluppato una teoria dei rapporti di sfruttamento e di dominazione e neppure come questi si articolino. Ritengo che, in questo caso, si debbano cercare risorse tra i sociologi. Poiché il lavoro di Marx è contemporaneo alla crescita della colonizzazione, e precedente alla contemporanea struttura dell’imperialismo attuale – non a caso il grande dibattito sull’imperialismo risale all’inizio del XX secolo, con Hilferding, Bucharin, Lenin, ecc, – questo ci impegna a ripensare l’imperialismo oggi, ci rimanda alla mancanza del libro annunciato da Marx sul mercato mondiale. Per finire, c’è tutto un campo di lavoro sul tema. C’è un problema, ad esempio, appena accennato, soprattutto nei testi giovanili di Marx, che è quello del rapporto tra lo Stato e la burocrazia, la burocrazia statale in particolare. Si possono riconoscere elementi di questa lettura nella Critica della filosofia del diritto di Hegel. La questione riaffiora nel momento in cui il fenomeno burocratico diventa un tema di fondo delle società contemporanee.

Herramienta: I Grundrisse di Marx sono stati rivisitati da diversi autori, come Jean-Marie Vincent, André Gorz e Antonio Negri. Come considera la contemporanea riappropriazione di quell’opera?

Daniel Bensaïd : C’è una ricchezza di elementi critici espressi con vigore, probabilmente dovuti al contesto in cui sono stati redatti i Grundrisse che, come Marx dichiara nella corrispondenza scritta in un momento di esaltazione e di fragilità di fronte alla crisi economica del 1875-1878 negli Stati Uniti, hanno forse impresso alla redazione di questo testo una forma sovversiva e, su certe questioni, al di sopra di quella più rigorosa e più “scientifica” della stesura del Capitale. Ad esempio, il passo che indica come la legge del valore possa trasformarsi in una legge ogni volta più povera nel rendere conto della produzione, dello scambio e dell’organizzazione sociale. Vi sono momenti, nei Grundrisse, che non si ritrovano in forma così risonante e sovversiva nel Capitale. In secondo luogo, la scoperta dei Grundrisse – lei ha richiamato André Gorz, Antonio Negri e Jean-Marie Vincent, e potremmo aggiungervi Mandel – ha comportato approcci diversi. In Gorz, Vincent e Mandel, l’utilizzazione dei Grundrisse avviene in modo polemico, quando il libro viene tradotto, in ritardo (1967-1968). In quel momento, i Grundrisse vennero ripresi per dimostrare, contrariamente alla posizione di Althusser, che vi sarebbe una continuità, e cioè che il tema dell’alienazione non era stato abbandonato. Non vi sarebbe, dunque, una contrapposizione tra il giovane Marx, teorico dell’alienazione, e il Marx del Capitale, teorico critico della reificazione. C’era sì un cambiamento, ma con un filo conduttore, che eviterebbe di operare la dicotomia: il giovane Marx umanista, contro il vecchio Marx positivista. Penso che questa questione sia stata molto utile per capire meglio, alla fine, l’intima logica del pensiero di Marx. In Negri, invece, si tratta di contrapporre un Marx rivoluzionario e sovversivo, come il teorico della soggettività operaia, al Marx scientificista e positivista che teorizzò, tramite lo schema della riproduzione del Libro II del Capitale, una sorta di eternità logica del capitale, visto che ci troviamo in un sistema che scientificamente tenderebbe all’equilibrio. Per Negri, l’unico fattore dinamico sarebbe il proletariato di per sé e il capitale non sarebbe che una risposta in reazione alla creatività del proletariato. Questo porta a un’impostazione molto soggettivistica che, in certa misura, comporta oggi delle conseguenza. Se la mondializzazione è solo una risposta reattiva del capitale all’inventiva e alla creatività del proletariato, tutto quel che va in direzione di un’apertura è positivo, sia il Trattato costituzionale europeo o la dottrina liberista, che ha un ruolo progressista paragonabile a quel che Marx diceva del capitalismo nel Manifesto comunista. Ho sviluppato in modo più approfondito la questione in un articolo su Negri nel libro La discordance des temps (1995).

Herramienta: Come valutare il dibattito sulla centralità del lavoro?

