Una nuova nuova fase, un nuovo programma, un nuovo partito

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Lignes: In genere questa rivista si occupa poco di politica né si è mai preoccupata effettivamente di scadenze elettorali. Ora però c’è l’occasione di farlo con te, nel quadro di questa raccolta di testi sui temi della “scomposizione e ricomposizione politiche”, in quanto tu hai tra noi una posizione del tutto singolare, che fa di te”, oserei dire, un intellettuale “puro (autore di tanti libri di teoria critica e di filosofia e, al tempo stesso, militante della Ligue communiste révolutionnaire), in certo senso un intellettuale militante. Quel che ci interessa è la possibilità, da voi della Ligue tante volte richiamata ed ora resa ufficiale, di costituire un partito nuovo e più largo, un partito o un raggruppamento (scegli tu la formulazione più conveniente). Può essere utile partire dal fatto che si tratta di un progetto di vecchia data. Sono ormai più di dieci anni che ne parli, credo dal 1995. Che cosa ha fatto sì che in quel momento l’abbiate concepito come possibile e necessario? E come mai non ha funzionato?

Daniel Bensaïd: L’idea risale addirittura a prima del 1995 ed è sorta da un dato di fatto: il “crollo del Muro di Berlino” e l’implosione dell’Unione sovietica non avevano prodotto lo scenario di quel rilancio di un socialismo democratico sul quale storicamente puntava la corrente da cui proviene la Ligue. Negli anni Trenta, Trotskij formulava due ipotesi rispetto a quanto sarebbe uscito dalla guerra: o una Rivoluzione antiburocratica avrebbe rimesso in moto il processo avviato all’indomani della Prima guerra mondiale o, viceversa, sarebbe stato rovesciato il socialismo e restaurato il capitalismo. In realtà, non è avvenuta nessuna delle due cose e, comunque, non nelle forme e nei tempi previsti. Oggi constatiamo che il 1989 concludeva una controrivoluzione in atto da tanto tempo. L’utilizzazione troppo semplicistica dei termini “rivoluzione” e “controrivoluzione” induce ad immaginare la controrivoluzione come un evento simmetrico e altrettanto individuabile come una rivoluzione. Joseph De Maistre, ha espresso l’idea, che sembra del tutto esatta, secondo cui una controrivoluzione non è una rivoluzione in senso inverso, ma “il contrario di una rivoluzione”. Si deve dunque parlare di un processo asimmetrico, cominciato fin dalla fine degli anni Venti ed ampiamente consumato all’epoca in cui sono intervenuti gli avvenimenti del 1989 e del 1991, che ne costituiscono semplicemente la rivelazione. La constatazione da cui siamo partiti alla soglia degli anni Novanta è perciò che quegli eventi segnavano una rottura storica. Allora i fantasmi di Bucharin o di Trotskij non sono riemersi dall’armadio, non hanno costituito punti di riferimento per le muove generazioni politiche nell’Unione sovietica o nell’Europa dell’Est. Era stata distrutta la memoria stessa.

L’immersione nei miraggi della mondializzazione liberista è stata immediata e le opposizioni allo stalinismo del periodo tra le due guerre, a torto o a ragione – a torto, evidentemente, secondo me – sono state sepolte sotto le macerie di quella fase. Fino dalla fine degli anni Ottanta (si poteva già intuirlo sotto Gorbacev) e, per avere delle date di riferimento, fin dal 1989 e 1981, l’idea era dunque quella che si entrasse in una fase nuova. Le vecchie delimitazioni che avevano giustificato il formarsi di tendenze o di organizzazioni politiche, pur non essendo completamente scomparse, non operavano più nello stesso modo. All’ordine del giorno c’era quindi l’esigenza di concepire una ricostruzione programmatica e un progetto politico, sia nel suo contenuto sia nelle sue forme organizzate.

Il problema, allora, si è posto a partire dal 1989-1991. Gli scioperi del 1995 hanno cominciato a lasciare intravedere la possibilità di un impegno in una prospettiva del genere da parte di gruppi militanti, sindacali, associativi. Una possibilità, però, durata poco e rapidamente annullata dalla vittoria – effetto differito degli scioperi del 1995 e dello scioglimento dell’Assemblea nazionale ad opera di Chirac – della sinistra, nel 1997. Quella vittoria elettorale ha incanalato gran parte delle energie liberatesi in occasione degli scioperi dell’inverno del 1995 e delle mobilitazioni dell’inverno del 1997 contro le leggi Pasqua-Debré. Le organizzazioni sindacali sono state perlopiù ri-polarizzate dal “dialogo sociale” con il governo Jospin, neutralizzate in nome del realismo di governo e della politica del danno minore (che è comunque sfociata nel 17% di Le Pen, nel 2002!).

Detto questo, se la formula “per una nuova periodo, un nuovo programma e un nuovo partito” è stata chiaramente enunciata agli inizi degli anni Novanta, l’esigenza aveva cominciato a farsi sentire fin dal decennio precedente. Nel 1988, indipendentemente dal bilancio che se ne è ricavato, il tentativo di campagna unitaria a sinistra della sinistra intorno alla candidatura Juquin rientrava già in quest’ordine di preoccupazioni.

