Prefazione a Livio Maitan, Per una storia della IV Internazionale. La testimonianza di un comunista controcorrente, Alegre, Roma, 2006.
Il contributo di Livio Maitan a una storia della Quarta Internazionale rappresenta contemporaneamente un passaggio di testimone e la trasmissione di un’eredità.
In effetti, è stato uno degli ultimi a poterlo fare, uno degli ultimi Moicani di una generazione che, controcorrente rispetto all’euforia circostante e alla gloriosa leggenda di Stalingrado, ha scoperto alla fine della guerra i “crimini di Stalin” senza attendere le rivelazioni del rapporto Kruschev, l’Arcipelago di Solgenitsin o la macabra contabilità del Libro Nero del Comunismo. Non furono molti, allora, coloro che osarono “spazzolare la storia contropelo”. Forse, per non cedere alla irragionevolezza dell’epoca, erano necessari un certo eroismo della ragione, una indomabile volontà di comprendere l’incomprensibile, di decifrare i geroglifici della storia, di districare la matassa delle cause e degli effetti.
Il libro di Livio è testimone di questi sforzi perseguiti con perseveranza per più di un cinquantennio. Rende giustizia, senza inutile sentimentalismo, a quella manciata di uomini e di donne inflessibili, che rifiutarono di scegliere un “campo”, secondo la fin troppo semplice retorica binaria del “chi non è con me, è contro di me”, e che hanno combattuto su due fronti, contro il nemico principale (la dittatura imperiale del capitale) e un nemico considerato secondario ma non meno temibile (il dispotismo burocratico).
Quanta derisione hanno dovuto patire questi militanti, esposti spesso alla duplice repressione del nemico dichiarato da una parte e, ciò che era moralmente ancor più inaccettabile, di coloro che avrebbero dovuto essere loro compagni d’armi. Ci è voluta tutta la loro convinzione e la loro rettitudine per salvare dalla grande menzogna storica le vittime delle purghe e dei processi: Andrès Nin assassinato nelle cave di Alcalá de Henares, Ignace Reiss, Rudolf Klement, Ta Thu Thao, Kristian Rakovsky, Lev Trotskij stesso, e tanti altri sconosciuti, tutti eliminati dai loro assassini. Alla mezzanotte del secolo, una “nuova moralità politica” bussava alle porte della nuova era, che ricordava per molti aspetti l’epoca del Rinascimento, “superandola nell’estensione e nel raffinamento delle sue crudeltà e bestialità: […] Nessuna epoca è stata così cinica, così implacabile, così crudele quanto la nostra”. Scrivendo queste righe nell’introduzione del suo lavoro incompiuto, Stalin, Trotskij non poteva conoscere ancora il genocidio delle camere a gas e lo sterminio nucleare di Hiroshima. Ma aveva già fatto esperienza della “grande fabbrica della menzogna” che era diventato il regime burocratico del Cremino.
Nei processi staliniani, “solo i trotskisti non confessarono”, nelle parole dell’omaggio reso loro dal capo dell’Orchestra Rossa, Leopold Trepper, nelle sue memorie. Non è una questione, non prevalentemente almeno, di psicologia o di forza d’animo, ma di convinzione e comprensione della posta in gioco, che sole permettevano di non perdere la testa e di sfuggire alla follia di tempi crepuscolari. Come non cedere allora alla delusione, al disinganno, al risentimento, o a una rassegnata indifferenza? La delusione è cosa da poco, scriveva David Rousset, sopravvissuto ai lager nazisti e lucido analista dell’universo concentrazionario, “bisogna capire, invece”. I delusi, le vittime del risentimento, i disillusi, non spiegano niente, perché avallano il contrario di quanto in precedenza sostenuto con la “stessa imperturbabile autorità”. Quanti vecchi stalinisti pentiti, quanti vecchi maoisti disillusi, quanti zelatori convertiti e credenti disincantati hanno così bene illustrato tale diagnosi!
È precisamente a queste capitolazioni e a queste conversioni spettacolari che era importante saper resistere: “Le delusione è un lusso che non ci possiamo permettere. Il dilemma è semplice ma cogente. Lasciare che sia il caso a decidere o comprendere e agire. Non è sempre possibile agire ma è sempre possibile comprendere. Se la storia non segue il corso che ci aspettiamo, non è colpa del fato cinico e baro”. Scrivendo queste righe, David Rousset restava, nonostante i suoi errori, fedele a un certo spirito del trotskismo della sua gioventù.
