1968: Conclusioni e strascichi

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Se ci si riconcilia su una data faccenda, è che non ci si capisce più niente […]. Chi dice riconciliazione in questa accezione storica – sostiene lei [Clio, in veste della storia] – dice pacificazione e mummificazione.”
Péguy, Clio

Finito il ’68?

La fine annunciata non è uno scoop del quarantesimo anniversario. Non è di oggi, né di ieri.

In certo senso, e fino a un certo punto, il ’68 è finito, senza tante storie. Ma: in un altro senso, e fino a un certo punto? Nel senso e al punto che si tratta di un contenzioso, di una di quelle questioni che fanno da spartiacque, di quelle questioni non archiviate, su cui non ci si riconcilia. Perché se ci si riconciliasse, se si facesse la pace, diceva Peguy alla luce di un altro episodio famoso, vorrebbe dire che non ci si capirebbe più niente. Vorrebbe dire che la memoria viva sarebbe morta e pietrificata in storia monumentale e archivistica.

Se occorresse la prova che la faccenda non è archiviata, che il suo spettro continua ad agitarsi, sarebbe sufficiente la furia termidoriana e “versagliese” del discorso di Sarkozy a Bercy, il 29 aprile 2007: “In questa tornata elettorale quello che si deve sapere è se l’eredità del Maggio ’68 va perpetuata o se deve essere liquidata una buona volta per tutte. Io voglio voltare la pagina del ’68». A quarant’anni di distanza! Accanimento curioso. Strano discorso espiatorio. I versagliesi vincitori hanno trasformato il Sacré-Coeur nel monumento espiatorio dei crimini attribuiti alla Comune di Parigi. Lo Stato francese di Vichy ha eretto un altare alla trinità “Lavoro/Famiglia/Patria” per riscattare le colpe del Fronte popolare, ritenuto responsabile della disfatta del 1940. Si tratterebbe ora di espiare le dissolutezze sessantottine, responsabili della decadenza e del declino francesi?

Per la nuova generazione militante, quella dei movimenti altermondialisti o delle mobilitazioni contro la guerra in Iraq, quella delle lotte contro il contratto di prima assunzione o contro la riforma liberista delle università, il ’68 è lontano, lontanissimo. Quarant’anni rappresentano qualcosa di più antico di quanto non lo era per noi, nel 1968 appunto, il Fronte popolare. Un episodio ormai pressoché raffreddato? Un tema da convegno? La materia prima di un sapere storico positivo. Peguy faceva dire a Clio – la storia – sull’affaire Dreyfus: “Essa è proprio così, è al riparo nell’ultima duna in cui si può pensare che si trovi ancora, che continui ad essere testo e materia per rammentare, per ricordare, per un memorialista e un cronista. Stando lì più vicina, stando a portata di mano, si pensa che non sia diventata storia. “Rassicuriamoci, ragazzi miei [è sempre Clio a parlare], e piangiamo su di essa: ormai è morta, non ci dividerà più”.1 Ebbene, sì. Al pari della Rivoluzione francese, dell’affaire Dreyfus, il ’68 continua a dividere. Perché non si è ancora riusciti a riconciliarsi su questa questione, a farci perdere prematuramente e artificialmente il senso di quella vicenda. Nonostante “il gioco dei politici sia stato, appunto, esattamente quello di trasformarci prematuramente e artificialmente in storici»; da militanti, in storici dell’evento ’68.

La memoria continua ad agitare il sonno della storia. Se, infatti, “un senso del reale c’è – e nessuno può dubitare che abbia il diritto di esistere – deve pur esserci qualcosa che potremmo definire il senso del virtuale”.2

Ciò che presenta ancora un interesse non sono le ceneri del ’68, ma le sue braci, il riemergere dei presunti sconfitti e respinti. Quarant’anni non basteranno a farci piegare la schiena e chinare il capo di fronte al fatto compiuto.3

E le nostre ginocchia non sono ammaccate dalla ripetuta genuflessione di fronte agli incerti verdetti di una storia ventriloqua. Perché, insisteva Blanqui all’indomani amaro della Comune, “il capitolo dei bivi rimane aperto alla speranza”.

Quarant’anni, ormai. Quattro decenni. Quattro anniversari.

Una processione commemorativa. E una revisione permanente.