Lignes: Nel vostro progetto degli anni Novanta c’era l’idea di federare tutti coloro che si erano costituiti in collettivi, penso ai collettivi dei “Sans [senza]”, che sono emersi allora. In altri termini, si sarebbe trattato di aprire a tutti coloro che facevano politica al di fuori dei partiti.

Daniel Bensaïd: Durante tutti gli anni Novanta sono apparse in seno alla sinistra di governo delle differenziazioni. Dal Partito Comunista sono emerse varie generazioni di innovatori e riformatori. Si pensi a che cosa sono diventati tre dei suoi quattro ministri del 1981: Marcel Rigaud, Anicet Le Pors, Charles Fiterman, e tanti altri dirigenti come Pierre Juquin, Claude Poperen, André Fizbin… Dal Partito Socialista sono usciti Chevènement e il “Mouvement des citoyens [Movimento dei cittadini]”. Il tutto si è tradotto in tentativi di raggruppamenti, tra cui una campagna unitaria per un “No di sinistra” in occasione del referendum sul Trattato di Maastricht già nel 1992. Ma si è trattato di rotture rimaste effimere. La maggior parte sono restate nell’orbita del Partito Socialista (pesa con forza in questo senso la logica elettorale delle istituzioni della V Repubblica), quando non hanno conosciuto traiettorie ancor più erratiche (si pensi a quella di Max Gallo). Bisognava ricavarne alcune conclusioni. Non si poteva non prendere atto che le risorse militanti decisive per il rinnovamento o la ricostruzione si trovavano essenzialmente nel fermento dei movimenti sociali, nella pluralità di questi e nelle forme nuove derivanti dall’emergere di collettivi come quelli dei “Sans” (senza lavoro, senza casa, senza documenti, senza diritti). Del resto, è ciò di cui è stato il simbolo, all’epoca, l’impegno di Pierre Bourdieu.

La problematica sulla quale si erano costruite le opposizioni politiche, soprattutto l’Opposizione di sinistra allo stalinismo, negli anni Trenta e Cinquanta, erano quelle secondo cui il movimento operaio non disponeva della direzione e dell’espressione politiche che meritava, e che quindi si trattava semplicemente di cambiare la testa in corpi rimasti fondamentalmente sani.

L’inizio degli anni Novanta ha dimostrato che i guasti dello stalinismo risultavano, alla prova del tempo, ben più profondi di quel che non si fosse immaginato. Non si trattava, quindi, di una lunga svolta o di una parentesi lungo via maestra della storia, ma di una vera e propria divaricazione, i cui effetti erano destinati a farsi sentire ancora per molto. Ormai occorreva predisporsi a una ricostruzione a tutti i livelli, sociale, sindacale, associativa, fino alle forme di rappresentanza politica.

Lignes: Che accoglienza ha ottenuto la vostra proposta all’epoca? L’elezione di Jospin ha costituito l’unico ostacolo all’essersi levati contro, o ha anche suscitato la diffidenza, il sospetto – politici, ideologici?

Daniel Bensaïd: Probabilmente, agli inizi, non esisteva la condizione necessaria (anche se non sufficiente), vale a dire l’accumulazione di nuove esperienze di lotte fondative. C’era, sicuramente, la ripresa di mobilitazioni sociali, ma non uno slancio tale da poter consentire di superare gli ostacoli politici reali. La differenza, rispetto ad oggi, sta nel fatto che allora noi ritenevamo – credo a giusto titolo – che, perché un progetto di organizzazione fosse credibile, dovesse apparire come la convergenza di tendenze politiche provenienti da storie e traiettorie diverse e, al tempo stesso, come il superamento di queste. La pluralità era dunque una delle condizioni di credibilità, senza la quale – e il problema resta ancora – c’era il grosso rischio di rimanere fermi a un semplice allargamento, a un rinnovamento di facciata, o a un’operazione proclamatoria e di comunicazione. Le scadenze elettorali sono state decisive per mettere alla prova la determinazione di quanti/e fossero suscettibili di essere interessati/e, la loro capacità di mantenere la coerenza tra parole ed atti o, viceversa, la loro disponibilità a cedere alle lusinghe istituzionali e a perdersi in alleanze tattiche senza futuro.

Nel corso degli anni, di scadenza elettorale in scadenza elettorale, la conclusione si è regolarmente confermata, La vittoria elettorale della sinistra nel 1997, ad esempio, ha reinglobato nell’area della politica governativa larga parte dei movimenti sociali emersi agli inizi degli anni Novanta e soprattutto nel 1995. Per le organizzazioni politiche la scelta era se partecipare o meno al governo della “gauche plurielle” [sinistra plurale], solidarizzare con la sua politica od opporvisi, sulle privatizzazioni, gli emigrati clandestini [sans-papiers], il Trattato di Amsterdam, le modalità di applicazione delle 35 ore. Questo tipo di scelta non ha cessato di riproporsi successivamente. È uno dei motivi che hanno fatto fallire la prospettiva, pur auspicabile, di una candidatura unitaria della sinistra radicale alle presidenziali del 2007. Era illusorio immaginare che il “No di sinistra” del 2005 al Trattato costituzionale europeo rappresentasse una base sufficiente per costruire un progetto comune di società. Fin dal congresso socialista di Le Mans, nell’estate 2005, si e vista la quasi totalità dei socialisti “del no” rientrare nei ranghi della “sintesi”! Noi, invece, abbiamo detto con chiarezza che non eravamo “sintetizzabili” in una rifrittura della sinistra plurale che avrebbe rifatto le stesse cose del governo Jospin, o peggio ancora, con Dominique Strauss-Kahn o con Ségolène Royal.

