Peguy critico della ragione storica

L’ingloriosi verticale

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Premessa

E’ certo opportuno che qualcuno che si dichiara marxista – come nel mio caso – dia qualche spiegazione a proposito del suo essere passionalmente attirato da Péguy. Io non ho scoperto l’esistenza del Goulag attraverso la rivelazione di Solgenitzin, né la putrefazione dell’impero burocratico con la caduta di Berlino. Io non ho salmodiato i versetti del libretto rosso di Mao. Insomma, è da parecchio che ritengo la teoria di Marx come anti-staliniana. Precisato tutto ciò, sono comunque comunista: non “ex”, non comunista rinnegato, pentito, o che si va pentendo, come tutta quella quantità che esiste sul mercato della cattiva coscienza prezzolata.

Comunista semplicemente.
E péguista.

Non péguista benché marxista. Péguista perché marxista. Ed anche ciò merita delle spiegazioni. Anzitutto di itinerario. Poi di contenuto. Il mio rapporto con Péguy procede da un duplice incontro. Sono stato iniziato alla lettura di Clio da un professore di lettere, maurrassiano convinto. Ben più tardi ci sono ritornato attraverso Walter Benjamin. Conoscendo infatti la sua attrazione verso “la fantastica malinconia dominata” di Péguy, ho voluto sapere di più sul loro comune rapporto al tempo che funge da trama a queste affinità1.

Vi è in Péguy un pensiero forte ed ostinato, che il suo stesso talento minaccia di far passare per ciò che si qualifica peggiorativamente di letteratura. Ora, vi sono proprio, lungo tutta la sua opera, con tutta la testardaggine ruminatoria di cui è capace, i materiali preziosi di una critica della ragione storica.

[|- I -|]

Si tratta innanzitutto, lo si sa bene, di un affare di ninfee e di caucci2.

Su questo punto, termine contro termine, Péguy è un anti-Renan3.

Ricordiamoci l’angosciata vertigine di Renan e delle sue professioni di fede: “Il nostro secolo non 6 metafisico. Si preoccupa poco della discussione intrinseca delle questioni. La sua più grande preoccupazione, è la storia e soprattutto la storia dello spirito umano. E’ proprio qui il punto ed il luogo di separazione delle scuole: si è filosofo, si è credente secondo il modo con cui si considera la storia; si crede all’umanità, non ci si crede a seconda del sistema che ci si è fatto della propria storia. Se la storia dello spirito umano è solo una successione di sistemi che si rovesciano l’un l’altro, resta solo da gettarsi nelle braccia o dello scetticismo o della fede. Se la storia dello spirito umano è la marcia verso il vero tra due oscillazioni che riducono sempre di più il campo dell’errore, bisogna aver fiducia e sperare nella ragione. Ognuno dei nostri giorni è ciò che è a seconda del modo nel quale intende la storia”4. In questa “marcia verso il vero”, necessariamente Hegel la spunta su Platone, come l’ultima ninfea dipinta la spunta sulla prima, come il caucciù vuoto su quello pieno. E’ necessario che il concatenarsi dell’ordine cronologico sia anche quello di uno sviluppo progressivo dei valori umani. Se no…

Se no la storia sarebbe insensata, scapigliata, sottosopra. Questo abisso di deraison comporterebbe il grande ritorno complementare, la grande e moderna rivincita dello scetticismo senza principio, delle cieche fedi e delle credenze fanatiche.

E tuttavia! Péguy sa bene che le ninfee non “marciano” affatto come il caucciù. Se gli ultimi vincitori venuti, sulla linea orizzontale del tempo, fossero anche i migliori, nell’ordine verticale dei giusti, sarebbe troppo facile. Vi è qualche cosa di marcio nel regno della storia universale, troppo golosa, troppo avida di senso, intimamente ferita dalle sue piccolezze: “Perché mettere alla storia falsi talloni? Storia generalizzata, storia nobilitata ma altrettanto falsata. Non dobbiamo fare della storia universale… Non dobbiamo sociologicare la storia, non dobbiamo generalizzarla, non dobbiamo legalizzarla. Cerchiamo di essere socialisti e di dire la verità”5.

La verità semplice, la “verità triste” forse.

Che bisogna saper dire tristemente, senza tante pieghe e drappeggi, e senza le ingannevoli frasi fatte della storia universale. Senza la mania classificatoria che pretende di mettere ogni cosa al suo posto nell’ordinato concatenarsi degli effetti e delle cause, offrendo altrettanti cattivi pretesti ed altrettante comode scuse per le quotidiane vigliaccherie.

Già dal suo periodo socialista e militante, Péguy ricusa dunque categoricamente l’alibi storico di tutti i posteromani tranquilli: non si ha infatti il diritto di dissolvere l’unica ed irriducibile responsabilità d’uomo nelle nappe oleose del senso della storia. Non si ha neanche il diritto di tirarsene fuori con delle generalità e delle legalità storiche.

Non si ha inoltre il diritto di rimettersi al Giudizio finale della Storia ed ai suoi fini illusori per sfuggire al temibile imperativo di decidere fallibilmente. Perché “è l’effetto di una singolare inintelligenza immaginarsi che la rivoluzione sociale sarà una conclusione, una chiusura dell’umanità nella beatitudine delle morti quiete. E’ l’effetto di un’ambizione ingenua e cattiva, idiota e sorniona il voler chiudere l’umanità con la rivoluzione sociale. Fare un chiostro dell’umanità sarebbe l’effetto più temibile della più temibile sopravvivenza religiosa. Lungi dall’essere, il socialismo, definitivo esso è preliminare, antecedente, necessario, indispensabile, ma non sufficiente. Esso è prima della soglia. Non è la fine dell’umanità. Non ne è neanche l’inizio”6.

La vera prova esistenziale e la vera prova dell’incredenza, dell’attitudine a resistere alla tentazione di ripescare, di ritrovare la vecchia religiosità perduta attraverso questa rigida religiosità storica, è proprio qui. Nella capacità di “restare avanti alla soglia”.

In una inconfortevole transizione permanente.
Senza il riposo della casa. Senza certezza finale.
Nell’inquietudine obbligata del passaggio.

[|- II -|]

“La storia non fa niente”, diceva Marx, superbamente7. E neanche il tempo.

La critica della ragione storica comporta quella della meccanica temporalità che la abita. Da lettore di Bergson, Péguy lo ha magnificamente compreso. Molto prima di lui, egli trova le stesse parole di Walter Benjamin per ricusare l’idea falsamente rassicurante di un tempo “omogeneo e vuoto”, la cui ruota dentata farebbe avanzare ad ogni giro l’umanità di una tacca. Egli sente bene che la temporalità storica è piena di ritmi, di ventri e di nodi, di periodi e di epoche.

Perché l’umanità non è meccanica né per fabbricazione né per tenuta. “Naturale, ella procede naturalmente secondo un metodo, secondo un ritmo naturale. Organica, ella procede organicamente, secondo un metodo, secondo un ritmo organico; in particolare, ella fa delle spinte che danno sensibilmente un ritmo vegetale, arborescente… Io non utilizzo affatto a caso questo paragone della vegetazione – organica, storica –, dell’umanità con la vegetazione – organica, storica – di un albero ed in genere dei vegetali arborescenti”8. La storicità è dunque vegetale e non meccanica. Nella logica hegeliana, la meccanica è solo la forma inferiore del movimento che culmina nella complessità della Vita. Nella critica di Marx, il capitale non si riduce al tempo lineare e meccanico dello sfruttamento, e neanche al tempo ciclico della circolazione: esso è un organismo complesso e vivo, un vampiro insaziabile ed un corpo irrigato, esposto ai ritmi della crisi.