Nel maggio 1978, la forza propulsiva dell’evento giungeva a esaurimento. In Francia la sinistra aveva appena perso, a causa della sua divisione, una tornata elettorale che sembrava le fosse promessa. Nel mondo, la crisi petrolifera e la recessione del 1974 avevano preannunciato l’esaurirsi del “trentennio glorioso”. Le classi dominanti erano riuscite a controllare l’uscita di scena delle dittature in Portogallo e in Spagna. La celebrazione del Maggio, all’epoca, esitava tra l’addio nostalgico agli anni giovanili e l’età della ragione storica.

Nel maggio 1988, Mitterrand aveva appena ottenuto la sua seconda elezione presidenziale. Il governo Rocard attuava il suo programma social-liberista. Diventata “generazione-Mitterrand”, la classe ’68 autocelebrava la propria personale affermazione sociale e la conversione al senso di realtà.

Nel maggio 1988 era crollato il Muro di Berlino. L’Unione sovietica non c’era più. Si era voltata la pagina del “secolo breve”, il Secolo ventesimo. Rimasto dall’altra parte del Muro, sembrava che il ’68 fosse ripiombato nella preistoria. Non ne sopravviveva se non uno strascico di “riforme della società” effettuate quasi ovunque in Europa, senza che per questo occorressero sciopero generale o barricate.

Il 2008, dunque, rappresenterebbe la generale liquidazione promessa da Sarkozy, l’ora del pentimento e dell’espiazione. Nell’enciclica Fede e Ragione del luglio 2007, Benedetto XVI ha dato il la, definendo il maggio ’68 “una fase di crisi della cultura occidentale», chiamando a censurare “il relativismo intellettuale e morale del ’68». Il discorso di Sarkozy a Bercy fa eco immediatamente a questa predica papale di una nuova crociata civilizzatrice.4

Il 1968 ha costituito un avvenimento globale. A un duplice titolo. È stato, per un verso, un avvenimento nazionale e internazionale, inseparabilmente. Dietro il Maggio francese si profilano la guerra di Indocina, la primavera cecoslovacca, la ripresa del movimento nazionale palestinese dopo la Guerra dei sei giorni, la rivolta degli studenti polacchi, una sollevazione pressoché planetaria dei giovani. Nel febbraio 1968 eravamo appena una manciata a gridare, sulla spianata des Invalides: “Liberate Modzelewski e Kuron!”.5

Alcune settimane dopo, eravamo decine di migliaia a scandire: “Roma, Berlino, Varsavia, Parigi!”, per celebrare la convergenza delle rivolte contro lo sfruttamento capitalistico, contro l’oppressione coloniale, contro il dispotismo burocratico.

Per un verso, si è trattato di un movimento inscindibilmente sociale e culturale. Uno sciopero generale senza precedenti, valutato in Francia in 150 milioni di giornate lavorative (rispetto ai 37 milioni del maggio strisciante italiano del 1969 e ai 14 milioni dei grandi scioperi britannici del 1974). Ma si è anche trattato dell’effervescenza del cinema e della musica (Street Fighting Man degli Stones, I’m Black and I’m proud di James Brown, lo stravolgimento dell’inno americano di Jimmy Hendrix, ecc.). E, ancora, della critica della vita quotidiana, della società dei consumi, che prefigurava i movimenti sociali degli anni Settanta.

Era, comunque, possibile tutto, come si proclamava attualizzando una formulazione di Marceau Pivert relativa al Fronte popolare? Probabilmente non tutto. Ma qualcosa, qualcos’altro, sicuramente. Si dischiudeva un campo di possibilità. Non privo di limiti, ed è questo a distinguere la possibilità data e concreta da quella indeterminata e astratta, che altro non è se non il contrario dell’impossibile.

Il ’68 ha rappresentato lo sbocco di un quarto di secolo di ricostruzione e di crescita. Il quinto piano elaborato per gli anni 1966-1970 dal commissariato al piano collocava il livello di guardia per l’occupazione al 2,5% di disoccupati e si riconosceva che arrivare al tetto di 500.000 disoccupati avrebbe provocato un’esplosione rivoluzionaria. Le rivendicazioni sindacali riguardavano soprattutto il recupero del potere d’acquisto dei salari e una migliore redistribuzione dei “frutti della crescita”. Questo spiega il rientro al lavoro senza grandi scavalcamenti, mentre le conquiste, ancorché significative (mediamente, un 37% di aumenti salariali e conquista di diritti sindacali, soprattutto nelle fabbriche), restavano ben al di sotto di quel che non lasciasse sperare un movimento senza precedenti e, comunque, di una portata simbolica ben al di sotto delle ferie retribuite conquistate nel 1936, o dell’assistenza e previdenza sociale ottenuta nel 1945. Le esperienze di auto-organizzazione sono rimaste un’eccezione e gli apparati sindacali hanno mantenuto la titolarità della contrattazione.