Occorreva quindi definire un progetto solido sulle questioni di fondo (la giustizia sociale, la suddivisione delle ricchezze, l’Europa, la guerra, l’immigrazione), ma anche mettersi d’accordo sulle alleanze compatibili con un programma del genere. Durante la campagna si è verificato che il Partito Comunista era Ségo-compatibile e disponibile a un remake della sinistra plurale e, in maniera ancor più sorprendente, che José Bové era sensibile all’apertura reale [a Segolène-Royal], al punto di accettare una missione paragovernativa della candidata senza neanche aspettare il secondo turno delle presidenziali. Questi adattamenti non potevano che imbrogliare le linee discriminanti che si cominciavano appena a ridelineare, disorientando quanti/e stavano riprendendo gusto alla politica. Erano quindi tagliati/e fuori. Olivier Besancenot era evidentemente il candidato più favorito nei sondaggi, non per una questione di “immagine”, come troppo spesso si fa capire, ma per la sua limpidezza e la sua fermezza nella sostanza, per la sua esperienza sociale, per il suo procedere in modo collettivo, anche con il suo potenziale elettorato. I fatti lo hanno poi confermato. Agli occhi degli eventuali partner, il suo difetto principale era alla fine dei conti la sua appartenenza di parte. Al di là dei suoi pregi personali, tuttavia, le qualità che spesso gli si riconoscevano non esistono nonostante la sua appartenenza, ma anche a causa di questa, del suo coinvolgimento in una storia e in un’esperienza collettive.

Il problema del rapporto con le istituzioni è stato decisivo nella scelta degli uni e degli altri. Capisco bene gli argomenti che consistono nel dire che un partito che ha certe posizioni in certi comuni di sinistra può condurvi politiche sociali diverse da quelle della destra (anche se capita che, per esempio sull’immigrazione e il lavoro, si portino avanti politiche altrettanto discutibili di quelle della destra). È comprensibile la preoccupazione di conservare queste posizioni. Ma sappiamo benissimo che un progetto di ricostruzione di una sinistra non rinnegata né adulterata non potrà inevitabilmente che pasare per una cura dimagrante istituzionale. Si deve sapere se si è disposti a pagarne il prezzo e a sacrificare qualche effimero successo a un progetto di ricostruzione altrettanto “durevole” dell’omonimo sviluppo. Bisogna scegliere. Occorre impegnarsi a medio e lungo termine in un’azione che restituisca una coerenza all’espressione politica e fiducia in essa. Salvaguardare a tutti i costi delle posizioni acquisite, allo stato attuale dei rapporti di forza sociali ed elettorali, significa per forza di cose rassegnarsi a una posizione subalterna e di puntello della principale forza di sinistra, il Partito Socialista, esserne ostaggio e cauzione senza incidere concretamente sulla sua politica. È ciò che ha appena confermato in Italia la partecipazione di Rifondazione comunista al governo Prodi.

Di qui l’idea, oggi, di sbloccare la situazione dal basso, puntando su nuove generazioni militanti nelle fabbriche, nelle università, nelle periferie. Qualcosa sta succedendo. Innanzitutto, la perdita di legittimità del discorso liberista. Questo discorso, trionfante dagli anni Novanta – che prometteva un’era di pace, di prosperità, ecc. – non regge più. La ripresa della mobilitazione sociale si è tradotta in un primo tempo nel sorgere di movimenti accompagnati da grande diffidenza (comprensibile) verso qualsiasi forma di rappresentanza e di organizzazione politiche. Tuttavia, questa diffidenza diffonde, secondo me, l’illusione che consiste nel dedurre i fenomeni di burocratizzazione dalle forme organizzative, soprattutto dalla “forma partito”. La burocratizzazione, invece, è un fenomeno ben più profondo – e ben più grave – nelle moderne società, ed è connessa alla divisione sociale e tecnica del lavoro, alla politica che diventa professione, alla privatizzazione dei saperi, alla complessità dei rapporti sociali. Non attraversa soltanto i partiti, ma altrettanto – se non di più – gli apparati sindacali, in cui sono considerevoli le cristallizzazioni materiali, e le stese organizzazioni non governative o associative, non appena queste sono largamente sovvenzionate, per non parlare degli apparati e delle amministrazioni dello Stato. Il problema è, dunque, ben più vasto.

Alla fine degli anni Novanta-inizi 2000, si sono sperimentati i limiti di quella che alcuni pensavano fosse l’autosufficienza dei movimenti sociali. Limiti, se vogliamo, della “illusione sociale” che contrappone la purezza di un’attività sociale sana alle impurità e alle compromissioni dell’impegno politico. Le aspettative sociali che non arrivano a trovare risposte sul terreno sociale si trasferiscono allora sul terreno elettorale (spesso in maniera minimalistica). A questa domanda di politica, nel senso lato del termine, occorre rispondere in maniera diversa che con un discorso di rassegnazione al male minore (il “tutto tranne Berlusconi, o Sarkozy”), e in modo diverso dal saltare sull’ultimo vagone dell’ultimo treno di una sinistra in agonia.