Piena di diramazioni e di biforcazioni, l’arborescenza è dunque proprio il modo della vitalità storica. La sua vitalità non è spianata, ma spezzata, rapsodica, fatta di contraddizioni e di stiramenti: “vi sono dei periodi, dei tempi che sono grandi e che sembrano piccoli, che sono lunghi e che sembrano corti; e vi sono dei tempi che sono piccoli, che sono corti e che sembrano lunghi, che sembrano grandi; è una questione di grandezza e non solo di dimensione di lunghezza. E’ una questione di pieno e di profondità. Di piatto e di riscavato”9.

Péguy rigetta chiaro e tondo l’applicazione alla storia del sistema referenziale newtoniano, quello di un “puro tempo geometrico”, tempo omogeneo, spaziale, figurato, immaginato, fittizio, disegnato, finto, tempo geometrico e matematico, che “è proprio giustamente il tempo della cassa di risparmio e dei grandi impianti di credito”, “il tempo della marcia degli interessi rapportati da un capitale”, delle tratte, delle cambiali, “delle ansietà delle scadenze”10.

[|- III -|]

Critica della storia, critica del tempo…
Critica del progresso. Le une non vanno senza l’altra.

Per Péguy, l’idea stessa di progresso è “un’incurabile frivolezza del grosso borghese francese” e “bisognerà che il Sig. Laudet si abitui all’idèa che noi non facciamo alcun progresso: sono i moderni che fanno dei progressi”11. Dietro questo rigetto radicale delle “illusioni del progresso”, si può indovinare l’ombra di Sorel. Il quale, buon ingegnere, non ha mai negato le virtù della penicillina o quelle dell’elettricità, ma ha saggiamente contestato che un progresso tecnico sia anche, nello stesso momento ed ineluttabilmente, un progresso sociale.

Dalla noncuranza orizzontale del progresso, dalla sua crescita quantitativa, Péguy richiama all’ordine verticale dell’ingrandimento e del superamento. La miseria moderna non è minore, è forse peggiore, dell’antica. Non si potrebbe credere né far credere che l’umanità sia meno dolorosa oggi di ieri, né che si sia perfezionato il cuore umano, né che si muoia o si invecchi meno di quanto non avvenisse nel “quindicesimo”, e neppure che “l’ansietà del pane quotidiano sia diminuita nel mondo”.

Egli rifiuta nettamente quest’immagine di un’umanità personificata, che calpesta passo a passo i gradini che la condurrebbero dall’infanzia all’età adulta. Anzi si meraviglia di trovarne una prima idea in Pascal, quel caro ed irrimpiazzabile Pascal che, “bisogna aver il coraggio di dirlo e saper riconoscerlo”, su questo punto, anche se su questo soltanto, “qui ed entro questi limiti, è dall’altra parte, con l’avversario”. Perché si contraddice, Pascal. Aprendo la strada ad un Comte, ad un Renan, egli è, qui e solo su questo punto, per se stesso il suo proprio nemico ed il suo proprio avversario.

Perché la proposizione del progresso, “del progresso lineare indefinito, continuo o discontinuo, perpetuamente perseguito, perpetuamente spinto, perpetuamente ottenuto ed acquisito, perpetuamente consolidato”, è “la proposizione portante” dell’avversario.

Péguy gli oppone “la proposizione alla quale noi teniamo di più e molto”12.

Quella “delle risonanze delle voci”, dei “risuoni a distanza”, delle attrazioni e delle gravitazioni, delle affinità e delle eco, che attraversano il tempo, che fanno comunicare le epoche, rinascere gli istanti perduti, e risplendere gli astri spenti.

[|- IV -|]

Rifiutare il senso unico della Storia universale, significa rifiutare anche un tempo comandato tanto dalle cause discendenti dal passato, quanto dalle cause finali della posterità, queste “colle” che fanno stare insieme i diversi tipi di determinismo storico.

Il tempo si organizza e si articola a stella, a partire dal presente.
Lavorare “quindicina per quindicina” è installarsi in questo presente.
Per tirarlo verso la sua parte di eternità.

Colui che lavora nel presente non fa opera di storico, ma di memorialista e di cronista. Egli non si situa nel tetro grigiume del ricordo che si visita, ma nel vivo sanguinolente della reminiscenza e della reviviscenza. Senza questo costante richiamo, senza questo lacerante grido d’amore, il presente diventa e cade passato, “subito ed anche ed in ciò stesso diventa, il reale, storico, cinerario, finanche cenere d’avvenimento; cade storico e non risalirà mai questa china; ed esso non diventa storico se non nel senso e nella misura in cui diventa cinerario”13.

La storia che rasenta i muri e recensisce le rovine è archivista e antiquaria. Ella non comprende più. Ella classifica e situa. Il passato è suo dominio. La rimemorazione si coniuga invece al presente. Resta nell’avvenimento. Per rimettere tutto in gioco. Per ridistribuire indefinitamente le carte ed i ruoli. Per rendere la loro possibilità alle virtualità perdute.

“Lasciamo dire Clio, figlia della memoria.

Lasciamola rimemorare e tentare di rimemorare… poiché in ultima analisi la storia non è e non può essere e non può fare che un’esercizio di memoria ed al massimo un accomodamento della memoria”14.

La risonanza ed il rimbombo del passato le strappano un mormorio appena udibile. Il presente invece lo deve saper ascoltare con tutta la sua attenzione dolorosa. Senza presupporre ciò che precede; senza presupporre neanche un futuro già risolto. Il presente si accontenta di svegliare quell’indomani tremante, sul quale proietta la sua ombra indecisa, “sul quale egli è in marcia” quasi come “piegato”, pronto a “ricadere nella sua professionale inquietudine”, “a perdersi nelle grandi dimensioni ignote dell’avvenire, mangiando con un labbro orizzontale, rodendo come un roditore i bordi orizzontali dell’avvenire professionale”15.

Queste grandi possibilità sconosciute non dettano affatto la condotta del presente.

Esse riservano gelosamente la loro (pen)-ultima parola, abbandonando alla sua sorte il nostro effimero istante di attualità, conservando intero l’enigma della sua irrecusabile esigenza ed intatta l’esperienza della finitezza nell’impietoso obbligo di scegliere.

“Infaticabile presente”.

Che ci infligge la snervante prova della decisione sempre ricominciata. Alla scelta senza certezza, la cui figura emblematica lasciataci in eredità da Pascal, resta l’inevitabile scommessa. Poiché bisogna ben scegliere in tutta libertà. Poiché bisogna proprio che ci sia un rischio.

E’ “che si ritorni sempre a questa forma di una scommessa”16.

[|- V -|]

Dall’evento che fu fuoco, la storia storica ritiene solo la cenere. L’evento è dell’ordine dell’interruzione e dell’insurrezione, dell’ordine del calendario che celebra e non dell’orologio che si accontenta di contare. Esso fende l’omogeneità lineare, riempe il vuoto spaziale, nega l’astrazione della temporalità moderna.

Basta che avvenga ciò che avrebbe ben potuto non essere. La liberazione di Orléans. La presa della Bastiglia, alla quale nessuno era tenuto, e che è a se stessa il suo “zeroesimo” anniversario.