Daniel Bensaïd : Il problema è che cosa si intende per lavoro. È frequente incontrare in Marx una duplice accezione, un duplice impiego del termine. Vale per il lavoro, come anche per la classe o per il lavoro produttivo. Quel che Marx intende per lavoro è lo scambio, quindi il metabolismo tra gli organismi viventi di cui fa parte la specie umana, con le sue naturali condizioni di riproduzione. In questo senso, il lavoro è un convertitore di energia e l’idea di una società senza lavoro è un assurdo. Vorrebbe dire che non vi sarebbe più trasformazione di energia naturale in energia cerebrale, muscolare, ecc. Da questo punto di vista, per quanto possiamo immaginare l’esistenza umana, ci sarà sempre una forma di lavoro e, quindi, una forma di organizzazione sociale del lavoro. Altra cosa è il lavoro salariato capitalistico, che è una forma storicamente determinata di lavoro, che non c’è sempre. Ora, rispetto al dibattito degli ultimi anni, vediamo sociologi che segnalano la fine del lavoro. Certo, oggi ci sono persone che lavorano di più, mentre per altre, colpite dalla disoccupazione, non c’è lavoro. In questa forma, è indispensabile distinguere due tipi di lavoro. Il lavoro nel senso antropologico è un elemento costitutivo dell’umanità, che fa sì che essa pensi e si sviluppi come si sviluppa. Per altro verso, il degrado del lavoro come lavoro salariato, ossia come lavoro forzato potremmo dire, è evidentemente connesso al socialismo e alla critica socialista del lavoro. Va allora ripresa la tradizione di critica del lavoro alienato, mascherata o dimenticata per una sorta di culto stacanovista nel periodo staliniano, o anche del culto protestante del lavoro, che Benjamin critica in una delle sue tesi sulla concezione della storia.

Herramienta: Che cos’è una classe. Un insieme di individui o un insieme di rapporti sociali? Manca al marxismo una definizione soddisfacente di strati di classe?

Daniel Bensaïd : Bene, che cos’è una classe? Non a caso in Marx ed Engels non si trova una definizione descrittiva o approssimativa di classe sociale. Non esiste definizione perché, fin dall’inizio, Marx non lavora con questo tipo di procedimento tramite “definizioni”. La definizione è un genere logico molto presente nella tradizione positivista francese, che non c’è invece nella grande logica tedesca di Hegel e Marx, che è una logica di determinazione (Bestimmung). Pertanto non è un caso che non si incontra un tipo di classificazione sociologica che tenda a collocare, di fatto, una serie di individui in categorie socio-professionali, come fanno oggi gli statistici accademici. In questo senso, c’è un rapporto conflittuale, le classi si determinano reciprocamente le une rispetto alle altre in un rapporto di scontro. Tuttavia, se si cerca a ogni costo e in modo pedagogico una definizione, possiamo trovarla, soprattutto, in Lenin, in un testo che si chiama La grande iniziativa (28 giugno 1919, in Opere, vol. 29, Editori Riuniti, Roma). È arrivato alla definizione, però, attraverso criteri molto complessi, in cui c’è il ruolo della divisione del lavoro, quello del rapporto di proprietà, ci sono le forme e l’ammontare del reddito… Bene, questo consente un’approssimazione per stabilire il nesso con la concezione strategica di classe. Che sarebbe per me la questione fondamentale, poiché in Marx non c’è una concezione sociologica classificatoria di classe. C’è sì una concezione strategica di classe che si realizza a partire dalla sua lotta. Gli elementi forniti da Lenin possono aiutare a chiarire o ad arricchire in maniera pedagogica questa forma di approssimazione. Manca al marxismo una teoria di strati di classi? Si può sempre fare di meglio, ma questa non è del tutto assente. Soprattutto nei testi politici di Marx, come ad esempio nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, c’è un’analisi molto virtuosa degli strati di classe e delle loro espressioni politiche. Non credo sia necessario sviluppare una teoria specificamente marxista per cercare di mettere alla prova una concezione del mondo, una visione del mondo in termini di lotta di classe.

Herramienta: In questo senso, come interpretare la teoria di Jacques Bidet e di Gérard Duménil che indica l’esistenza di una classe di quadri?