L’urgente bisogno di un nuovo partito è inscritto nella logica della situazione: una destra di destra si propone, con brutali controriforme, di allineare il paese alla regola liberista della mondializzazione; una sinistra di centro, da parte sua, si allinea alla regola di una socialdemocrazia convertita in social-liberismo (più o meno temperato): New Labour in Inghilterra, Nuovo centro in Germania, Partito Democratico in Italia. Questa situazione conclude la sconfitta storica delle politiche di emancipazione del XX secolo. L’ingresso massiccio sul mercato mondiale del lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori privi di diritti e di protezioni sociali peserà durevolmente sui rapporti di forza tra capitale e lavoro. Quanto all’andamento delle correnti tradizionali della sinistra, sembra difficilmente reversibile.

Data questa situazione disastrosa, ci assumiamo le nostre responsabilità. Siamo ben consapevoli delle difficoltà. In primo luogo, di quella di impegnarci nella costruzione di un nuovo partito, se non a freddo quanto meno in un contesto difensivo e non di ripresa impetuosa dei movimenti sociali. Esistono, certo, resistenze e lotte importanti, ma la maggior parte di esse si chiudono con sconfitte. L’altra grande difficoltà è la mancanza di interlocutori significativi a livello nazionale. Alcuni rispondono alla nostra proposta con il silenzio, o si defilano per timore che si tratti di una semplice operazione di rinnovamento della Ligue. Costoro hanno una vista corta. Anziché rifugiarsi nella diffidenza e nel timore, dovrebbero piuttosto rallegrarsi che la Ligue prenda questa iniziativa invece di limitarsi a gestire il proprio (esiguo) capitale elettorale. E, invece di storcere il naso con argomenti pretestuosi, dovrebbero avviare immediatamente la discussione di fondo: un nuovo partito, sulla base di quale programma? per fare che cosa? in vista di quali alleanze? e con quali garanzie di funzionamento democratico?

Se, alla fine, il tentativo non dovesse sfociare se non in un allargamento della Ligue, quelli che tergiversano e si defilano ne avrebbero la responsabilità. Quanto a noi, ci avremo provato. E se lo facciamo è perché proveniamo da una tendenza storica che si pone da tempo questo problema, che ha dovuto portare a lungo, in condizioni avverse, i pesanti fardelli dell’esilio, e che fiuta le possibilità della congiuntura. Abbiamo ereditato una visione storica che non cede al gusto postmoderno della politica sbriciolata, di un presente angusto, senza passato né futuro, di un falso realismo “qui ed ora” che sacrifica la strategia alla tattica, lo scopo al movimento, e che finisce per costruire castelli di sabbia in Spagna in nome di una “cultura utilitaria”. Sarebbe senz’altro più semplice gestirsi con prudenza il semplice rafforzamento della Ligue, ma significherebbe venir meno ai doveri imposti dalla situazione. Può darsi che non riusciamo a raggiungere l’obbiettivo, o che lo raggiungiamo solo in parte. Tranne in rari casi, le forze militanti non si moltiplicano come i famosi pani bilblici. Accingendoci a questo compito, sappiamo che la strada sarà lunga.

Per poco affidabili e discutibili che siano, i sondaggi stanno ad indicare, magari con una sopravalutazione, una vaga aspettativa politica. Noi puntiamo perlomeno a ridurre il grosso scarto tra il potenziale che esprime la popolarità di Olivier Besancenot e la debolezza delle forze organizzate realmente esistenti. Visto quel che possono fare poche migliaia di militanti, si può immaginare che cosa potrebbero già fare il doppio o il triplo. Ma l’obbiettivo di un nuovo partito è qualitativo non meno che quantitativo. Si tratta di creare un partito popolare, radicato nelle fabbriche, nei quartieri, nei luoghi di studio, fedele alla composizione e alla diversità sociale e culturale del paese (si tratta di un problema di fondo della sfera politica in Francia: i protagonisti di questo non rispecchiano l’immagine della società). C’è il pericolo che questo sforzo necessario di trasformazione sociologica avvenga ai danni della riflessione, che non si regola con gli stessi tempi, le stesse urgenze, e che richiede altri strumenti. Si sarà capaci di fare tutto contemporaneamente? Di estendere le capacità di intervento e di dotarsi al tempo stesso di luoghi di riflessione, di formazione, di supporti, di pubblicazioni, di riviste on line, di una politica editoriale? Non si tratta di dar vita a un’organizzazione in cui gli intellettuali (chiamiamoli così, anche se la catalogazione è abbastanza inadeguata per l’estensione del lavoro intellettuale a tanti campi dell’attività sociale) fungano unicamente da postulanti. No, va fatto un lavoro specifico, per dare battaglia in campo ideologico e culturale. Bisogna riuscire a superare quello che ha costituito uno dei problemi specifici del movimento operaio, che ha le sue origini nelle esperienze traumatiche del giugno 1848 e della Comune: una cultura operaista, alimentata dall’anarco-sindacalismo, sfruttata dal Partito comunista con la scusa della “bolscevizzazione”, con il corrispettivo della diffidenza dell’operaio verso gli intellettuali, sempre sospetti di essere potenziali traditori della classe. Quella che potremmo definire la sindrome Nizan…

Lignes: Quali potrebbero essere le basi programmatiche di questo partito, e si tratta di un addio al trotskismo storico?