Oggi, tra l’altro, tutti ammettono la composizione esclusivamente maschile delle tribune e prevalentemente maschile dei cortei. Il nuovo movimento femminista è comparso dopo, con la deposizione, il 20 agosto 1970, di un cesto di fiori in memoria della “moglie del milite ignoto”. Così come non ci sono quasi stati rilevanti movimenti di soldati di leva nelle caserme. Il movimento dei comitati di soldati si è diffuso realmente solo nel 1973-1974, culminando nella manifestazione di rue Draguignan e di Karlsruhe. Per finire, pur essendoci stati una decina di morti nel corso degli avvenimenti (tra cui il liceale maoista Gilles Tautin e i due operai della Peugeot di Socheaux) e pur presentandosi spesso in modo spettacolare, anche la violenza è stata relativamente ben controllata e autolimitata da entrambe le parti. Altrettanti indizi che tendono a dimostrare come il problema del potere si sia sì posto nella settimana dal 24 al 30 maggio, ma non ci fossero le condizioni per risolverlo.

La riduzione retrospettiva del movimento del Maggio indica la voglia di liberazione antiautoritaria e di rinnovamento dei costumi, ma offre una lettura spoliticizzata e spoliticizzante, fatta propria esplicitamente in un articolo di Manuel Castells: “In realtà, in fondo, Maggio ’68 è stato un fatto culturale e non politico. Non investiva il potere, tentava di dissolverlo”.6

Dopo aver proclamato all’epoca, incautamente: “Tutto è politico» (formulazione corretta, in certa misura, ma al contempo gravida di tentazioni normative), ora invece si sostiene, al contrario, “niente lo era”. Che si trattava semplicemente di una rivoluzione – anzi di una riforma – culturale, di un aggiornamento del modello di vita, di una magica e illusoria dissoluzione del potere, che sarebbe sufficiente “scacciare dalla propria testa” anziché affrontare concretamente lo scontro.

Anche Daniel Cohn-Bendit canta il de profundis: “Maggio è morto, come è morta la Rivoluzione francese». La smania di proclamare la fine della Rivoluzione francese per esorcizzarne lo spettro non è nuova. Venti anni or sono, François Furet ne è stato il principale difensore. Dal punto di vista dei protagonisti, la Rivoluzione era sì “congelata» (per riprendere Saint-Just) fin dall’inverno 1793 e conclusa in quanto evento a partire almeno dal Termidoro; essa, però, era ben lungi dall’avere esaurito i propri effetti, risorgenti. A sua volta, per Cohn-Bendit, il ’68 è finito “perché ciò che ha costituito la sostanza di fondo della rivolta non c’è più”: “Non si è capito, all’epoca, che cosa implicassero i negoziati di rue de Grenelle come rottura con il conservatorismo del pensiero politico. La prova l’abbiamo oggi con la ‘rue de Grenelle’ dell’ambiente: vediamo come quel riferimento abbia finito per imporsi come un dato storico positivo”.7

Con un gioco di prestigio retorico, la trattativa di rue de Grenelle, le cui conclusioni vennero respinte in massa dall’assemblea dei lavoratori della Renault di Billancourt, e che noi all’epoca pensavamo che puntassero a bloccare il movimento, si trasformano in gemma, in riferimento, nel residuo positivo del ’68. Tardivo omaggio del buttafuoco pentito alla saggezza delle strategie del Partito comunista, allora accusato, e dalla stessa persona, di “senilità” burocratica.

Grenelle, ovvero come fermare uno sciopero per strangolare il movimento.8 In sostanza, Chon-Bendit, Castells e tanti altri declinano a modo loro la formula secondo cui si trattava di “cambiare il mondo senza prendere il potere”, dolcemente, surrettiziamente, a passo di lumaca. Il mondo cambia da solo, però. Non sta ad aspettare noi. Non ha bisogno di noi per farlo. Né smette di cambiare, con l’accelerazione del micidiale girotondo delle merci, con la bulimia spaziale del capitale, con la fuga in avanti delle tecniche di dominio. La mondializzazione, tra l’altro, è esattamente quello scompiglio e quello sconvolgimento permanenti così lucidamente preannunciati più di centocinquanta anni fa: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. […] Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e irruginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci”.9