I suoi commenti potrebbero fare da epigrafe al libro di Livio Maitan. Capire, innanzitutto! Capire perché la seconda guerra mondiale non è terminata con il rovesciamento della burocrazia sovietica e una nuova ondata rivoluzionaria. Capire il nuovo dinamismo di un capitalismo ieri in agonia. Capire le contraddizioni delle società emerse da queste convulsioni, le loro forme inedite, che si trattasse della rivoluzione jugoslava, di quella cinese o della formazione della “cortina di ferro” in Europa orientale. Capire le prime rivolte antiburocratiche a Berlino Est nel 1953, a Budapest nel 1956, decifrare gli enigmi della rivoluzione culturale cinese, a patto che sia un “comprendere per agire”, anche limitatamente, anche con scarsi mezzi, per mantenere il fragile legame, teso al limite della rottura, tra teoria e prassi.
I benpensanti hanno molto ironizzato su questi trotskisti, specialisti nel tagliare il capello in quattro, e sulle loro molteplici scissioni. Quando la superficie dell’esperienza si riduce, quando il contatto con le masse si affievolisce, esiste in effetti una perniciosa tendenza a esagerare divergenze teoriche, a trarne conclusioni affrettate, a drammatizzare differenze in fin dei conti ridicole o temporanee. È il prezzo di una tragica sproporzione tra il lirismo delle idee e i limiti prosaici del reale. Questa dinamica può essere tanto più distruttrice quanto più si sia convinti che “la crisi dell’umanità è quella della sua direzione rivoluzionaria”, e si pretenda di risolverla: una missione redentrice dalla schiacciante responsabilità, che spinge a dare del tu alla Storia e che può giungere fino alla megalomania patologica.
Livio aveva troppo humour e autoironia per cedervi. Scorrendo le pagine dei suoi resoconti dei congressi della Quarta Internazionale, cosparsi di divisioni e riconciliazioni, consultando documenti ingialliti, è possibile constatare che le polemiche, tanto più teatrali quanto più consumatesi al cospetto di sale vuote (in altre parole, nell’indifferenza delle masse), riguardavano né più né meno questioni cruciali dell’epoca: il significato dello stalinismo e il ruolo mondiale dell’Unione Sovietica, la dinamica delle lotte di liberazione e della rivoluzione coloniale, il posto della Cina nel mondo, l’analisi delle rivoluzioni algerina e cubana, le trasformazioni delle classi sociali nel tardo capitalismo e così via.
Ritornando su questi cinquant’anni di lotte, controcorrente per la maggior parte del tempo, Maitan non pretende di scrivere la storia della Quarta Internazionale. Spetterà agli storici farlo, con il prezioso contributo che si è accontentato di apportare, pur nell’assunzione di una parte dichiarata di soggettività. Così, lo sguardo proiettato sulle controversie relative alla lotta armata in America Latina può apparire incompleto e parziale a molti di noi. Se ne può discutere, ma non gliene si può fare un cruccio, trattandosi di un libro partigiano, non al di sopra, ma fino in fondo nel cuore della mischia. Il manoscritto si interrompe brutalmente nel 1995, con il resoconto del XIII congresso della Quarta Internazionale e con gli appunti di lavoro riguardanti la scomparsa di Ernest Mandel, nel 1996. Questa interruzione e questa scomparsa assumono valore di simbolo. È un’epoca e una generazione che giungono al termine con il capitolo finale sul “nuovo ordine mondiale”. Livio Maitan è stato in effetti con Mandel e il loro mentore Pierre Frank, uno dei traghettatori che ci ha saputo trasmettere questa eredità.
Ma, come diceva forte e chiaro il rimpianto Jacques Derida, “l’eredità non è un bene, una ricchezza che si riceva e si depositi in banca”, è “un’affermazione attiva”, non una proprietà, ma un divenire che senza posa costantemente ricomincia.
Per concludere, qualche parola personale di addio e di affetto verso Livio. L’ho incontrato nel 1967, quando l’esperienza italiana della Sinistra era per noi un modello (discutibile, con il senno di poi). Lo ricordo nei miei incontri quotidiani al bureau dell’Internazionale e nei locali di Inprecor per tutti gli anni Ottanta, spazientito dalle chiacchiere inutili e dalle riunioni cominciate in ritardo, al risveglio dopo una breve, sacrosanta siesta con il sopracciglio battagliero e l’occhio più vivace che mai. Non c’è dubbio, tuttavia, che allora abbia sofferto di una sorta di esilio e una forma di solitudine, anche se, a sessant’anni suonati, proseguiva le sue scappatelle domenicali per giocare a calcio con i compagni di Rouge, ben più giovani di lui. Ancora nel 2002, in occasione del Secondo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, quando i compagni brasiliani gli resero un commovente omaggio, scintillava di malizia e buon umore. Come se, nonostante le numerose ferite e cicatrici testimoni di una lunga vita militante più densa di notti di sconfitta che di mattini di vittoria, e la frustrazione per aver atteso a compiti oscuri e ingrati senza il conforto della notorietà, questo vecchio giovane e pugnace uomo non avesse mai avuto una ruga in viso.