Daniel Bensaïd: Non si tratta di sottoporre a un esame di ammissione i membri di un futuro partito, recitando il Manifesto comunista del 1848 o il Programma di transizione del 1938, ma di raccogliersi intorno a un’intesa sul modo di affrontare i grandi eventi in corso. Non chiederemo ai nostri eventuali partner di ammantarsi di una storia che non è la loro, ma di rispondere insieme alle grandi sfide della situazione nazionale e mondiale, cosa che non si può ridurre ad intese effimere su una professione di fede elettorale, ma va verificata nell’attività quotidiana. Alcuni hanno l’impressione di innovare proponendo di superare la contrapposizione artificiosa tra riforma e rivoluzione. Sfondano, con questo, porte aperte da tempo (perlomeno dal dibattito degli anni Venti nell’Internazionale comunista sui cosiddetti obbiettivi transitori). Non vi è contraddizione tra riforma e rivoluzione. Le riforme non sono in sé “riformiste”, a prescindere dalla loro dinamica e dai rapporti di forza in cui si inscrivono. In compenso, c’è una contrapposizione strategica tra il riformismo cristallizzato, quello che concepisce il capitalismo come orizzonte insormontabile del nostro tempo e limita la propria ambizione a correggerlo, e la ferma volontà di “cambiare il mondo” contrapponendo puntualmente una logica di solidarietà, di servizio pubblico, di bene comune, di appropriazione collettiva, a quella dominante del calcolo egoistico, dell’interesse privato, della concorrenza (e della guerra) di tutti contro tutti. Senza o con il termine per dirlo, questo concretamente significa che il partito che vogliamo sarebbe in pratica anticapitalista, vale a dire per me comunista e rivoluzionario, senza per questo che abbia risolto l’enigma strategico delle rivoluzioni del XXI secolo. Le definizioni strategiche interverranno strada facendo, nel vivo dell’esperienza, nel modo in cui hanno preso forma i dibattiti strategici del movimento operaio nel corso del XIX e XX secolo alla prova delle rivoluzioni del 1848, della Comune di Parigi, delle guerre mondiali, della rivoluzioni russa e cinese, della guerra civile spagnola, del Fronte popolare o della Liberazione.

Quanto alla nostra specifica eredità, quella di una lunga lotta contro lo stalinismo e il dispotismo burocratico, malgrado la parte enorme di novità che contraddistinguono la situazione mondiale da una quindicina di anni, resta in larga misura funzionale. Assistiamo senza dubbio alla fine di un ciclo nella storia del movimento di emancipazione. Ma non si riparte dal nulla e non si ricomincia da zero. Il XX secolo c’è stato. Sarebbe incauto dimenticarne le lezioni. Con il beneficio di inventario, a condizione di non considerarla un piazzamento in Borsa, la nostra eredità politica e teorica vitale sarà quello che ne faranno gli eredi. Si tratta di partire da ciò che vi è stato di meglio per andare avanti. Sarà tanto più facile per noi, che non abbiamo mai vissuto in un’identificazione esclusiva o nel culto di un padre fondatore. “Trotzkisti”, se si vuole, ma da tempo la nostra preoccupazione consiste nel trasmettere, nella sua diversità, la storia della cultura del movimento operaio, sia di Lenin e Trotskij, sia di Blanqui, Rosa Luxemburg, Sorel, Jaurès, Labriola, Gramsci, Nin, Mariategui, Guevara, Fanon, Malcom X e tenti altri, non solo rivoluzionari ma anche riformisti seri. Si tratta di punti di riferimento non equivalenti, che non hanno pesato allo stesso modo nelle prove storiche, ma che costituiscono una cultura comune. Senza relativizzare l’importanza delle proprie acquisizioni, la Ligue è quindi preparata da questo approccio al loro superamento o alla loro trascrescenza.

Il problema della ricomposizione politica si è già posto, soprattutto negli anni Trenta o negli anni Sessanta. Le nuove forze emergenti erano persino allora (sotto la spinta della guerra d’Algeria, della rivoluzione cubana, della guerra d’Indocina) più importanti e vigorose di oggi. Negli anni Trenta, le fratture in seno alla socialdemocrazia si sono tradotte nella formazione di partiti come il Poum in Spagna, l’Ilp in Gran Bretagna, la Sap in Germania o in Olanda, nella comparsa di correnti come il pivertismo in Francia. Negli anni Sessanta, l’impatto delle lotte di liberazione nazionale, la guerra d’Algeria e d’Indocina, la rivoluzione cubana, hanno suscitato rotture di sinistra nei partiti comunisti in Asia o in America Latina, stimolato una massiccia radicalizzazione degli studenti. Ci sono state le Blacks Panthers, le conferenze dell’Olas, gli echi mistificati della rivoluzione culturale cinese… Alcuni ne ricavarono all’epoca l’illusione di un’assoluta novità, quasi che quell’ondata cancellasse i punti di riferimento e le discriminanti del passato. In seguito si è dimostrato che non era così. Nella dialettica del nuovo e del vecchio, per riprendere una formulazione di Deleuze che mi è cara, si ricomincia sempre dalla metà.