Daniel Bensaïd : I due autori operano la sistematizzazione di una classe di quadri come conseguenza delle loro analisi strutturali, specialmente Bidet, della società capitalista come una combinazione di rapporti di sfruttamento e di rapporti di organizzazione. Si mettono sullo stesso piano come equivalenti due tipi di rapporti, in cui quelli di sfruttamento determinano le classi tradizionali, mentre i rapporti organizzativi possono determinare le altre forme di classe: i quadri, la burocrazia, ecc. Intanto, dipende anche da cosa vogliamo fare. Dipende dall’utilizzazione che facciamo della categoria, del concetto di classe. Se ne facciamo l’uso sociologico, siamo al livello della convenzione del dizionario, della convenzione terminologica. Potremmo dire che esiste una classe di quadri. Essa, però, è anche molto eterogenea, e quindi: dove comincia? dove finisce? Una differenza molto accentuata ci sarebbe tra i quadri superiori e tra un livello di inquadramento che sta più al fianco del lavoro sfruttato. Non è un concetto che risulti una gran cosa. In realtà, questa categoria di quadri è frammentata tra le classi fondamentali. Viceversa, se prendiamo l’utilizzazione di classe nel senso strategico, quel che è interessante è la polarizzazione fondamentale di classe. Questo non toglie che esistano strati, categorie cosiddette intermedie, ma che vengono sospinte e polarizzate dalle classi fondamentali che danno vita ai rapporti di classe strutturalmente Quella teoria può presentare inconvenienti, trasformando la classe di quadri in una nuova classe storica in ascesa, portatrice di un nuovo modo di produzione, ecc. Cadremmo di nuovo, con questo, nella categoria di classi gestionali, che non sono poi così nuove. Vi sono in effetti apporti della sociologia di Max Weber che potrebbero essere interessanti per mettersi in dialogo o in tensione con la concettualizzazione marxista. Tuttavia, il problema interessante è come si articolino, o più precisamente, a mio modo di vedere, come si intreccino i rapporti di sfruttamento e quelli organizzativi e, alla fine, verificare come tutto questo sia un insieme di rapporti coerente o meno, due tipi di rapporti che determinano due tipi di rapporti di classe più o meno paralleli ed equivalenti.

Herramienta: E il concetto di moltitudine? Quali sono gli elementi positivi e negativi di questa posizione rispetto alla teoria marxiana delle classi?

Daniel Bensaïd : Ritengo che il concetto di moltitudine sia inutile e dannoso. Esso ha un valore descrittivo, ma descrittivo rispetto a un’immagine stereotipata che si può avere della classe operaio, l’operaio dell’industria. Forse sarebbe più adeguato il termine “proletariato”. È quello nell’accezione più comprensiva ed antica. Alla fin fine, quindi, descrive una realtà più vasta e più complessa. Un certo tipo di proletariato non è scomparso, siamo ancora ben lontani da questo, è lo vediamo tramite l’odierna crisi. I sociologi Baud e Pialoux, in un libro di inchiesta sulla regione industriale francese di Mont Béliard, in cui si trovano le fabbriche Peugeot, sostengono che la classe operaia non è scomparsa. In realtà, sarebbe diventata invisibile, probabilmente perché c’è meno lotta, perché interessa meno i sociologi, più interessati alle espulsioni degli anni Ottanta, ecc. Con la crisi, quando si assiste alla chiusura di industrie, ci si ricorda anche che la classe operaia si è ridotta, ma non è scomparsa. Di fronte a questa destrutturazione dei rapporti sociali sotto l’urto della crisi e della trasformazione tecnologica, capisco che il concetto di moltitudine possa essere piuttosto seducente, sembrando più comodamente descrivere una realtà. Persone che sono piccoli venditori ambulanti, ecc., che vivono come gli operai, tutto questo è chiaro. Come concetto strategico, tuttavia, c’è un punto che non è completamente chiaro, per me. Negri contrappone il concetto di moltitudine non a quello di classe, ma a quello di popolo; con il popolo che è l’omogeneità e la moltitudine la diversità. Già questo sarebbe discutibile. Bene, quale sarebbe il rapporto tra moltitudine e classe? Bisognerebbe forse rileggere i testi, ma sembra essere relativamente oscuro. In Negri le nuove tecnologie e le nuove forme di organizzazione del lavoro sviluppano la moltitudine e, alla fine, la logica della storia si riduce allo scontro quasi diretto e chiaro tra impero e moltitudine indistintamente. Invece di lavorare sul problema complicato di quali siano attualmente le componenti del blocco egemone intorno ai rapporti di classe, questa complessità viene ridotta dal concetto di moltitudine a quella sorta di magma che è un nuovo soggetto, molto ipotetico, della storia. Per cui, io vedo molti inconvenienti e scarsi vantaggi.