Nella sua novità, nella meraviglia splendente di un sapere frantumato, l’evento è l’antitesi del cinerario. Complice intempestivo delle incostanze del presente, esso è il vivo che, eccezionalmente, straordinariamente, misteriosamente, risuscita il morto. Ma vi è evento ed evento. Vi è l’avvenimento che eccede il suo contenuto e lo deborda da tutte le parti, l’evento rivoluzionario o l’evento repubblicano. E vi è “l’evento senza contenuto”, di cui oggi si direbbe che è solo e sempre uno spettacolo o un disastro travestito da avvenimento17.

L’importante è imparare a considerare la storia dal punto di vista dell’avvenimento, a pesare ed a comparare non solo le realtà avvenute, ciò che è alla portata di chiunque, ma anche “le eventualità” incompiute, gli eventuali possibili eventi18. L’importante è di dispiegare la ragione nella dimensione del possibile piuttosto che restringerla e ridurla alla misura di ciò che è. Non certo per speculare sulla “storia ipotetica”.

Per restituire il senso dell’attesa.

Per tenderla a rompersi verso le promesse del semplicemente virtuale.

Attraverso questa porta stretta, “attraverso questo giorno aperto su non si sa quale fermata del tempo”, “per mezzo della finestra di questo tempo, per mezzo dello iato di questo istante”, si può sempre, ad ogni secondo, in ogni momento presente, sperare “che sia il genio stesso che appaia; l’uomo e l’opera del genio che sgorghi intercalare”19.

Irruzione e sgorgare intercalare dell’evento.

Dove sono, come in Benjamin, situati “gli scoppi eclatanti del tempo messianico”. Ove il sorgere del possibile tiene testa con tutta “l’energia rivoluzionaria del nuovo” alla stupida chiusura terminale della storia.

[|- VI -|]

“Attraverso questo giorno aperto su non si sa quale fermata del tempo”.

Quel giorno uscito dal rango dei lavori e dei giorni.

Quel giorno che rivoluziona per fare del nuovo con dell’antico. Non del nuovo perituro e ben presto passato di moda. Del nuovo autenticamente e durabilmente nuovo. Del nuovo professionista della novità, che non si ottiene mai se non con dell’antico: la rivoluzione tagliata nella tradizione. Poiché in fondo, così è di “quel meraviglioso rinnovamento di quel meraviglioso rinfrescamento dell’umanità per approfondimento che dà tanta allegria alle vere crisi rivoluzionarie, in tutta la loro pena, in tutta la loro miseria, in tutto il loro sforzo”.

Péguy non ha vissuto rivoluzioni. Tutt’al più il sollevamento morale dell’affare e le sfilate commemorative del quartiere Saint Antoine. Egli annusa e respira tuttavia a pieni polmoni quest’aria particolare del momento sospeso, nel quale passato ed avvenire si toccano e si concentrano sul presente, tutti pronti ad uscir fuori del tempo che li incatena. Poiché in fondo, “una rivoluzione non è una piena rivoluzione che se essa è una più piena tradizione, una più piena conservazione, una tradizione anteriore, più profonda, più vera, più antica, ed anche più eterna; una rivoluzione non è una piena rivoluzione che quando essa mette, per così dire, in circolazione, nella comunicazione, che quando fa apparire un uomo, un’umanità più profonda, più approfondita, alla quale non erano mai giunte le rivoluzioni precedenti, quelle rivoluzioni delle quali la conservazione faceva proprio la tradizione presente”20.

Péguy sembra qui sul punto di contraddirsi. Si crede di assistere alla rivincita del caucciù sulle ninfee. Se le rivoluzioni si succedono orizzontalmente, longitudinalmente, se ognuna riprende e perfeziona l’eredità della precedente, per condurla un poco più lontano e per trasmetterla alla seguente, allora “la proposizione” nemica del progresso sta per prendere la sua rivincita. Ma Péguy cambia di piano, rovescia l’asse della tradizione, e se ne libera di nuovo, verticalmente.

La tradizione, che approfondisce ed eleva, non è accumulazione, tesaurizzazione, “superamento”. Non ha niente a vedere con la palla che si ingrossa rotolando, non ha niente di comune con la contabilità degli interessi storici. Allo stesso modo, le rivoluzioni non giocano affatto a salta-montoni, l’una al di sopra dell’altra: “una rivoluzione è uno scavo, un approfondimento, un superamento in profondità”21.

A differenza del tempo fisico, il tempo delle rivoluzioni così concepite non è reversibile. La conservazione (la reazione) non è il segno semplicemente rovesciato della rivoluzione. Il gioco della rivoluzione e della conservazione non è affatto a somma nulla. Vi è disimmetria.

[|- VII -|]

La messa in gioco è capitale.

Ne va di una responsabilità maggiore, di un criterio che divide le scelte ed i comportamenti. Da una parte o dall’altra, dalla parte della rivoluzione o dalla parte della conservazione, le compiacenze ed i compromessi, le vigliaccherie e le dimissioni non hanno più lo stesso peso ne lo stesso prezzo: “Uria attenuazione della rivoluzione è per forza, automaticamente a vantaggio della conservazione; una attenuazione della conservazione non è per forza ed automaticamente, a vantaggio della rivoluzione; la conservazione, la reazione gioca a chi perde può guadagnare; la rivoluzione gioca sempre a chi perde non guadagna niente; la conservazione non rischia tutto; la rivoluzione rischia sempre tutto il suo”22. Penetrante comprensione dell’ineguaglianza strategica tra l’offensiva e la difensiva, applicata alla conservazione ed alla rivoluzione sociali.

La conservazione può accontentarsi di gestire e di preservare. Essa approfitta di tutte le concessioni della rivoluzione, mette nel granaio la taglia delle sue più piccole debolezze, senza rischi, semplicemente perseverando nel suo essere. Per la rivoluzione, è un’altro paio di maniche.

Come di niente diventare tutto?

Bisognerebbe giocare in continuazione il tutto sulla parie! Il secolo che si conclude illustra tragicamente questa mortale asimmetria, già percepita, secondo strade diametralmente opposte, da Saint-Just, che sapeva per esperienza quanto costano delle rivoluzioni fatte “a metà”, che non giungono al fondo della loro logica, e da Joseph de Maistre, che sapeva per esperienza che una contro-rivoluzione (una restaurazione) non ha affatto bisogno di essere una rivoluzione a rovescio, della quale si sarebbe cambialo il senso: le basta essere il contrario di una rivoluzione. Così, “senza che ci sia stato nel 1881 alcun grande avvenimento, voglio dire nessun avvenimento iscrivibile, a quella data la Repubblica ha comincialo a discontinuarsi, da repubblicana e divenuta cesariana”23. Così ancora, senza che il colpo di Stato del 1991, nell’agosto, sia più dell’ombra e del mimo di un avvenimento assente, la Restaurazione inghiotte i resti di una rivoluzione di Ottobre da lungo tempo disfatta.

In altre parole: “un inizio di rivoluzione non fa affatto una rivoluzione, neanche cominciata, non fa rivoluzione…; un terzo di rivoluzione non fa affatto rivoluzione, neanche per un terzo; un terzo di conservazione fa conservazione, almeno per un terzo; come tre terzi di prova non fanno una prova, così tre terzi di rivoluzione non fanno una rivoluzione; tre terzi di conservazione fanno della conservazione per questi tre terzi”. Ed inoltre: “Non si può fare della rivoluzione; si è tenuti a fare, si può solo fare la rivoluzione; mentre si può perfettamente fare della conservazione senza fare assolutamente la conservazione”24. Accecante asimmetria, in effetti.