A differenza di altre tendenze che vi si richiamano, noi non abbiamo mai fatto un feticcio del riferimento al trotskismo. Si tratta di un termine riduttivo, forgiato dall’avversario. Noi lo abbiamo fatto nostro e lo facciamo senza doverci vergognare, addirittura con fierezza, per sfida. Ma se risultasse che, nella nostra eredità, ci siamo trascinati dietro, o ci trasciniamo ancora dietro, fardelli inutili, marchi identitari praticamente non pertinenti, vi si dovrebbe scorgere una maniera di coltivare un’identità artificiosa, quindi settaria, di cui occorrerebbe sbarazzarsi al più presto. Ora, che si tratti della questione della rivoluzione permanente (contrapposta alle utopie del “socialismo in un paese solo”), della lotta contro il fascismo, del pericolo burocratico all’interno del movimento operaio, del problema dei fronti popolari, dell’internazionalismo, o dei principi democratici che dovono sorreggere un’organizzazione, i riferimenti fondativi sono sempre attuali. La nostra storia non si riduce a quella di un’opposizione di sinistra allo stalinismo, così che la scomparsa di quest’ultimo sarebbe sufficiente a renderli caduchi. Ad essere scomparsi sono l’Unione sovietica e i suoi satelliti. Per quanto riguarda il pericolo di cancrena burocratica è un’altra faccenda. Il problema, al fondo, è che lo stalinismo o il maoismo statuali non sono riducibili a una “deviazione” teorica o ideologica. Sono varianti storiche di un massiccio fenomeno burocratico presente in varie forme nelle società contemporanee.

Noi giriamo una pagina, apriamo un nuovo capitolo, ma non cancelliamo quelli precedenti e non abbiamo cambiato libro. Si tratta di superarsi conservando quel che vi è stato di meglio nelle varie tradizioni dei movimenti di emancipazione, comunisti, libertari, consiliari. La Ligue, in questa prospettiva, non rappresenta un fine né costituisce un ostacolo, ma una leva indispensabile. Uno dei problemi è che non siamo ancora abbastanza forti da coinvolgere potenziali interlocutori nazionali che esitano o recalcitrano, per i quali, invece, siamo troppo forti, tanto che hanno paura di un comportamento egemone da parte nostra. Dal momento che non ci ridimensioniamo e non ci facciamo da parte per rassicurarli, l’unica soluzione è quella di diventare più forti per coinvolgere gli esitanti e staccare i reticenti dall’orbita social-liberista di cui restano prigionieri.

Lignes: Hai sottolineato le difficoltà del progetto. Come sormontarle?

Daniel Bensaïd: Le modalità di un “processo costituente”, le sue forme organizzative, dipendono dal ventaglio di interlocutori, a seconda che si tratterà di singoli individui o di correnti, nazionali o locali, ecc. Quel che, in compenso, dipende da noi è lo spirito e il modo in cui affrontare il processo. È illusorio pensare che si è più rassicuranti (o seducenti) buttando via preventivamente zavorra e che, meno se ne dice e più il progetto è attraente. Al contrario, si constata un grande bisogno di chiarezza, di conoscenza, di riflessione, in coloro che si interrogano sul bilancio delle esperienze passate, vecchie o recenti, e sul modo di affrontare una situazione disastrosa. Un discorso minimalista potrebbe addirittura essere sospettabile di manovra, o di manipolazione paternalistica. La leva migliore che abbiamo a disposizione in questo momento è l’esperienza e la determinazione di alcune migliaia di militanti, è un collettivo, alcune convinzioni e un saper fare condivisi. Possiamo e dobbiamo rischiare di impegnare queste acquisizioni in un’iniziativa coraggiosa. Ma c’è una differenza tra il rischio e l’avventura, tra una sfida ragionata e un giocarsi il tutto per tutto. Vogliamo superarci (non suicidarci). Malgrado sue cattive abitudini, sue inerzie (ogni forma organizzata genera conservatorismi immunitari), la Ligue non è per questo una palla al piede o un impedimento, ma la leva migliore che disponibile, come la candidatura di Olivier non era un ripiego o una candidatura per difetto, ma quella migliore in grado di aprire un nuovo spazio politico.

Se riuscisse a raccogliere partner significativi, un nuovo partito comporterebbe sicuramente dei compromessi. Ma i compromessi non sono prevenivi, non sono un punto di partenza, o un qualcosa di preliminare ma, al contrario, lo sbocco di discussioni e di confronti franchi e leali. Noi non chiediamo a nessuno che entri in questo processo di rinunciare alle proprie convinzioni. Reciprocamente, nessuno potrebbe pretendere da noi uno strip-tease programmatico preventivo, né dobbiamo da soli cambiarci d’abito o travestirci. Se abbiamo fatto quello che abbiamo fatto finora. e se oggi facciamo questa proposta, è esattamente perché siamo quello che siamo e perché veniamo da dove veniamo.

Per poco che avanzassimo sulla strada di un nuovo partito, le forme dipenderebbero da questi progressi. Non sono stabilite in anticipo. Sono aperte varie ipotesi: un partito pluralista con diritto di tendenza, un fronte di organizzazioni o di tendenze come il Blocco di sinistra in Portogallo, ecc. È inutile ipotecare risultati di un processo che non è neanche cominciato e speculare sulle soluzioni di un problema di cui ancora non ci sono i termini precisi. In compenso, abbiamo sufficiente esperienza per sapere che in un compromesso si può cedere in chiarezza programmatica in cambio di un guadagno in fatto di superficie sociale, di capacità di intervento e di sperimentazione comune. Ma edulcorare il contenuto di un programma senza acquisire in capacità di intervento, confondere il pluralismo con l’eclettismo, ha portato spesso ad organizzazioni non più larghe e più forti, ma più limitate e confuse. Dopo il ’68, purtroppo, è accaduto non poche volte.