Herramienta : Sarebbe possibile capire gli spartiacque tra i lavoratori in base alla tesi della rivoluzione informatica?

Daniel Bensaïd : Francamente, ne dubito. Significherebbe correre il rischio di un determinismo tecnologico sostenere che, di fatto, gli spartiacque sociali siano direttamente, meccanicamente determinati dall’organizzazione tecnologica del lavoro. Mi sembra un presupposto teorico discutibile. Naturalmente, nelle forme e, soprattutto, nella capacità dell’organizzazione sociale, sia sindacale sia politica, questa differenza ha un’incidenza. Nella misura in cui le nuove tecnologie possono disimpegnare una forma di crescente autonomizzazione del lavoro, un decentramento nel luogo di lavoro, tutto questo comporta conseguenze nella sua capacità di organizzazione. Questo introduce spartiacque di fondo? Con la crisi, assistiamo al fatto che una parte delle nuove professioni subisce gli stessi effetti di pauperizzazione delle altre, come i licenziamenti e le pressioni sui salari. È sempre interessante essere attenti alle differenziazioni per concepire le rivendicazioni sindacali e politiche. Ma elaborare un inventario teorico di fondo, o uno spartiacque essenziale, non credo. Non sono d’accordo ad attribuire alla terminologia un ruolo predominante nei fenomeni di formazione sociale, che soprattutto comprendono lotte e fenomeni culturali.

Herramienta: Che rapporto c’è tra lavoro materiale/immateriale e lavoro concreto e astratto? Come si può analizzare la produttività in base alle forme di lavoro cognitivo?

Daniel Bensaïd : Credo non vi sia rapporto tra il concetto di lavoro materiale e immateriale e quello di lavoro astratto e concreto. Lavoro materiale e immateriale ci riporta al contenuto di un’attività, il lavoro concreto è ogni lavoro che produce beni utili e quello astratto è quello ridotto alla sua misurazione attraverso il tempo, quindi alla sua misura astratta. In questo senso non vedo il rapporto. Esiste sì una confusione che cerca di sovrapporre il concetto di lavoro materiale e immateriale a quello di lavoro concreto e astratto. Rispetto alla produttività del lavoro, il lavoro immateriale può essere altrettanto produttivo di quello materiale. Se la produzione del lavoro è produzione di plusvalore, un lavoro immateriale sfruttato produce plusvalore come quello materiale. Chi produce programmi informatici è fonte di profitto per Microsoft. Se c’è un gruppo di ricercatori salariati che producono programmi per Microsoft c’è produzione di plusvalore. Da questo punto di vista, quindi, questa storia del lavoro immateriale, fin da quando si è preso ad utilizzarla, ha creato parecchia confusione. In realtà, il dibattito sul lavoro produttivo e improduttivo spesso è malamente compreso. Non è produttivo solo il lavoro che produce beni materiali. L’esempio più sorprendente e più noto è contenuto nel Capitolo inedito del Capitale, in cui Marx ricorre all’esempio della cantante stipendiata il cui lavoro, se è stipendiato, è produttivo. Il suo lavoro è totalmente immateriale, il suo canto svanisce man mano che canta. Eccetto oggi, dopo Marx, che si è sviluppata l’industria discografica e ora di tele-incisione. L’idea è che anche la prestazione vocale si possa considerare come lavoro produttivo, se esiste un rapporto salariale tra il lavoratore e chi lo assume. Quindi, innanzitutto, questo non ha nulla a che vedere con la materialità del lavoro. In secondo luogo, il concetto di lavoro produttivo in Marx è delicato, perché è considerato da lui in forma contraddittoria. Il trasporto di merci è considerato un lavoro produttivo, perché se non si porta il prodotto al suo punto di vendita, non si può realizzare il plusvalore. In questo senso, la divisione tra produttivo e improduttivo è piuttosto arbitraria. Dobbiamo limitarci al momento in cui il lavoratore trasporta merci al punto vendita o considerare che se non c’è il lavoratore che le mette sugli scaffali neanche in questo caso si potrebbero vendere? È una questione delicata da affrontare, che ci riporta alla materialità o immaterialità del lavoro e non consente di determinare le classi sociali. C’è già stato il tentativo di elaborare una teoria delle classi sociali a partire dal Libro II del Capitale, basandosi esclusivamente sul rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo. Mi sembra assurdo. Non a caso il Capitolo sulle classi, se Engels seppe interpretare il progetto di Marx, arriva molto tardi, nel Libro III del Capitale, integrando la differenza tra reddito e l’insieme del circuito di riproduzione sociale, Non capisco, dunque, come potremmo fermarci al Libro II e ai concetti di lavoro produttivo e improduttivo per stabilire chi fa parte della classe operaia o meno. La conseguenza è che spesso questi concetti di lavoro produttivo e improduttivo sono stati utilizzati politicamente e ideologicamente per mettere insieme una definizione restrittiva di classe operaia, che in Francia il PCF utilizzava chiaramente per indicare soltanto gli operai dell’industria, escludendo gli impiegati del commercio, gli infermieri, gli impiegati delle poste, ecc. Io avevo cugini che erano operai dell’industria, che non lavoravano direttamente in produzione, ma facevano la manutenzione delle macchine e, tra l’altro, stavano nel PC e nella CGT. Dicevano che non erano veri operai, veri proletari, perché curavano la manutenzione per la produzione. Ecco qui una definizione del movimento operaio tipicamente operaista e descrittiva, che ha la funzione di autolegittimare, soprattutto, il Partito Comunista come rappresentante della classe operaia, essendo tutto il resto piccola borghesia.