Tra l’avvenimento folgorante di Ottobre e l’interminabile disastro termidoriano, tra Lenin e la dinastia burocratica che va da Stalin ad Eltsin, tra Rosa Luxemburg e Friedrich Ebert.

Ancora una volta, la veggenza di Péguy non dipende dalla filosofia della storia, ma dall’urgenza politica. Poiché, “se è così, chiunque attenua, diminuisce la rivoluzione, fa in realtà gli interessi della conservazione, quando non fa proprio gli interessi della reazione; chiunque al contrario attenua, diminuisce la conservazione non fa necessariamente ed automaticamente gli interessi della rivoluzione; è per questo che è rigorosamente vero dire che si vedono nella realtà molti vecchi o pretesi rivoluzionari tradire la causa della rivoluzione; mentre, per questa ragione e per tante altre, non si vedono vecchi o pretesi conservatori tradire la causa della conservazione; chi non è per la rivoluzione è contro di essa; chi non è contro la conservazione è per essa; una rivoluzione ha contro di sé tutti i neutri e tutti gli indifferenti; la conservazione ha per sé tutti i neutri e tutti gli indifferenti”25.

[|- VIII -|]

Secondo questi tempi asimmetrici e queste verticalità rivoluzionarie, la vittoria storica non ha mai valore di prova. Vittorie e sconfitte sono delle iscrizioni provvisorie nell’orizzontalità cronologica, in un processo la cui ultima parola non è mai detta.

Che cosa è, insomma, vincere e chi è il giudice?
Orizzontalmente o verticalmente, le risposte differiscono.

Vi sono delle rovinose vittorie come vi sono delle “vittoriose disfatte”. Nessuno potrebbe affidarsi alle consolazioni della posterità. Se la sorte dei vincitori e dei vinti non è mai giocata in anticipo, la dialettica della sconfitta non può essere considerata una consolazione. Bisogna fare pienamente, con gli occhi spalancati, l’esperienza della sconfitta nel presente, senza raccontarsi storie e senza fare i furbi: “Non felicitiamoci. Siamo dei vinti. Il mondo è contro di noi e non si può più sapere oggi per quanti anni ancora. Tutto ciò che abbiamo sostenuto, tutto ciò che abbiamo difeso, i costumi e le leggi, la serietà e la severità, i principi e le idee, la realtà ed il bel linguaggio, la purezza, la probità del pensiero, la giustizia e l’armonia, la giustezza, un certo tono, l’intelligenza ed il buon francese, la rivoluzione ed il nostro antico socialismo, la verità, il diritto, la semplice intesa, il buon lavoro, l’opera bella, tutto ciò che noi abbiamo sostenuto, tutto ciò che abbiamo difeso arretra sempre più davanti ad una barbarie, davanti ad una incultura crescenti, davanti all’invasione della corruzione politica e sociale. Non cerchiamo di nascondercelo: noi siamo dei vinti. Da dieci anni, da quindici anni, non abbiamo fatto altro che perdere terreno”26.

La cosa più grave, all’occorrenza, non è la sconfitta riconosciuta, poiché vi sono anche delle gloriose sconfitte e degli altisonanti disastri, “più belli, più ammessi, più commemorati di qualunque trionfo”. La cosa più grave, sono le sconfitte dall’interno, per abbandono, per rinnegamento e per tradimento, le sconfitte senza combattimento che sono anzitutto e soprattutto dei fallimenti morali. “Sconfitte oscure”, sono le “peggiori di tutte”: delle sconfitte per delusione e disinganno, quelle da cui “una generazione può anche non riprendersi mai”.

Questo segno della sconfitta è per Péguy, sicuramente, quello della sconfitta militare e politica del 1870 e del 1871 che fa di questo popolo in generale e di questa generazione in particolare, vinta prima di nascere, un popolo di vinti. Esso ha trasmesso quel “gusto della sconfitta”, irrevocabile fino a che la stessa sconfitta non sarà stata revocata. Ma una sconfitta può nasconderne un’altra, più lontana, la sconfitta tiepida, che è senza dubbio la più profonda, la più dolorosa. Quella che non deve niente alla forza del nemico. Quella che mina e demoralizza dall’interno: “una sconfitta di centoventi anni”!

[|- IX -|]

Essenzialmente, fondamentalmente, Péguy è il vinto di questa sconfitta di lunga data: “In meno di centoventi anni, l’opera non della Rivoluzione francese, ma il risultato dell’aborto della Rivoluzione francese e dell’opera della Rivoluzione francese, sotto i colpi, sotto il peso, della reazione, della barbarie universale è letteralmente annientato”. Il socialismo nascente è già malato di questa irrimediabile ferita. In modo tale, ripete seguendo Bernard Lazare, che “i vecchi opportunisti si sono corrotti in quindici anni, i radicali in quindici mesi, i socialisti in quindici settimane”27.

L’esperienza della sconfitta non è compensata dalla certezza della vittoria futura nell’ordine orizzontale. Almeno, nell’ordine verticale, apporta il soccorso ed il conforto di una forza: “l’Ebreo è vinto da settanta e novanta secoli: proprio qui è la sua eterna forza”28. Quella forza che permette, senza passare comunque nel campo dei vincitori, senza celebrare le vittorie dalle gambe pesanti, di ricominciare le sconfitte senza perdere mai speranza: “Quante volte io stesso non ho ricominciato le sconfitte? Non amavo le vittorie. Amavo ricominciare le sconfitte. Quante volte non ho ricominciato le sconfitte con quella strana impressione che ogni volta che le ricominciavo, esse non erano ancora consumate, esse non erano affatto”29. E’ questa debole forza messianica che permette di ricominciare le sconfitte senza mai rassegnarsi del tutto al loro ricominciamento, con la segreta speranza che la punta dei forse avrebbe finito per bucare il muro dei ricominciamenti.

Lungo tutti i testi, al di là del disordine apparente delle notazioni di circostanza o Io slancio delle polemiche, la critica della ragione storica scava e costruisce le sue gallerie con metodo.

Essa non risparmia né la storia, né il tempo, né il progresso. Essa oppone loro la sorda connivenza del presente, dell’evento, della rivoluzione. Essa rovescia la gerarchia stabilita dei vincitori e dei vinti. Essa detta una condotta i cui principi, posti già dai primi articoli nella Revue socialiste consacrati a Leon Walras30, sono incompatibili con il realismo, con il calcolo, e con i compromessi della tattica. Se Zola potè pronunciare una terribile verità, è proprio perché non era un tattico. Proprio perché non calcolava.

Sacrificare il prossimo al più lontano, pensare di riparare l’ingiustizia di domani con la giustizia trionfante di dopodomani, è qualcosa di buono per la filosofia posteromaniaca della storia. L’ingiustizia presente, l’ingiustizia rispetto al presente non ha circostanze attenuanti. Essa non ha prezzo al mercato delle sofferenze e delle ricompense.

Essa è irreparabile.

“Preparare la giustizia definitiva e lontana con dell’ingiustizia intermediaria e prossima, ciò non è giusto”31. Anzi, “meglio vale cominciare col credere soprattutto che il giusto è giusto quali che siano le sue conseguenze economiche”. I teoremi secondo cui la disoccupazione ed i profitti di oggi faranno i posti di lavoro di domani non rientrano nella logica di Péguy.