Lignes: Se questo partito, o questa nuova Ligue, non è frutto di un accordo stretto con partiti già esistenti, si tratterà allora di un lavoro che farete da soli, scommettendo sull’emergere di una nuova base estesa a parti di società che non sarebbero ancora politicizzate, o scarsamente politicizzate.

Daniel Bensaïd: No, assolutamente. L’accordo con partiti nazionali non è una premessa per avviare un processo. Occorre, a un tempo, proporre un progetto alle organizzazioni nazionali e discutere con gruppi locali del Partito Comunista, con Alternativa libertaria, con la minoranza di Lo, ecc., senza subordinare queste iniziative “dal basso” all’approdo ad accordi nazionali. Alcuni ci imputano la responsabilità del fallimento di una candidatura unitaria nel 2007. Spetta a noi convincere che le condizioni da noi poste all’epoca, in particolare la chiarificazione richiesta invano sull’impossibilità di alleanza governativa o parlamentare con il Partito Socialista, fossero pienamente giustificate. Non intendevamo, da parte nostra, presentare il Ps come qualcosa di diabolico, tuttavia i suoi orientamenti sono semplicemente incompatibili con il nostro progetto, anche se questo non esclude l’unità di azione (che del resto gli proponiamo continuamente) su questo o quel problema concreto (i sans-papiers, i licenziamenti, la riforma universitaria…). Nella sostanza, il Ps è d’accordo con la riforma delle pensioni, con la riforma delle università, con il mini-trattato europeo. Vi si oppone – se lo fa – solamente sulla forma e per la forma.

Ci si obietta spesso che il rifiuto di allearsi elettoralmente con i Ps bloccherebbe qualsiasi possibilità di alternanza. Siamo chiari. Quella che è impossibile è un’alleanza di maggioranza parlamentare o governativa. Viceversa, ci è capitato più volte, anche al secondo turno delle presidenziali, di votare per suoi candidati, e non in accordo con il loro programma, ma nonostante il loro programma, semplicemente per eliminare la destra. Un detto popolare dice che “per cenare con il diavolo serve un cucchiaio lungo”. Anche se il Ps è un diavoletto (o un diavolo “di carta”, come avrebbe detto il presidente Mao) più che un diavolo, il nostro “cucchiaio” è ancora troppo piccolo. Bisogna dunque partire dal modificare i rapporti di forza, non solo rispetto alla destra, ma anche in seno alla sinistra. Le ragioni per le quali il Ps oggi è quello che è sono profonde. Nella sua campagna presidenziale del 2002, si è comportato come un Giscard di sinistra, eludendo la lotta di classe e facendo dei ceti medi – la Francia dei due terzi! – il proprio bersaglio elettorale privilegiato. Risultato: la perdita dell’ elettorato popolare e Le Pen al secondo turno. Per riconquistare questo elettorato popolare, servirebbe una politica completamente diversa sui problemi dell’occupazione, del potere d’acquisto, dei servizi pubblici. Tutte cose che sono inconcepibili senza rompere con i condizionamenti della costruzione liberista europea accettati finora. Ora, in tutte le legislazioni e nelle privatizzazioni da loro stessi orchestrate, gli apparati dirigenti socialisti hanno intrecciato stretti legami con gli ambienti industriali e finanziari privati. Se Strauss-Khan assume tanto naturalmente la guida del Fondo monetario internazionale è perché era già, insieme ai dirigenti della Peugeot, il fondatore del Circolo dell’industria. Esiste una fusione organica tra nobiltà di toga socialista e aristocrazia finanziaria. Il grado di “integrazione” è tale che è difficile intravedere da dove potrebbero venir fuori le energie e le risorse non per una politica rivoluzionaria, ma magari riformista nell’accezione classica del termine, o “keynesiana”, per dirla un po’ in gergo.

Lignes: È inevitabile lo spostamento a destra della sinistra, di cui hai appena parlat. È cominciato da tempo e non è dato immaginare che possa fermarsi. È ciò che, in questo numero di Lignes, intitoleremo la parte della “scomposizione”, non della politica nel suo complesso, ma della politica di sinistra., dunque della politica. È comprensibile che lo spostamento a destra della sinistra governativa non ottenga l’unanimità, che esista una spinta sociale, ideologica e politica in favore di una forma di “sinistra della sinistra”. Il successo della figura di punta della Ligue, il suo portavoce Olivier Besancenot, conta parecchio in questo. Ma, sicuramente, anche il ritiro di Arlette Laguiller. Besancenot affascina. Questo implica un rinnovato rapporto di forza tra la sinistra di governo e la sinistra critica o radicale. Qualcosa, allora, può anche accadere dall’alto e non solo dalla base.