Il mondo cambia, ma cambia in meglio come in peggio. Il problema, perciò, è sapere in quale società vogliamo vivere e che tipo di umanità non intendiamo diventare, se non sappiamo quale società dovremmo costituire. E la risposta a un interrogativo del genere passa, lo si voglia o meno, per determinati rapporti di forza e determinate lotte per il potere. Lo dimostrano secoli di accanita lotta classe e sarebbe perlomeno incauto dimenticarsene: rue de Grenelle eretta a retaggio del ’68 e la “Grenelle ambientalista” come modello di “dialogo sociale” pacificato significa esattamente cancellare la lotta di classe.10 Equivale a dissolvere il torto, il conflitto nel consenso tra lo Stato riconosciuto legittimo e la “società civile” in cui tutte le vacche sono grigie, in cui si affiancano, dallo stesso lato del tavolo, lavoratori e padroni, sfruttati e sfruttatori, possidenti e posseduti.

La sostanza di fondo della rivolta non c’è più, insiste Daniel-il-Verde. Ma essa non è sparita, È cambiata. È più grave. È ancora più esasperata, di fronte all’approfondirsi delle ingiustizie e delle disuguaglianze. “Vogliamo tutto!”, proclamavano alcuni all’indomani del Maggio. “Tutto e subito!”, soggiungevano altri. Illusioni liriche di una società senza disoccupazione, che credeva nell’abbondanza a portata di mano e aveva fiducia nell’avanzare ineluttabile del progresso. Getting better cantava allora Paul Mac Cartney, tutto va meglio, giorno dopo giorno.

A quaranta anni di distanza, di fronte alle catastrofi sociali ed ecologiche di un capitalismo selvaggio, la maggioranza della popolazione è convinta che le future generazioni vivranno peggio di quelle precedenti.

Getting worse? Ragione di più per restare fedeli all’evento. E per non lasciare che si richiuda la porta semiaperta da cui possono emergere possibilità inopinate.

Traduzione dal francese di Titti Pierini.
1968, fins et suites, Lignes, 2008
© danielbensaid.org

Documents joints

  1. C. Péguy, Clio, Gallimard, Paris,1942, p. 257.
  2. Cfr. Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1980.
  3. Cfr. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, I-III, in Opere complete, Adelphi, Milano, 1972.
  4. La penna dell’Eliseo, Henri Guaino, puntualizza il discorso di Bercy: “Volevamo intervenire su ciò di cui tutti parlano in questa campagna. Si tratti della Royal con il suo ordine giusto, o di Sarkozy con il suo intento di ridare valor al lavoro, è evidente che tutti auspicano il contrario del ’68. Solo che la candidata socialista, per la sua base militante, non può andare fino in fondo. Noi sì. Siamo alla fine del ciclo del ’68» (Libération, 4 maggio 2007).
  5. Karol Modzelewski e Jacek Kuron erano i giovani autori di una Lettera aperta al Partito operaio unificato polacco (la denominazione del locale Partito comunista filosovietico) di critica del dispotismo burocratico, di cui l’anno prima avevamo pubblicato in un opuscolo la traduzione francese. Erano stati messi in galera dal regime. Jacek Kuron, ora defunto, è stato poi ministro sotto la presidenza di Lech Walesa. Karol Modzelewski è ricercatore di Storia medievale.
  6. In Courrier International, 20 dicembre 2007. Giovane profugo spagnolo, assistente di Henri Lefebvre presso il dipartimento di Sociologia di Nanterre, Manuel Castells era venuto in febbraio alla manifestazione di Berlino contro la guerra in Vietnam con i pullman noleggiati dalla Jeunesse communiste révolutionnaire, di cui era allora simpatizzante.
  7. In Politis, 26 luglio 2007.
  8. Su un’interpretazione del genere, Edouard Balladur (negoziatore di rue de Grenelle al fiancodi Chirac e Pompidou) et Charles Fiterman (l’allora sgeretario di Georges Marchais) hanno confermato il loro accordo in occasione di una trasmissione televisiva di gennaio 2008.
  9. K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma, 1996, pp. 8-9.
  10. Non è inutile ricordare che, a differenza degli Accordi di Palais Matignon del 1936, non ci sono stati accordi di rue de Grenelle ma, dopo che i lavoratori della Renault li hanno rifiutati, semplicemente un protocollo applicato unilateralmente dal padronato, e negoziato categoria per categoria tra le “parti sociali”, tra le quali, un volta fermato lo sciopero, il rapporto di forze diventava molto asimmetrico (tra chi detiene il potere derivante dalla proprietà dei mezzi di produzione e chi invece, costretto ad offrire la propria forza lavoro sull’omonimo mercato, lo subisce).

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