Massima di poeta estraneo alla realtà? Primato irrealista della morale sull’economia? Può essere. Si tratta semplicemente di rifiutare un’economia che cammina da sola, per conto suo, indifferente agli uomini ed alla morale. Si tratta di rifiutare un’economia feticcio automatico che decide tutto da sola, ed un mercato anonimo che si issa sul trono del Dio decaduto per decidere al suo posto del bello, del vero, e del giusto. Si tratta di immaginare una “economia morale”32.

Partendo da questa convinzione testarda e popolare che il giusto è giusto.

Che la giustizia è verticale. E non demordendo.

[|- X -|]

“La politica primeggia ormai sulla storia”33.

Le Tesi di Walter Benjamin sul concetto di storia sono una risonanza della critica péguista. Nel cuore del disastro, esse tirano le conclusioni che si impongono da questa temporalità radicata nel presente34.

La politica di Péguy non è altro che la sua critica della storia. Essa ne è l’altra faccia, il rovescio, o la conclusione. Marcia con e non separatamente.

“Lavorare quindicina per quindicina”, è estrarre dal circostanziale, dal congiunturale, dall’accidentale la sua parte di eternità. Non è certo fare della mercanzia con l’illusione di fare dell’arte; è fare dell’arte lavorando il presente corpo a corpo. Questo tour de force, questa metamorfosi del perituro in imperituro, dell’insignificante in pienezza di senso, del dimenticato in salvato, fa dei testi di Péguy un’opera organica, tanto forte quanto insolita.

Perché, non certo di più dell’economia, l’estetica non potrebbe esistere per conto proprio, indipendentemente, occupata a lisciare le sue piume lontana dal tumulto. Anche essa sprizza nel presente. Come una invenzione, non come un prestito al passato per agghindare ed estetizzare la politica. Come un bisogno pressante, diceva ancora Benjamin, di “politicizzare l’arte”. Così intesa la politicizzazione dell’arte non ha niente da vedere con i grandi ornamenti placcati del monumento fascista o staliniano. Niente da vedere con un’arte di propaganda, ove lo strumento estetico asservito resta esteriore alla sua causa. Essa iscrive la sua contemporaneità critica esplosiva nel cuore stesso del politico.

Il bello, in effetti, non è moderno. Come lo ricorda il poeta, esso resiste alla disarticolazione del mondo. Tiene testa alle duplicità ed alle triplicità. Al gioco delle due mani, alle morali a triplice fondo. Essa non fa la parte delle cose e non lascia resti.

“Ma tu vedi solo ciò che è bello, ti interessi solo a ciò che è bello, mi diceva spesso Sam.

No, io vedo anche il resto, ma nel bello non ci sono resti”.35

[|- XI -|]

La politica così concepita è il negativo della modernità.

Mentre lo spirito moderno fa il forte ed il furbo, anche quando fa delle spacconate, questa modernità a sua insaputa è immersa nella densità di una religiosità nuova, storica e positivista. “Il mondo moderno, lo spirito moderno, laico, positivista ed ateo, democratico, politico e parlamentare, i metodi moderni, la scienza moderna, l’uomo moderno credono di essersi sbarazzati di Dio; ed in realtà, per chi è capace di considerare un poco al di là delle apparenze, per chi vuole andare al di là delle formule, mai l’uomo è stato così imbarazzato di Dio”36. Questa modernità è una demitologizzazione mancata, una falsa sortita dalla teologia. Fondata sull’oblio, essa esige “l’abolizione totale” della memoria, che è ancora, che è sempre “sotto un’altra forma moderna, il miracolo ed il mistero della Creazione”37.

Questo è in effetti il vizio intrinseco della modernità.

Nel disprezzo della memoria. O, ciò che è lo stesso da un altro angolo, nello smoderato gusto per la storia ragionatrice pronta a tutti i ragionamenti ed a tutte le giustificazioni. E’ un vizio di infedeltà e di solitudine, ove “le potenze moderne intellettuali divenute politiche… conservano a loro servizio tutti i diversi ed ingegnosi apparati dell’inferno sociale laicizzato”.

Ecco il tempo del disprezzo annunciato da Rousseau.

Ecco l’avvento del mondo “di coloro che non credono più a niente” e “se ne fanno vanto e gloria”. Ecco l’avvento del mondo moderno “che fa il furbo”, il mondo “di coloro” che non hanno più niente da imparare, di coloro “che non sono dei cretini, degli imbecilli”, come noi; il mondo di coloro che non credono più a niente, “neanche all’ateismo”, “che non hanno mistica e che se ne vantano”, che vogliono giocare su due tavoli e con due mani. Ecco dunque l’inizio del mondo “che noi abbiamo chiamato, che non cesseremo di chiamare il mondo moderno”38.

Il giornale è il simbolo di questa modernità. E’ il luogo del tempo in briciole, di un falso presente senza contenuto. Il teatro ove il diverso fatto quotidiano si rizza sui suoi falsi talloni storici per giocare il ruolo dell’avvenimento assente. Lo specchio di una umanità narcisistica metamorfosata in brogliaccio. E’ insomma, nella sua bulimia di fatti e nella sua frenesia di registrazione, un miserabile sostituto della memoria.

“Ogni uomo moderno è un miserabile giornale. E non un miserabile giornale di un giorno. Di un solo giorno. Ma è come un miserabile vecchio giornale di un giorno sul quale, sulla stessa carta del quale si sia tutte le mattine stampato il giornale di quel giorno. Così le nostre memorie moderne sono sempre e solo delle infelici memorie sgualcite, delle infelici memorie acciarpate… II moderno è un giornale… E noi non siamo più che questo orrendo affastellamento di lettere. I nostri antichi erano carta bianca ed il lino stesso col quale si farà la carta. I letterati erano dei libri. Noi moderni non siamo più che carta pesta di giornali”39.

I Cahiers, essi, non sono moderni. Non sono omogenei, scaglionati sullo scorrere bimensile del tempo. Essi vivono al ritmo dell’avvenimento. “Essi sono lunghi quando la quindicina è spessa”. E’ tutto.

Essi contendono il presente alla moda. Sono un anti-giornale.

[|- XII -|]

Nel mondo moderno, sottomesso alla dittatura della quantità, alla legge dell’opinione che fa numero e della maggioranza che fa massa, “ognuno pensa a maggiorizzare”. Il mercato parlamentare obbedisce alla legge della concorrenza. Ed il peggio non è questa fascinazione maggioritaria, questa ossessione del far numero; il peggio è nell’annientamento che, corollariamente, colpisce le minoranze. Le minoranze non fanno affatto peso.

Non 6 molto tempo, un vecchio rivoluzionario rinnegato, intervenendo sulla questione del sistema elettorale, dichiarava, in Liberation, che al di sotto del 5%, comunque, le minoranze non contano più. E tuttavia, “noi rivoluzionari siamo stati sempre un’infima minoranza. E per lungo tempo noi siamo in infimità”40. Questa minoranza vale poco sulle bilance elettorali.

E tuttavia…

“Lungo tutto l’affare i dreifusardi furono in Francia la minoranza infima”. Giustizia e verità non dipendono certo né dal suffragio maggioritario né tanto meno dal giudizio della storia ventriloqua. Se no, ci sarebbe da disperare. Se no, bisognerebbe rassegnarsi alla dittatura stupida e testarda del fatto compiuto. Bisognerebbe piegare la nuca davanti al numero che non si accontenterebbe più di fare maggioritariamente legge, ma avrebbe ormai anche autorità sul vero. Tanto è vero che la democrazia non è l’altro assoluto della dittatura.