Herramienta: Le nuove forme di produzione mettono in contraddizione la teoria del valore di Marx? Si tratta di una categoria analiticamente valida?

Daniel Bensaïd : Penso di sì. Tutta l’attuale crisi lo dimostra, tanto quanto la teoria del valore. Attraverso la misurazione dell’intera ricchezza e dello scambio tramite il tempo di lavoro socialmente necessario, si può verificare l’ossessione della misurazione attraverso il tempo, si tratti di stabilire l’orario settimanale di lavoro, l’età della pensione, la caccia ai tempi morti nell’impresa, l’organizzazione degli orari, la flessibilità, ecc., che tende a ridurre le differenze tra il tempo di lavoro reale e quello di lavoro legale. Tutto questo nel Capitale c’è già. Alla fine, la redditività capitalistica assume come criterio la legge del valore. Ma questa legge ora diventa sempre più contraddittoria, cosa che Marx ha affrontato nei Grundrisse con, da un lato l’incorporazione nel processo di produzione di forme di lavoro intellettuale favorite dalla nuova tecnologia ma, dall’altro lato, socializzate, collettive. Dunque, qual è il lavoro che sarebbe necessario per produrre un programma informatico in un laboratorio di ricerca? È un lavoro altamente collaborativo e socializzato. Per cui, tanto più il lavoro è in collaborazione, tanto più incorpora il sapere accumulato, è più difficilmente quantificabile e misurabile tramite la media del tempo di lavoro astratto. Mi sembra, questo, che sia uno dei fattori chiave della crisi sociale odierna, che comporta che i guadagni di produttività non vengano trasformati in tempo libero, traducendosi contraddittoriamente in esclusione sociale. Le modalità delle crisi finanziarie, secondo me, costituiscono molto più la conferma del danno che produce l’applicazione immediata della legge del valore tramite l’immediata misurazione delle fluttuazione della Borsa. So che si tratta di un punto molto discutibile, ma, proprio mentre si conferma la legge del valore, si offre la conferma dell’aggravarsi delle contraddizioni sociali.

Herramienta: Come pensare la riduzione dell’orario di lavoro?