Daniel Bensaïd: I sondaggi, in effetti, attestano una crescente simpatia per Olivier Besancenot. Appare come l’oppositore al sarkozismo più deciso a sinistra, e come uno dei personaggi di sinistra più popolari, tanto da rivaleggiare con i principali dirigenti socialisti. Non bisogna però farsi prendere da questo miraggio e confondere la popolarità nell’opinione pubblica (lontano dalle scadenze elettorali) con la realtà dei rapporti di forza. Tra il 2002 e il 2007, l’elettorato di Besancenot è evoluto. Gli studi pubblicati dopo il 2002 delineavano un elettorato, diciamo così, “altermondialista e ceti medi”. Nel 2007, si tratta di un elettorato più popolare in senso lato, diciamo “operaio-impiegatizio”, e soprattutto giovane (oltre il 50% al di sotto dei 35 anni, un dato ben diverso da quello di Lo o del Pc). Poter contare su questo portavoce è molto importante, ma resta ancora lo scarto enorme tra l’eco del suo discorso e le capacità di mobilitazione, anche se la sua popolarità si verifica sempre più nelle lotte sociali. La figura militante di Olivier contribuisce a far muovere le cose dall’alto, come dite voi, ma la condizione decisiva per il nostro progetto resta l’appropriazione della politica da parte di “chi sta in basso”. Bisogna imparare ad utilizzare i giochi di immagine senza diventarne dipendenti, senza cedere alla cooptazione mediatica, e senza abbandonarsi all’illusione che la “seconda vita televisiva” possa sostituire la vita, in altre parole la lotta reale.

Lignes: Come mai un partito, che sembra una forma datata, e non qualcosa di più duttile, di meno centralizzato, più in rapporto alle forme agili contemporanee della rete?

Daniel Bensaïd: Partito nuovo, lega, alleanza… i nomi contano poco. Quel che importa è, invece, l’efficacia ai fini dell’azione e i criteri di vita democratica. Vogliamo un’organizzazione di militanti e non di semplici aderenti che si vedono solo nei giorni dei congressi. Non è per nostalgia di un mito bolscevico, ma prima di tutto e soprattutto per una preoccupazione democratica. Nella sua campagna, Segolène Royal ha parlato molto di democrazia partecipativa, ma un partito di aderenti a 20 Euro – che aderiscono non per militare, ma per votare, limitandosi a cliccare in internet – è una forma di democrazia passiva, nel migliore dei casi consultiva, nel peggiore plebiscitaria. Noi, viceversa, vogliamo un’organizzazione che resista, creando il proprio spazio democratico, sia alle logiche del potere economico, sia a quelle del potere dei mezzi di comunicazione di massa. Democrazia attiva esiste quando la discussione più libera approda a decisioni collettive che impegnano ciascuno e consentono di sperimentare insieme, alla prova della pratica, le scelte fatte. Una discussione che non impegna a niente è solo uno scambio di opinioni. Per questo non c’è bisogno di partiti, bastano un incontro amichevole o il bancone di un bar. La denigrazione della forma partito rientra nella degenerazione plebiscitaria della vita politica, nella sua crescente personalizzazione, la sua evoluzione verso un rapporto di fusione tra l’individuo carismatico mediatizzato e la massa inorganica, in spregio a qualsiasi mediazione politica, di parte o altro, Ora, la politica è esattamente un’arte delle mediazioni Lo spettacolare debordare dell’“io” ai danni del “noi” nell’ultima campana presidenziale è sintomatico di questa allarmante tendenza. Non esiste organizzazione senza un minimo di regole comuni, e non esiste diritto senza una qualche formalizzazione giuridica. Non solo i partiti, ma i sindacati, le associazioni hanno statuti che in certo senso rappresentano la carte costituzionale che è alla base dell’adesione volontaria dei rispettivi membri. Certo, il centralismo democratico, ormai identificato con il centralismo burocratico, gode di pessima stampa. Ma democrazia e un certo grado di centralizzazione non sono in contrasto, al contrario, sono l’una condizione dell’altro. La democrazia non è mai perfetta, ma tutte le formule che rivendicano maggiore duttilità informale risultano meno democratiche e finiscono per privare il collettivo militante della possibilità di espressione (e di controllo dei portavoce). Abbiamo spesso, purtroppo, fatto l’esperienza della democrazia di opinione, in altri termini della democrazia di mercato, isomorfa rispetto all’economia di mercato, propizia a tutti i tipi di demagogia, cosicché la nostra preoccupazione ormai può essere raccolta, purché ci si spieghi chiaramente. Parlare di un partito di militanti, e non di semplici aderenti-votanti, non significa né ritmi sfrenati di intervento, né iper-centralismo, né disciplina ferrea. Ciascuno può contribuire all’attività comune secondo le proprie capacità, i propri impegni, il tempo disponibile; l’importante è che le decisioni alle quali partecipa l’impegnino personalmente e concretamente. La comunicazione trasversale oggi consentita dalle tecnologie telefoniche o da internet permettono di infrangere quel monopolio dell’informazione che è stato uno dei fondamenti dei poteri burocratici.

Le difficoltà e gli ostacoli non sono pochi. Dobbiamo saperlo. Ma non è un motivo per non provarci. Ci si rimprovererebbe, e ci rimprovereremmo noi stessi per primi, di non averlo fatto quando ce n’era l’occasione.

Traduzione di Titti Pierini
Erre n° 27 marzo 2008

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