Tanto è vero, in un tempo – moderno – ove “non si diventa popolare senza avervi un poco contribuito”, nel quale “non si diventa popolare senza percepire” che la politica parlamentare, ad immagine del giornale, è sottomessa all’imperativo categorico della tiratura; sotto il regno della pubblicità, “non bisogna aver commesso meno sozzure per ottenere una tiratura di cento quarantamila di quante ne servono per ottenere cento quarantamila voti”. Non si è decorati proprio malgrado. Nel regno della demagogia parlamentare, “la popolarità non è che la decorazione della demagogia”41.

Il parlamentarismo, è la politica moderna.

Come il giornalismo, esso distilla la sua dose velenosa di corruzione. Di corruzione ordinaria e banale, monetaria e materiale, e di corruzione del secondo tipo, insinuante e sinuosa, intellettuale ed obliqua, che curva la convinzione ai capricci della gloriuzza. La vana gloria! La gloriuzza “profondamente borghese, borghese in se stessa”.

Alla quale resiste la non-sottomissione “degli ingloriosi”42.

[|- XIII -|]

Anche prima che Roberto Michels o Rosa Luxemburg ce ne facessero la radioscopia, Péguy ha visto nascere, sotto i suoi occhi, e con suo grande dispiacere, il mostro dell’anche “grande e solo partito della burocrazia”, il grande partito moderno nel quale destre e sinistre si confondono; nel quale i loro oratori, parlamentari, giornalisti, quando si affrontano, “si battono solo dietro Io sportello” e mai attraverso lo sportello “perché allora sarebbe una cosa seria”. A costo anche di discutibili slanci polemici (ma questo prezzo era, avendo visto le catastrofi del secolo, eccessivo?) Péguy, come Sorel, coglie all’origine la corruzione parlamentare del movimento socialista nascente.

Prima di Max Weber, percepisce con uno sguardo lo slancio della quantificazione generale e della razionalizzazione burocratica. Vede bene l’enorme manipolazione metafisica all’opera dietro la consacrazione delle nuove scienze umane. Egli comprende perfettamente, contro Renan, il patto autoritario tra lo Stato, la scienza, e la nuova fede. Non si lascia ingannare dalle dimostrazioni che fanno dei metodi induttivi il modello eterno della scienza. Non accetta per oro colato l’idea della scienza di successo, indurita, intollerante, sul punto di scacciare anche il ricordo della vecchia scienza tedesca. Ha anche l’audacia di chiedergliene conto: “Perché avremo da chiederci ciò che potrebbe ben essere la sociologia, in quale senso ed in quale misura essa potrebbe ben essere ed essere una scienza… Dovremo chiederci se la scienza moderna, nelle sue diverse manifestazioni, ma più in particolare a proposito dell’introduzione della sociologia, non è proprio putrida di metafisica, in realtà ed anche di metafisiche, delle metafisiche le più pericolose, ed anzi io direi delle più pericolose, delle sole che siano pericolose fra tutte le metafisiche, poiché sono dissimulate, inconfessate, che non si dichiarano e non si vogliono tali”43.

Egli vi sente la religiosità nascosta e vergognosa di se stessa.

Proprio qui, nella pretesa all’inizio assoluto. In quell’improvvisa separazione della luce dalle tenebre. In quella nascita di un niente che più tardi si chiamerà rottura epistemologica, vi era come la reminiscenza e la nostalgia della creazione. Si, vi era un miracolo sospetto in quella subitaneità. In quella entrata in scena. “All’improvviso e tutto d’un colpo. Diciamo la parola appropriata: miracolosamente”.

Prima di Michels e di Weber, Péguy stana la burocrazia e prova il disincanto. Senza rassegnazione, il suo percorso è un doloroso irrigidimento, sempre più solitario, davanti alle implacabili potenze della modernità.

[|- XIV -|]

Di fronte a tali potenze, di fronte al patto fra la scienza e lo Stato, di fronte all’onnipotenza della pretaglia burocratica, Péguy veglia allo spartiacque. Contro gli accomodamenti e le riconciliazioni, contro le usurpazioni e le indulgenze, egli sceglie “le belle rotture” e le franche fratture.

Un vinto non viene a patti con i vincitori.
Un inglorioso non transige con la gloria.
Principio di resistenza e di dignità.

“E la rivoluzione non consisterà certo nel rimpiazzare la vecchia gloria borghese con una gloria socialista, brevettata, con la garanzia di un nuovo governo, come non consiste nel rimpiazzare la vecchia concorrenza borghese con un’emulazione socialista abilmente ornata con bei nastri. La gloria è in un senso l’autorità della reputazione. La mia rivoluzione sopprimerà ogni autorità. Altrimenti essa non sarebbe definitiva, non sarebbe la rivoluzione”44.

Da ciò deriva l’affinità elettiva di Péguy per Bernard Lazare.
Da ciò l’intransigenza del suo socialismo libertario.

Vi è del guesdismo nel socialismo come vi è del gesuitismo nella Chiesa. Perché “non vi sono solo dei capitalisti di denaro: Guesde è un capitalista d’uomo”. A rischio dell’eccesso e dell’ingiustizia, qui Guesde è un tipo, quello del capo operaio conquistato dalla routine del progresso e della promozione. Se non è lui, saranno Ebert o Noske, Mollet o Bérégovoy, o tanti altri. Sono “quelli di noi che cominciano col comandare o coll’asservire dei rivoluzionari” e che sono “in ritardo, dietro la rivoluzione borghese”45. Questo guesdismo, è già la ragion di Stato trionfante nel movimento socialista. Quella che si esprimerà e si realizzerà in tutte le unioni sacre ed in tutte le gestioni leali.

Péguy ha subito annusato la Chiesa ed il tribunale nel partito. Egli ha percepito la vecchia attitudine autoritaria, la vecchia mania del giudizio delle Chiese, degli Stati moderni e borghesi. La sua stessa veemenza è il segno di un’irrimediabile ferita, di una delusione inconsolata. Dopo il suo scontro con Blum ed Herr sulla libertà di stampa, egli si confessa “sconvolto”, “sconvolto dalla delusione”. Ormai, non avrà mai abbastanza diffidenza nella veglia contro l’abuso di potere, contro la confusione della ragione critica con la ragione di Stato.

Perché la ragione non procede dall’autorità governativa ed è venir meno ad essa “il voler stabilire un governo della ragione” o un ministero dell’intelligenza! “Non ci può essere, non ci deve essere né ministero, né prefettura, né sottoprefettura della ragione, né consolato, né proconsolato della ragione:… in nessun senso la ragione è la ragione di Stato; ogni ragion di Stato è una sleale usurpazione della autorità sulla ragione, una contraffazione, una cattiva azione”46. Un “moto di coscienza” varrà sempre di più di tutti i decreti della ragione istallata ed istituita.

[|- XV -|]

Come l’economia non può emanciparsi dalla politica, così la politica non può dunque emanciparsi dalla morale. A differenza della storia, la cui fatale illusione consisterebbe nel credere che essa marcia con la giustizia, mentre “i pretesi recuperi della giustizia e della storia sono solo delle false e fortuite coincidenze”, la rivoluzione sociale sarà morale o non sarà affatto.

I Cahiers ne fanno il loro credo.

Ciò che Péguy non può perdonare a Jaurès, è proprio questa moderna distinzione dei generi e questa moderna divisione dei compiti: di aver fatto di un affare “che era rivoluzionario e morale”, di questo tipo di affari, sui quali non ci si può mai riconciliare, un semplice ricominciamento parlamentare.