Daniel Bensaïd : C’è tutta una lotta storica sulla riduzione dell’orario di lavoro. Anche se il tempo liberato resta alienato, essa costituisce un limite allo sfruttamento della forza lavoro, è una libertà non omologata. Vi sono altri meccanismi di alienazione, quali possono essere i mezzi di comunicazione di massa, la diffusione della cultura, l’organizzazione della città e dello spazio urbano, ecc. Tuttavia, perlomeno formalmente, per riprendere la formulazione di Marx, durante questo tempo libero il lavoratore ha la possibilità di consumare programmi televisivi, di dare una mano nel sindacato, o di leggere il Capitale. Non è quindi una questione secondaria che la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro sia permanente, anche all’interno del capitalismo. Nel quadro del capitalismo, però, credo ci sia un nesso stretto tra un lavoro alienato e un piacere alienato, vale a dire che non si può essere realmente liberi al di fuori del lavoro se si rimane al tempo stesso dominati al lavoro. Non basta perciò ridurre l’orario di lavoro forzato, ma è necessario anche trasformare il contenuto e l’organizzazione del proprio lavoro, costruire l’emancipazione del lavoro e fuori dal lavoro. E qui c’è una grossa differenza. La disoccupazione produce un tempo liberato, ma un tempo senza libertà. Ed esiste anche la conquista di tempo libero tramite la riduzione dell’orario lavorativo, ma che si può continuare a utilizzare in forma completamente alienata. E questo pone un problema anche al socialismo. È l’idea che troviamo nel Gorz di Addio al proletariato e nei suoi lavori successivi, secondo cui esisteranno sempre lavori duri e alienanti, che non sarà mai creativo spazzare le strade o raccogliere l’immondizia e che sarà quindi sempre necessario che la società dedichi a un certo tempo di lavoro che non sarà mai creativo e che la vita si svolga sempre al di fuori di questo tempo di lavoro. Non avendo robot per tutto, questo costituisce di fatto un problema. Per altro verso, credo si possa svolgere un lavoro alienato e, al tempo stesso, svilupparsi, aprirsi al di fuori di questo. Il problema per una società socialista, è come distribuire questo tipo di lavoro, come modificarne l’organizzazione. È evidente che ci sono compiti che non sono gradevoli o stimolanti, ma questo richiama all’esigenza di radicale trasformazione della divisione del lavoro come condizione stessa di una società socialista così come ce la possiamo immaginare..

Herramienta: Per avviarci a concludere, vorrei sapere: come si potrebbe romper con la visione del proletariato come un soggetto mitico della trasformazione umana?

Daniel Bensaïd : Non credo sia il caso di rompere con l’idea del proletariato come soggetto rivoluzionario. Dobbiamo rompere con una visione che è strettamente legata, e riproduce attraverso i fenomeni sociali, a un tipo di psicologia del soggetto, del soggetto individuale, della coscienza del soggetto che ha a che vedere con la psicologia classica della fine del XIX secolo-inizio del XX. Fin dall’inizio, si immagina il proletariato come un grande individuo che, come ogni individuo, deve passare per l’infanzia, per un apprendistato, e arrivare all’idea adulta con una specie di metafisica della coscienza dell’“in sé” e del “per sé”, ecc., che troviamo poco in Marx, forse appena una formula nella Miseria della filosofia, ma molto più chiaramente in Lukács. Tutto questo attinge a una cattiva fonte psicanalitica sul cosciente e l’inconscio. Tutto questo proietta sui fenomeni sociali meccanismi che prendono il posto della psicologia individuale e che sembrano molto discutibili. Credo che sarebbe meglio pensare al costituirsi di una forza di trasformazione sociale. Dire forza non presuppone l’idea di coscienza. Si tratta di una forza di trasformazione che è una forza di costruzione permanente, il combinarsi di una pluralità di forme organizzate. Tutto il problema sta appunto in ciò che consente di pensare o di contribuire a pensare il concetto di egemonia, come costruire e combinare queste differenti forme di scontro con il sistema. Il proletariato è ancora un soggetto? Se accettiamo la categoria di soggetto, sì. Oppure, sarebbe a partire dal proletariato che si possono combinare differenti forme di contestazione del sistema capitalistico, rispettando l’autonomia dei vari movimenti? Ad esempio, niente garantisce che l’oppressione delle donne sparisca con la fine della proprietà privata. Questo giustifica l’autonomia del movimento delle donne per un futuro indeterminato, e ben oltre il superamento del capitalismo. Oggi, qui ed ora, la lotta contro l’oppressione delle donne è strettamente connessa alla lotta del movimento operaio, alle rivendicazioni sull’orario di lavoro, al servizio pubblico, ecc. Si tratta perciò di qualcosa di organicamente articolato. Quel che consente di unificare questa lotta non è un a priori morale, bensì il fatto che il capitale crea, ancorché non meccanicamente, condizioni che consentono di concepire in che modo sia possibile.

Intervista alla rivista argentina Herramienta 5 maggio 2009
www.danielbensaid.org

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