Tra questa morale rivoluzionaria e questa politica parlamentare, l’esclusione è reciproca. Non vi è possibilità di promiscuità, di coesistenza, di coabitazione. Non è altro, in fondo, che il principio stesso del gesto rivoluzionario: “Si può dire veramente che l’affare Dreyfus ed il dreifusismo furono la condanna della politica, e che reciprocamente la politica era la condanna dell’affare Dreyfus e del dreifusismo. Vi era fra il dreifusismo e la politica un’incompatibilità totale, essenziale. Così fino a quando visse la politica, il dreifusismo non visse affatto. Il dreifusismo interruppe la politica; la politica ha interrotto il dreifusismo. Quando e dove l’affare Dreyfus comincia, la politica finisce. Quando e dove la politica ricomincia, l’affare Dreyfus finisce. Il dreifusismo e la politica non possono essere contemporanei; non possono risiedere insieme nella stesse coscienze. Non possono dimorare nella stessa città”47.

La politica, come è diventata e come la si intende, ed il dreifusismo, in quanto politica morale, tutta di un pezzo e coerente, sono dunque inconciliabili. La politica parlamentare è un calcolo di interessi ed uno studio di mercato; la morale rivoluzionaria è una regola di condotta possibile, della responsabilità e della convinzione.

La morale senza convinzione è irresponsabile. Solo la responsabilità politica è immorale. Morale e politica non possono andare l’una senza l’altra, senza la permanente tensione del loro dialogo.

In fondo non vi è morale che di convinzione.

[|- XVI -|]

Péguy non ha mai pensato altro.

Non ha mai ceduto all’intorpidimento dell’affare Dreyfus.

In tempi frivoli e versatili, egli è l’uomo della fedeltà e della continuità. “Noi abbiamo ricevuto il nome di dreifusardi come una ingiuria all’inizio dell’epidemia, perché soli non eravamo malati. Si buttò su di noi questo nome come la folla di Oporto gettava pietre ai medici. Noi conserveremo questo nome se è necessario, e per tutto il tempo nel quale lavoreremo alla riparazione”48.

Fedeltà e continuità sono percepite dai furbi, che girano al più piccolo vento, come le necessità fatte virtù per l’irrigidimento e l’invecchiamento. In Péguy esse sono, al contrario, la caratteristica della giovinezza e dei “professionisti della giovinezza”. Per le età vale la stessa cosa delle ninfee. Lo slancio, lo sbocciare dei primi è spesso quello buono. La fedeltà è dunque anzitutto fedeltà alla giovinezza prodiga, che ancora non calcola, che non ha ancora appreso la prudenza del risparmio, che segue gli ordini “della giusta emozione” ancora intatta.

Péguy si tiene agli antipodi dei pentimenti e dei rinnegamenti.

Quando giunge il tempo scettico delle burla, delle complici condiscendenze, dei sorrisi forzati, dell’aver brandito delle bandiere, scandito dei nomi, maneggiato il manganello, egli rifiuta il conforto insudiciato delle connivenze generazionali. Egli è un villano, certamente spesso insopportabile, quel vegliatore di memoria. Ma la sua serietà umoristica ricorda del tutto semplicemente che non si ride di tutto con chiunque, e che questo è il primo principio del rispetto di se stessi.

Perché, in fin dei conti, una volta messa da parte la parte degli errori e delle illusioni, il grande oblio approssimativo, la grande riconciliazione al centro, la grande neutralizzazione dei prò e dei contro non è sempre possibile. A meno che non si voglia rinunciare a credere “che il giusto è giusto”. Ma allora, tutti i gatti sarebbero bigi e tutto sarebbe possibile.

Ad ogni “giuventù” il suo “affare”.

“La quantità di illusione era enorme senza dubbio ma se non ci fosse stato niente, ma se non ci fosse stato questo movimento, questo soprassalto, la convergenza attiva di tutti quei rifiuti, saremmo allora coperti di vergogna, ed in modo peggiore di quanto potesse succedere per le sviste che, nel fuoco ardente delle azioni di sostegno, abbiamo potuto commettere”49.

Notazioni conclusive

Lo scopo si questo testo non potrebbe certo essere quello di ristabilire una verità, peggio una ortodossia, di Péguy. Come dice Robert Scholtus, “la citazione di Péguy è autorizzata solo dalla situazione che è la sua”. Essa comunque non ci dispensa dal cercare la nostra propria risposta alla “esigenza irrecusabile del presente”, anche se la svolta storica riporta oggi sulle origini della Repubblica i grandi interrogativi della nazione, della guerra, della religione, della laicità, C determina un’eclatante attualità di Péguy.

Almeno bisogna rispettarne l’atteggiamento. Non fare affatto di questo attizzatore di discordia un santo patrono ecumenico. Egli non è nel registro del consenso e della calma: “anche il rispetto che dobbiamo avere per le nostre amicizie esige imperiosamente che dobbiamo romperle nettamente; alle vere amicizie, sono necessarie delle belle rotture”. Ciò che è forte, non è il litigare con la metà del mondo. Ed anche con la più piccola delle cose. Ciò che è forte, è osare, se è necessario, rompere anche con la seconda metà.

Péguy si è forse distrutto volendo andare troppo lontano e troppo dritto nella sua strada. Forse, malgrado il suo accanimento nel non essere religioso, “neanche con Renan”, la sua conversione finisce per dare ragione a colui che prega sull’Acropoli. A troppo laicizzare, a troppo secolarizzare, a grattare la religiosità fino al sangue, non si può avere altro risultato che la rinascita del religioso: a rifiutare la legge della storia e del progresso, si rischia di rimanere con lo scetticismo o con la fede. A meno che non si riesca ad opporre alla vecchia teologia, non il vuoto dell’astrazione e del numero, ma, come fa Benjamin, la vigilanza di una teologia negativa sempre sul chi vive.

Con Sorel, con Lazare, Péguy fa eccezione nel pesante paesaggio del positivismo francese. Nutrito di Pascal, egli ne percepisce la grigia crosta. Questa salutare fuga ed eccezione basta a pretendere contro ogni verosimiglianza che egli indica, con Benjamin, un modesto sentiero praticabile per un ritorno a Marx? Bisognerebbe a questo scopo dimostrare che esiste un Marx in letargo, da lungo tempo dimenticato dalle ortodossie socialdemocratiche e staliniane, e che il nostro presente tumultuoso potrebbe ancora risvegliare dai suoi incubi. E’ certo un vasto programma di lavoro. Ed è un’altra storia.

Traduzione a cura di Angelo Prontera
Idee 21, anno VII, n° 21, Settembre-Dicembre 1992

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  1. Lettera di W. Benjamin a G. Scholom, 15 settembre 1919, in Correspondance, Paris,
    Aubier, tomo I, p. 200. Si veda anche la lettera del 19 settembre 1919 nella quale
    Benjamin scrive: “La più importante conoscenza letteraria che ho fatto ultimamente è
    quella di Charles Péguy”. Benjamin, lettere 1913-1940, a cura di G.G. Scholem e T.W. Adorno, Torino, Einaudi, 1978, p. 57.
  2. Ci riferiamo ai due significativi passi che qui vogliamo solo, per comodità, ricor
    dare. “Dato che un grandissimo pittore ha dipinto ventisette e trentacinque volte le sue
    celebri ninfee, quando le ha dipinte meglio? […] Il movimento logico sarebbe quello di dire: l’ultima volta, perché sapeva (il) più. Ed io dico: al contrario, in fondo, la prima
    volta, perché sapeva (il) meno. […] Il movimento logico è nel credere, nel professare che
    naturalmente l’autore guadagna ogni volta, avanza ogni volta, progredisce ogni volta,
    perché ogni volta (successiva) sa evidentemente meglio della volta precedente. […] E’ la
    teoria stessa e l’idea del progresso. Essa à al centro del mondo moderno, della filosofia e
    della politica e della pedagogia del mondo moderno” (Ch. Péguy, Clio, 1907-1909, ora in
    traduzione italiana, in corso di stampa, presso Milella di Lecce). “Cartesio non ha bat
    tuto Platone come il caucciù vuoto ha battuto il caucciù pieno e Kant non ha assoluta
    mente battuto Cartesio come il caucciù pneumatico ha battuto 11 caucciù vuoto” (Ch.
    Péguy, Bar-Cochebas, 1907 ora in Ch. Péguy, Pluralista, col titolo Metafisiche,
    Filosofie, religioni e […] “progresso” moderno, Lecce, iusEAed. 1991, p. 70.
  3. Cfr. Ch. Péguy, Renan e l’avvenire della scienza, 1906, trad. It. In “Idee” nn. 5/6,
    1987, pp. 103-112.
  4. Renan, <em>L’avvenire della scienza.</em>
  5. Ch. Péguy, La Préparation du congrès socialiste, in Œuvres en prose complètes, a cura di R. Burac, Paris, Pléiade, 1987,1, p. 351.
  6. Ch. Péguy, La ragione, 1907, trad. it. in L’anarchia politica, a cura di A. Prontera,
    Roma, Logos, 1978, p. 51.
  7. Cfr. K. Marx, La Sacra Famiglia.
  8. Ch. Péguy, Deuxième elegie XXX, (1908), ora in Œuvres en prose complètes, a cura
    di R. Burac, t. II, 1988, Paris, Plèiade, p. 942.
  9. Ch. Péguy, Victor-Marie Comte Hugo, Paris, Gallimard, p. 61.
  10. Ch. Péguy, Véronique, Paris, Gallimard, p. 56 (trad. it. Lecce, Milella, 1992).
  11. Ch. Péguy, Un nouveau théologie, Paris, Gallimard, p. 92.
  12. Ch. Péguy, Un poète l’a dit, (1907), in Œuvres en prose complètes, t. II, cit., p. 869.12
  13. Ch. Péguy, A nos amis, à nos abonnés (1909), ora in Œuvres en prose complètes, t.
    II, cit., p. 1298.
  14. Ivi.
  15. Ch. Péguy, Un poète l’a dit, cit, p. 864.
  16. Ch. Péguy, Véronique, cit., p. 249.
  17. Sull’opposizione tra l’avvenimento ed il disastro cfr. Alain Badiou, D’un désastre
    obscur, Paris, Editions de l’aube, 1991.
  18. Ch. Péguy, Par ce demi-clair matin, (1905), ora in Œuvres en prose complètes, t.
    II, cit, p. 112.
  19. Ch. Péguy, Véronique, cit., p. 70.
  20. Ch. Péguy, Avertissement a M. Mangasarian, Le monde sans Dieu, (1904), ora in
    Œuvres en prose complètes, t. I, cit,, p. 306. (Trad. it. col tìtolo Un mondo senza Dio? Tradizione e rivoluzione, Lecce iusEAed., 1992.
  21. Ivi.
  22. Ibidem, p. 1312.
  23. Ch. Péguy, Notre Jeunesse, (1910), Paris, Idées-Gallimard, p. 43. (Trad. it. La no
    stra giovinezza. Il dinaro, Tcrino, Utct, 1972).
  24. Ivi.
  25. <em>Ivi.</em>
  26. Ch. Péguy, A nos amis, à nos abonnés, cit, p. 1273.
  27. Ivi.
  28. Ch. Péguy, Note conjointe sur M. Descartes et sur la philosophie cartésien
    ne, Paris, Gallimard, p. 75. (Trad. it. in Ch. Péguy, Cartesio e Bergson, Lecce, Milella,
    1978).
  29. Ch. Péguy, Compte rendu de congrès, (1901), ora in Œuvres en prose, t. I, cit, p. 797.
  30. Ch. Péguy, Leon Walras, in “Revue socialiste”, 15 février 1897. (Trad. it. in “Note”,
    nn. 14/15,1987/1988).
  31. Ivi.
  32. La nozione di economia morale è stata avanzata dallo storico inglese E.P.
    Thomson a partire dalle rivendicazioni sociali portate innanzi dai movimenti eguali
    tari nelle rivoluzioni inglese e francese.
  33. W. Benjamin, Paris capitale du XlXéme siede, Paris, Cerf, 1989, p. 405 (Trad. it. in W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, pp. 140-156).
  34. Cfr. il mio libro W. Benjamin, sentinelle messianique, Paris, Plon 1990. Cfr. anche
    Stephan Moses, L’ange de l’histoire, Paris, Seuil, 1991. Ho anche apprezzato molto
    l’intervento di Robert Scholtus sui rapporti Péguy-Benjamin durante il convegno orga
    nizzato nel Maggio 1992 dalla rivista “Esprit”.
  35. Jean-Christophe Bailly, Description d’Olonne, Paris, Bourgois, 1992, p. 81. Il bel libro di Bailly sulla sua villa fantasma comporta, sul tempo e sulla durata, la cronaca e la malinconia, il presente e l’avvenimento, di evidenti “corrispondenze” o “risonanze” peguiste, intenzionali o meno.
  36. Ch. Péguy, Zangwill, (1904), ora in Œuvres en prose complètes, t. I, cit., p. 1401 (Trad. it., in Ch. Péguy, Questioni di metodo, Lecce, Milella, 1992).
  37. Testo postumo del febbraio 1906 ora in Œuvres en prose complètes, t. II, cit., p. 468. Cfr. a questo proposito E. Bloch, L’athéisme dans le christianisme, Paris, Gallimard.
  38. Ch. Péguy, Notre jeunesse, cit, p. 15.
  39. Ch. Péguy, Note conjointe […], cit., p. 90.
  40. Ch. Péguy, Pour mai, (1901), ora in Œuvres en prose complètes, t.1, cit., p. 688.
  41. Ch. Péguy, Réponse brève à jaurès, (1900), ora in Œuvres en prose complètes, 1.1, cit., p. 561.
  42. Ivi.
  43. Ch. Péguy, Brunetière, (7906), ora in Œuvres en prose complètes, t. II, cit., p. 619. (Trad. it. in Ch. Péguy, Lo spirito di sistema, Lecce, Milella, 1988).
  44. Ch. Péguy, Réponse brève à Jaurès, cit., p. 561.
  45. Ch. Péguy, Réponse provisoire (1900), ora in Œuvres en prose complètes, t.1, cit., p. 337.
  46. Ch. Péguy, De la raison (1901), ora in Œuvres en prose complètes, 1.1, cit, p. 835.
  47. Ch. Péguy, Reprise politique parlementaire (1903), ora in Œuvres en prose com
    plètes, t. I, cit., p. 1179.
  48. Ch. Péguy, Le ravage et la réparation (1899), ora in Œuvres en prose complètes,
    t.I, cit., p. 281.
  49. Jean-Christophe Bailly, Le Paradis du sens, Paris, Bourgois, 1987.

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